Black
metal: un genere che negli intenti si è sempre dichiarato
elitario, "eletto", appartenente ad una “categoria superiore”, ma che
nei fatti si è trovato a copulare con praticamente chiunque abbia incrociato la
sua strada: folk, psichedelia, progressive, post-rock, shoegaze, industrial,
elettronica, techno, ambient e chi più ne ha più ne metta!
Eccovi dunque serviti altri dieci album per comprendere cosa sia il
"black metal contaminato": se vi siete persi la prima
puntata, cliccate qui, altrimenti...
che diavolo state aspettando? Buona
lettura!
Satyricon: "Volcano" (2002)
Si è visto come in Norvegia certi
esponenti delle vecchia guardia, già verso la metà degli anni novanta, avessero
saputo smarcarsi dagli stilemi classici del black metal. A Satyr e Frost ci volle
un po' di più: ecco che nel 1999 se ne uscivano con quel "Rebel Extravaganza" che, marchiato
da influenze industrial, avrebbe deluso gran parte della fan-base, ma che avrebbe gettato semi importanti per le evoluzioni
del black metal a venire. Con "Volcano"
l'affrancamento dal passato si fece ancora più netto, ma ciò permise ai Satyricon di accattivarsi le simpatie
di nuovi ammiratori, soprattutto fra i più giovani. I tempi rallentavano, la
scrittura veniva notevolmente semplificata e da questo processo di
"riduzione all'osso" scaturivano brani diretti e talvolta
orecchiabili: emblema di tutto questo è il singolone
"Fuel for Hatred", dove le
influenze dei Motorhead divenivano
ben più di un background dettato
dagli ascolti di gioventù. Il termine black'n'roll
esisteva già, considerato che in precedenza Darkthrone e Carpathian Forest
si erano mossi in codesta direzione, ma i Satyricon, forse in modo più
ruffiano, cavalcarono l’onda con maggiore efficacia, riscuotendo consensi fra
coloro che, senza i pregiudizi dei fan
della prima ora, vedevano il rock come un mondo indistinto in cui potessero
convivere black metal e i Foo Fighters.
Blut Aus Nord:
"The Work which Transforms God" (2003)
Il controverso progetto
francese capitanato da tale Vindsval
è comunemente considerato uno dei più geniali rinvenuti nel calderone del "dopo" black metal. Prese le
distanze dagli stereotipi del genere (ed in particolare dall'iconografia
satanica), i Blut Aus Nord accolsero
solamente il carattere concettualmente sovversivo del "metallo nero",
preferendo guardare oltre ed in particolare all'industrial-metal dei Godflesh.
Un sound deviato, forgiato in una
fucina in cui furia senza compromessi veniva combinata con inquietanti liturgie
doom e morbosi impasti sonori pregni di dissonanze e riverberi. A distinguerli
da molti altri sperimentatori fu un uso
creativo delle tecniche di registrazione: i suoni venivano manipolati e
trasfigurati in studio (le chitarre rallentate o velocizzate a seconda della
convenienza, le voci filtrate dagli effetti più svariati ecc.), generando
sensazioni di tremenda claustrofobia, ma di fatto aggiornando la spiritualità
del black metal alla luce delle nevrosi del terzo millennio. In questa sorta di
rituale, in cui convivevano spossanti rallentamenti, accelerazioni letali, ma
anche momenti di grande ispirazione melodica e persino interludi ambientali, l'essenza
del black metal sopravviveva conservando la sua vocazione alchemica ed
occultista, ma soprattutto la capacità di sondare i recessi più oscuri
dell'umana interiorità.
