La Tunisia, dopo quasi sei mesi di viaggio, è il nostro punto di arrivo nell'esplorazione del metal africano, se escludiamo momentaneamente la scena sudafricana, che merita un'indagine a parte.
A questo punto vediamo se
riusciamo a prevedere il metal tunisino sulla base degli elementi
appresi fino ad ora.
Primo: trovandoci nel
Maghreb, e vicino al Marocco, la melodia dovrebbe esserci e in dose
massiccia. Addirittura col rischio di cadere nella trappola del
jingle arabico, più stucchevole della più stucchevole pop-band
svedese.
Secondo: per
controbilanciare la melodia con una buona dose di robustezza, la
soluzione è tecnicamente il thrash/death melodico, e abbiamo
imparato che in quest'ambito gli africani hanno una predisposizione
naturale. Lo fanno con precisione teutonica.
Terzo: la versatilità
africana rende inizialmente difficile individuare un genere preciso,
almeno per quei gruppi che hanno iniziato dopo gli anni '90. Si
trovano in questo caso esempi di metal-core africano, in cerca di
fortuna commerciale, così come semplicemente realizzazioni di metal
“olistico”, che spazia dal death al classico senza troppo
imbarazzo nell'ambito di singoli brani.
La predizione è
avverata. La Tunisia sforna infatti quella che credo sia la prima
band “di livello” discografico-commerciale di oriental-metal.
Trattasi dei Myrath. I Myrath suono un melodic-power professionale,
ben prodotto e si possono permettere di suonare come headliner in
Europa. Mi sono già tradito dicendo “esperimento”, perché la
formula vincente di questo gruppo sembra calcolata. Hanno un suono
metal con chiare radici ottantiane, hanno una melodia accattivante
che fa scivolare gli arrangiamenti come sul velluto. I passaggi
arabeggianti sono fin troppo evidenti per i miei gusti, ma non
onnipresenti, cosicché il gruppo suona a tratti come un buon gruppo
di melodic-power, per la cronaca tunisino.
Quello che mi rode un po'
è che tutta l'attenzione per l'oriental-metal, o l'arabic-metal sia
stato catalizzata dai Myrath, come se fossero l'avanguardia di un
nuovo verbo metal. Ascoltare i Myrath è
come mettere all'orecchio una conchiglia marina in cui risuona tutta
la tradizione del metal melodico europeo, dagli Scorpions ai Gamma
Ray. In quest'ottica, la peculiarità arabica perde molto del suo
senso ultimo, perché è soltanto un vezzo e non una componente
espressiva. Inoltre, è una specie di percorso opposto a quello
dell'ethnic-metal, che cerca di utilizzare il metal come modalità
d'espressione rabbiosa ed epica di diverse radici linguistiche,
musicali e sonore. Qui si finisce per produrre un metal che più
classico non si può “placcato Tunisia”.
I Myrath già sono
circondati da esempi commercialmente minori, come i Persona, dal
frontman donna. Siamo quindi all'apice dell'emancipazione femminile,
molto più di una band di tutte-donne, qui una donna che fa da
frontman a dei nerboruti tunisini, vestita da gotica (di velo non se
ne parla neanche)....no...fermate le rotative....infatti mi pareva
strano....Trattasi di Jelena Dobric, serba trapiantata in Tunisia. Un
penoso equivoco che però ribadisce la vocazione internazionalista
della Tunisia.
Gruppi che suonano da
headliner fuori dall'Africa, serbe che vengono in Tunisia per suonare
metal, e infine, l'impensabile. Un gruppo di tunisini veri che gira
anche l'Europa per narrare la mitologia vichinga ai nordeuropei. E
qui possiamo fermarci a riflettere, perché qualcosa rischia di
rovinare per sempre i meravigliosi germi del metal africano che
abbiamo esaminato con fatica fino ad ora.
