L'uscita dell'ultima fatica
discografica dei Therion (quel
"Beloved Antichrist" da
anni in cantiere nella mente di Christofer
Johnsson e poi concretizzatosi nel 2018 sotto forma di triplo album), mi ha
portato a riflettere sul senso degli album lunghi.
Il
senso degli album lunghi oggi, intendo: necessità artistica o sfizio d'autore?
Non discuto i contenuti del
lavoro dei Therion, che non ho ascoltato e che non ho intenzione di ascoltare
(perché, onestamente parlando, per quanto mi piacciano gli svedesi, non ho
tempo per ascoltare tre CD per tre ore a passa di musica - chissà, forse lo
ascolterò quando e se andrò in pensione): il mio non vuole infatti essere un
discorso artistico, bensì sociologico.
Ad introdurre la giusta chiave
di lettura è come al solito John
Petrucci, che di album lunghi se ne intende. Alla vigilia dell'uscita di
"The Astonishing" (centotrenta
minuti di virtuosistica melassa
theateriana), il Nostro ci teneva a sostenere che, in una epoca di ascolti
"mordi-e-fuggi", il suo intento era quello di costringere il fan a prendersi il suo tempo e a predisporsi
ad un ascolto attivo, attento. Facile la vita per un artista ultra-affermato
che può contare su una vasta schiera di fan-maniaci
che usufruiscono in modo incondizionato della sua arte. Cioè: suoni nei Dream
Theater, imponi due ore e passa di musica e sai per certo che qualcuno ti
ascolterà. Questa è arroganza bella e buona. Ma chi altri se lo può permettere?
Pochi, veramente pochi. Per
esempio Christofer Johnsson no. Sono contento che un autore di tal spessore e
con tali ambizioni possa permettersi di esprimersi ad un livello simile (meno
contenta sarà stata la Nuclear Blast,
visto che operazioni di questo tipo sono sicuramente più costose che
redditizie: l'etichetta tedesca in genere ci vede lungo, ricordiamoci che già
anni fa si rifiutò di supportare la pubblicazione del fallimentare "Le Fleurs du Mal", che il buon
Johnsson dovette pagarsi di tasca propria). Ma da ascoltatore mi chiedo: chi ha tutto questo tempo per ascoltare
l'ultima rock opera dei Therion? E
chi, fra questi curiosi, avrà il tempo di approfondirla adeguatamente?
Se ci si pensa bene, nessuno:
i vecchi fan sono oramai padri di
famiglia che se va bene hanno venti minuti per ascoltare metal al mattino
mentre cagano; i giovani è già tanto se hanno la costanza e l'attenzione per
ascoltare più di due brani su YouTube. Pensiamo all'evoluzione che i social
hanno vissuto nel corso degli ultimi dieci anni: da Facebook, che rimane un veicolatore di contenuti (foto, video,
scritti, chat, messaggi, link ecc.), a Instagram, un medium fatto pressoché di scatti fotografici: il modo
più immediato e veloce di comunicare.
E' questo il paradosso dei
tempi moderni: vogliamo di più ma non
abbiamo tempo né pazienza. Spesso si fa coincidere quantità con generosità,
ma ai tempi di oggi, bombardati da milioni di input, con la possibilità di
accedere gratuitamente ad una infinità di informazioni e materiale da
ascoltare, con una curiosità accresciuta in modo smisurato per via degli
stimoli offerti dalla rete, non sarebbe più etico da parte di un artista (che
davvero ama i propri fan) sforzarsi di lavorare di sintesi? Condensare le
proprie idee in quaranta minuti piuttosto che in centocinquanta o duecento?
Anche perché si parla di band
(Therion, Dream Theater) che hanno alle spalle circa trenta anni di carriera:
come possono permettersi di imporsi oggi con tre ore di musica band che vivono
una conclamata fase di calo? E poi che
musica fanno queste band? Non si parla di psichedelia, dilatazioni, assenze,
ma di musica suonata, assemblata, arrangiata, orchestrata, un groviglio di spartiti,
passaggi strumentali, voci, storie complicate, concept dai temi da approfondire ecc. Insomma, viene in mente la
lontana parente che, al pranzo delle feste, vi propina antipasti infiniti, due
o tre primi, altrettanti secondi, dolce, caffè, ammazza-caffè, fino a farvi
scoppiare. O quelle osterie di provincia che portano avanti la vecchia filosofia
(nata giustamente nel dopoguerra, ma divenuta poi con il tempo obsoleta) del “più
si mangia e meglio è”, a prescindere da quello che si mangia: forse a sedici
anni poteva andare bene, ma oggi?
Per capirci: pensate a "The Wall", forse il più bel doppio
album della storia del rock! Quanta
"roba" c'è in "The Wall" in soli ottanta minuti? Come poter
comunicare di più e meglio? I Pink Floyd (anzi, Roger Waters) seppero dire tantissimo a livello biografico,
storico, sociologico, musicale, artistico. Ma senza scomodare i grandi del rock
(penso anche a "Quadrophenia"
dei Who), basterebbe avere in mente
i Queensryche del capolavoro "Operation: Mindcrime": quante cose
ci hanno raccontato, quante emozioni ci hanno regalato Geoff Tate e soci in quei cinquantanove minuti? Non ci credo che un
Petrucci o un Johnsson possano oggi dire di più, che abbiano bisogno di tre ore
per dire di più.
Questa è pigrizia o incapacità
di sapersi arginare, di saper scegliere i contenuti e saperli disporre in un
equilibrio dotato di senso (in fondo anche questo è un tipo di talento o dono
artistico). Soprattutto se si parla di professionisti scafati ed abituati da
anni a calcare la scena, perché le opere lunghe (quelle riuscite) sono spesso
il giusto punto di incontro fra tracotanza comunicativa e stato di grazia compositiva,
che è tipico della band al top della forma e dell’ispirazione. Ma quantità e stanchezza compositiva messe
insieme fanno una bestia bicefala dalle enormi capacità distruttive.
Soprattutto in questa era dove
il tempo è più prezioso che mai, in cui ci vorrebbero opere-istantanee ("instagramianamente" parlando)
basate su un rapporto quantità/contenuti come accadeva in "Reign in Blood"...
O, più semplicemente, prodotti
ispirati, a prescindere dalla loro lunghezza...
A parte ovviamente l'ultimo
dei Tool: quello ci va bene anche se
dura sei ore...