Sunn
O))): "Black One" (2005)
Paradossalmente sarà una band non-black
metal a formalizzare le novità più significative e ricche di
implicazioni della storia recente del genere. I primi tentativi compiuti verso
una concezione di musica ambient e dilatata erano stati tentati molti anni
prima da entità come Burzum e Abruptum, ma Anderson e O' Malley
seppero rimaneggiare le intuizioni dei protagonisti della Norvegia degli anni
novanta con l'approccio dell’intellettuale (citando, fra le altre cose, i Mayhem con il testo di “Freezing Moon” e gli Immortal con una cover stravolta fino a renderla irriconoscibile). Alla stregua di
un saggio sul black metal, "BlackOne" (l'intento era esplicito fin dal titolo) slabbrava e dilaniava la
furia originaria di questo genere, sfilandogli la spina dorsale (l'elemento
ritmico) ed immergendolo nella pece nera della drone-music, vera prerogativa artistica del duo americano. E
(questo va ammesso) con risultati tutt'altro che "morbidi": il black
metal manteneva la sua essenza estrema annullando la velocità e sposando il processo di catarsi, elevato a
"corridoio privilegiato" per raggiungere "luoghi altri" ove
le coordinate spazio-temporali venivano ridefinite. E dove irrimediabilmente si
perdeva l’incauto ascoltatore…
Agalloch: "Ashes Against
the Grain" (2006)
Si è visto che una certa
vocazione destrutturante ha animato il black praticamente dalle sue origini, ma
non potevamo non citare gli Agalloch
per quanto riguarda il compimento definitivo, da parte del black metal, di un
percorso in direzione post-rock. Il
terzo full-lenght della band
dell'Oregon costituiva l'apice formale di questo cammino, benedetto da una
produzione finalmente potente ed al tempo stesso curata, capace di valorizzare
tutti i dettagli e le sfumature di brani lunghi ed in prevalenza strumentali.
Intensi crescendo e linee melodiche di gran classe, così come insegnato prima dai
Mogwai e poi dagli Isis, erano il medium ideale per
modellare l'intensità emotiva espressa dal black metal scandinavo e trasferirla
sotto l'ombra di querce e sequoie del Nord America: una celebrazione di Natura e Tradizione che avveniva anche
tramite il recupero di certe prelibatezze del folk apocalittico (i SolInvictus, per esempio, erano stati in precedenza tributati con una cover). E senza disdegnare certe
soluzioni di dark-wave e gothic metal evoluto. Tutto questo era
bellissimo, troppo bello per durare, ed infatti gli Agalloch si sarebbero
sciolti di lì a poco, dopo solo cinque album che avrebbero fatto la storia del
"Nuovo Black".
Alcest:
"Souvenirs d’un Autre Monde" (2007)
Dalle tenebre alla luce, dal
post rock allo shoegaze. L'intuizione
del giovane Neige (all'epoca poco
più che ventenne) fu di mettere in contatto l’intensità del black metal e l’impeto
malinconico promosso da band come My
Bloody Valentine e Slowdive. In
altre parole, con le sue composizioni eteree e sognanti, creava un ponte fra i
suoni marci e stratificati del black metal e la rarefazione sonora dello shoegaze.
Mondi lontanissimi uniti dalla fisiologia e dalle finalità di due generi
musicali che mettono al centro di tutto l'espressione di mondi interiori: e
così, per magia, i riff al tremolo
divennero l’anima pulsante di un wall of
sound che sapeva coniugare potenza e melodia, introspezione e poetica burzumiana. Neige, armato di una penna
ispirata e di una voce versatile che sapeva farsi dolce e vellutata, diveniva così
il padre di un nuovo sotto-genere, il blackgaze,
destinato a proliferare nel panorama metal (ma non solo) degli anni zero.
Nachtmystium:
"Assassins: Black Meddle, part I" (2008)
Il black metal del nuovo
millennio è americano, non ci sono dubbi. Lo conferma questo gioiello che seppe
mettere d’accordo ferale black metal ed umori
seventies come nessuno aveva
saputo fare prima. Si andò ben oltre il black'n'roll
sdoganato da Darkthrone e Satyricon, insaporendo la pietanza con
prelibate iniezioni di psichedelia
pinkfloydiana. Cosa ancora più interessante, ciò avveniva senza strappi, in
modo omogeneo, come se fosse la cosa più naturale del mondo mettere insieme
velocità supersonica, epicità, ritornelli anthemici,
assoli gilmouriani e persino le
virate fascinose di un sax. Il tutto baciato da una ispirazione che non si
ripeterà più ai medesimi livelli, nemmeno in occasione del secondo tomo di
questa imperdibile operazione.
Ihsahn:
"Eremita" (2012)
Se invece vogliamo trovare una
bella commistione di black metal e rock progressivo
dobbiamo appellarci ad un nume tutelare come Ihshan. Se con gli Emperor
il Nostro aveva dimostrato una visione ampia del black metal (fra grandeur sinfonico e ardite capacità
compositive), sarà nella sua brillante carriera solista che egli saprà dare
adeguato sfogo alla sua verve sperimentale, affrancandosi ulteriormente da quei
paletti che egli stesso aveva contribuito a piantare. In questo "Eremita" (ma tutti gli album
dell'Ihsahn solista valgono un ascolto) troviamo chitarre abrasive e imponenti
orchestrazioni, passaggi di batteria al cardiopalma e beat elettronici, voci pulite ed un acido screaming, dissonanze noise
e persino le contorsioni di un sax in salsa free-jazz. In altre parole: metal, prog ed avanguardia in un
prodotto di gran classe. La partecipazione ad un festival come il Be Prog! My
Friend di Barcellona la dice lunga su questo "intellettuale del
black" che oggi può tranquillamente sfilare accanto, senza sfigurare, a
protagonisti del progressive odierno come Steven
Wilson e Michael Akerfeldt, e ad
act inclassificabili come Ulver e Anathema.