Detto tra noi, l'ultima
cosa che vorremmo vedere è un'Africa che suona all'occidentale, o un
occidente che incorpora il metal africano. Potete quindi assaporare
le trine dei Myrath e la melodia dei Persona, ma poi, come facevano
gli antichi romani, vomitate tutto e ricominciate da capo con i
Nawather, melodia più originale.
Brood of Hatred, Vielikan
e Vomit the hate sono vari esempi di gradazioni death, che ci
aspettavamo. Ma anziché compiacerci di metal tecnico e ben suonato,
vivace e anche sperimentale, vogliamo raspare nel torbido.
Sivad, autori di un
rudimentale death satanico, che prima ci illudono di suonare in
maniera scomposta e grezza. Presto però si tradiscono in passaggi
più inquadrati e complessi. Laddove i Venom avrebbero buttato in
terra gli strumenti e sarebbero andati a bere una birra, per
intenderci. Alla fine, death neanche troppo minimale. Che ci conforta
di rozzezza ma ci rassicura in determinazione, come essere in
Germania.
In quanto a rozzezza,
proviamo a incontrare miglior fortuna quindi con i Melmoth, indicati
come “undeground black metal”. Intro con tamburello
etnico....voce impostata sul timbro black ma trine orientali di
chitarra (e di tastiera) che si insinuano saltellanti sotto sotto.
Sicuramente una sorpresa, un ennesimo esempio di invenzione e anche
di metamorfosi tra generi, visto che alla fine del brano siamo ormai
dalle parti del death.
Troviamo finalmente
quello che cercavamo, e sapevamo dovesse esserci da qualche parte,
negli Ayyur. Si tratta di uno di quei gruppi che si distinguono in
primis per i loro percorsi discografici, in questo caso a gambero:
nel 2007 un EP tutto loro, poi due split con altri gruppi black, e
infine nel 2009...un demo. Tra l'altro deve esistere un legame che ci
sfugge tra Tunisia ed ex Yugoslavia, visto che oltre alla frontman
serba dei Persona anche gli Ayyur intitolano "Buried in
Srebrenica" uno dei loro inimitabili brani. Per intenderci sul
grado di lo-fi, si tratta di gente che coverizza i Mutiilation francesi (il che implica aver ricavato prima una bozza di spartito
dei Mutiilation, impresa decisamente nebulosa). Tra i brani più
recenti, "Among the Ruins parte II e III": secondo il senso della
cronologia degli Ayyur, probabilmente la parte I arriverà nella
prossima produzione, se ancora esistono.
I Gore Bath cercano di
fare casino in tutte le declinazioni stilistiche che lo consentono,
dall'hardcore al grind. Potrebbero ricordare i Terrorizer per il
rumorismo e l'inclinazione death. Il primo brano si conclude quando
il vicino di casa stacca la corrente. Dopo ulteriori 20 minuti di
divagazioni casiniste tutto sommato godibili, un inspiegabile break
acustico, inconcludente come pochi, sembra chiudere l'album in
maniera sognante e mesta. E invece no...seguono altri 30 secondi, con
gli ultimi 5 dedicati ad uno spunto melodico, una ciliegina su una
torta di cenere. Come dire: se vogliamo
suoniamo come il miele, e quindi la nostra brutalità non è
necessità, ma virtù. La cosa ricorda un po' il villaggio vacanze in
cui soggiornai in Tunisia: bella spiaggia, continuamente percorsa da
cammelli e cavalli berberi che cagavano sulla battigia, mantenendo
unica e costante la composizione dell'acqua per la gioia dei
bagnanti. Come dire: costruite pure tutti i villaggi di lusso che
volete in riva al mare, tanto vi ci caghiamo davanti.
La Tunisia rappresenta il
pontile verso l'Occidente, con tutti i suoi rischi e i suoi limiti. A
noi piace la parte che resta dall'altra parte, che non vuole
emigrare, che alimenta il calderone sorprendente del metal africano
vero. Quello che dobbiamo andarci a prendere, come abbiamo fatto in
questo lungo viaggio. Facendo il bagno dopo il passaggio dei
cammelli.
A cura del Dottore