Altar of Plagues:
"Teethed Glory and Injury" (2013)
La formazione irlandese si era
già distinta con due ottimi lavori che proponevano un black metal ispiratissimo
in perfetta sintonia con le tendenze del nuovo millennio, sospese fra
tradizione (chi ha detto Emperor, Darkthrone e Burzum?) e contemporaneità (Wolves in the Throne Room un nome su tutti, se non altro per il messaggio ecologista promosso da
entrambe le band). Con questo terzo (e, ahimè, ultimo) lavoro il trio di Cork
seppe smarcarsi da ogni riferimento conosciuto grazie ad un processo creativo
che, premendo il piede sul freno, decostruiva gli stilemi tipici del black
metal per forgiare un sound fresco
che vedeva convivere in modo pacifico post-rock,
ossessioni swansiane e recrudescenze depressive
black. Un esperimento ardito che forse costituì un salto più lungo della
gamba, ma che seppe mettere d’accordo, come raramente accade, ragione e
sentimento, materia cerebrale e carne viva. Fra passaggi cervellotici e squarci
di dilaniata emotività, “Teethed
Glory and Injury” rimane un caso isolato nel metal estremo ed ogni suo
ascolto non può che farci esclamare: quanto
ci mancano gli Altar of Plagues!
Schammasch:
"Triangle" (2016)
Con questa opera mastodontica
(tre tomi da trentatré minuti e trentatré secondi cada uno) si raggiunge, in un
certo senso, un punto di arrivo
nell'epopea pluridecennale del black metal. Dall'ambizione di doversi
affrancare da tutto e perseguire un percorso di "purezza",
all'ambizione di una visione onnicomprensiva che contemplasse il black in tutte
le sue forme, da quelle più feroci alla sua dimensione più impalpabile. C'è
tutto in questi cento minuti concepiti e realizzati da questi giovini svizzeri
che nel 2016 davano alle stampe solamente il loro terzo lavoro. La musica di
questo fantasmagorico triplo album si
offre alle orecchie, alla mente e al cuore dell'ascoltatore come un vero
viaggio iniziatico che conduce dalla carne allo spirito, dalla vita, mediante il
trapasso, fino a luoghi al di fuori dell’esistenza terrena. In altre parole,
dalle sonorità estreme del primo capitolo,
alla mistica ambient del terzo (per
lo più strumentale e pervaso da suggestioni esoteriche), passando dalle
struggenti melodie del secondo, felice sintesi di sonorità progressive e gothic
metal. Il tutto gestito con estrema perizia e personalità, sebbene ogni
tanto tornino alla mente riferimenti come Behemoth,
Deathspell Omega ed Enslaved.
Zeal & Ardor:
"Devil is Fine" (2017)
Che
questo sia il capolinea delle possibilità evolutive del black metal? Certo
bisogna ammettere che l'impresa dello svizzero Manuel Gagneux, ossia unire black metal e canti gospel dei neri d'America, non è stata affatto banale
(curioso, no?, se si pensa a quando
il black si definiva "arian" ai tempi di "Transilvanian Hunger"). Quella che sembrerebbe una
provocazione fine a se stessa (si è trattato di raccogliere una sfida lanciata
su internet), in realtà si è rivelata un inaspettato colpo vincente, dove, in
soli venticinque minuti, vengono condensate intensità black metal, spunti di elettronica, cantautorato à la Tom Waits e la tradizione dei canti degli schiavi neri d'America,
costretti a convertirsi al cristianesimo del dominatore bianco: aspetto che, in un certo senso, chiude un
cerchio che si era aperto con le saghe sanguinarie dei vichinghi, anch'essi
oppressi dal cristianesimo, narrate niente meno che dal grande Quorton. Che dire: "Devil is Fine"!
Sarà
stato detto proprio tutto o il black metal saprà ancora riservarci ulteriori
sorprese?
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