...o anche: Il Black Metal e l'Arte Contemporanea
Giungiamo alla conclusione delle nostra dissertazioni su “Lords of Chaos”: più che un vero e proprio oggetto di analisi, una scusa per poter riflettere ancora una volta, a quasi trent’anni di distanza, su quello che è stato il “True Norwegian Black Metal”.
Giungiamo alla conclusione delle nostra dissertazioni su “Lords of Chaos”: più che un vero e proprio oggetto di analisi, una scusa per poter riflettere ancora una volta, a quasi trent’anni di distanza, su quello che è stato il “True Norwegian Black Metal”.
E più ripensiamo alla pellicola di Jonas Akerlund e più emerge la sua inadeguatezza nel rappresentare il fenomeno nella sua innegabile complessità.
Non sprechiamo ulteriore tempo ed energie a cercare di tirar fuori il sangue da una rapa: "Lords of Chaos" è un’operazione puramente commerciale (non si capisce bene se diretta alla cerchia ristretta dei metallari o ad un pubblico più ampio) attraverso la quale si voleva soltanto romanzare fatti di cronaca nera.
Ci ha ingannato il fatto che il regista aveva partecipato attivamente alla scena estrema scandinava (lo ricordiamo, egli aveva suonato la batteria nel primo album dei Bathory) e che la sua sensibilità abbia permesso che la pellicola potesse giovarsi di un quadro storico-musicale attendibile (dove la colonna sonora pesca interessanti chicche di metal estremo del periodo) e contemplare rimandi interessanti e non affatto scontati alla storia dei Mayhem, incluso il richiamo esplicito a certi scatti fotografici, più o meno noti, legati alla band.
A conti fatti, tuttavia, se non c’era l’intenzione di approfondire il lato artistico del fenomeno, ma solo quella di fermarsi al dato biografico delle persone coinvolte nella faccenda, si poteva azzardare una via coraggiosa, ma coerente: lasciare fuori totalmente la musica e approfondire meglio la psicologia dei personaggi, la loro umanità. Ma come una coperta troppo corta che, se tirata in un verso o nell’altro, lascia inevitabilmente scoperta una parte del corpo, così “Lords of Chaos” esprime inadeguatezza su ogni fronte.
Per trattare in modo metodologicamente corretto il Norwegian Black Metal, infatti, bisogna considerare come minimo tre versanti di discussione:
A conti fatti, tuttavia, se non c’era l’intenzione di approfondire il lato artistico del fenomeno, ma solo quella di fermarsi al dato biografico delle persone coinvolte nella faccenda, si poteva azzardare una via coraggiosa, ma coerente: lasciare fuori totalmente la musica e approfondire meglio la psicologia dei personaggi, la loro umanità. Ma come una coperta troppo corta che, se tirata in un verso o nell’altro, lascia inevitabilmente scoperta una parte del corpo, così “Lords of Chaos” esprime inadeguatezza su ogni fronte.
Per trattare in modo metodologicamente corretto il Norwegian Black Metal, infatti, bisogna considerare come minimo tre versanti di discussione:
1) l'aspetto artistico musicale;
2) l'aspetto artistico extra-musicale (ossia quello attitudinale, concettuale ed iconografico);
3) l'aspetto non artistico (ossia la storia di chi faceva parte della scena e i fatti di sangue che hanno costituito la cornice al fenomeno prettamente artistico).
Non molte correnti artistiche (fuori e dentro il metal) possono vantare la compresenza di tutti e tre questi fattori. “Lords of Chaos” si è limitato a considerare, banalizzandolo, il terzo aspetto, accennando solo vagamente agli altri due.
Cosa, per esempio, potrà aver capito del black metal lo spettatore che non ascolta metal? Che il black metal è solo rumore? Che è musica satanica? Che è lo sfogo di ragazzi scapestrati e deviati mentalmente? E che quei ragazzi amavano tingersi la faccia per apparire più cattivi? Questa visione riduttiva, oltre che banale, è ovviamente falsa. E non sosteniamo questo perché conosciamo ed amiamo il black metal, ma perché in quell’insieme di atmosfere, suggestioni, simbologie si è compiuta una vera rivoluzione artistica, non solo musicale ed interna al metal (forse l'ultimo moto creativo/innovativo del metal da un punto di vista stilistico, prima che si trovassero nuove vie nella contaminazione massiva con altri generi), ma un fenomeno ben più ampio che è arrivato a sedurre ambiti lontani e ben più colti, come il cantautorato (se ci si vuole ancora riferire all’universo musicale) o addirittura l’arte contemporanea.
Sul primo fronte, scrivemmo già un post dedicato alle influenze del metal al di fuori del metal, e certo il black ha un posto d’onore in questo "processo di colonizzazione". Non ci ripeteremo, dunque, ma in questa sede vorremmo perlomeno ricordare un artista come Phil Elverum, noto nei circuiti dell’indie rock con la band storica The Microphones. Ma fu con la successiva incarnazione artistica Mount Eerie che egli, in modo singolare, volle tingere la sua arte con il black metal più arcigno, saccheggiato principalmente nella sua componente drone-ambient. Album come “Wind’s Poem” (2009), “Clear Moon” (2012) e “Ocean Roar” (2012), scaturiti dal dolore a seguito del lutto della propria compagna, sono eloquenti nel dimostrare come il black metal sia il medium ideale per sondare gli abissi più oscuri e profondi della propria interiorità (nel brano “Stone’s Ode”, in “Wind’s Poem”, si quotano persino i versi della burzumiana “Dunkelheit”, tanto per dare forza alle nostre argomentazioni).
Ancora più sconvolgente è apprendere come il black metal sia entrato nel mondo espressivo di certa arte performativa odierna. Proprio nei giorni scorsi, per esempio, alla Tate Modern (mecca dell’arte contemporanea mondiale) ha avuto luogo la messa in scena di “Sex”, la monstre-exibition (ben quattro ore di durata!) dell’artista tedesca Anne Imhof. Il compendio musicale (a cura della stessa artista coadiuvata da diversi collaboratori) è stato un tripudio di droni neri come la pece in cui ho piacevolmente individuato temi ricorsivi e chitarre zanzarose di innegabile marca norvegese.
In un primo momento ho pensato a quell’accezione di black metal sdoganata dai Sunn O))) che costituisce indubbiamente una soluzione più fresca e capace, in più di un frangente, di rimpiazzare la classica musica ambient (ricordiamo che lo stesso Stephen O’Malley si è cimentato nella scrittura di musica per esibizioni di arte contemporanea). Ma quello che era stato solo un sospetto (il True Norwegian Black Metal alla Tate Modern!), si è trasformato in conferma nel momento in cui, in un angolo dell'ampio spazio compositivo, quasi a fine esibizione, si è palesata una performer con la maglietta di “Transilvanian Hunger” dei Darkthrone.
Se due indizi non sempre fanno una prova, certo sarebbe una coincidenza davvero strana che, nel contesto di un vero e proprio urban-ritual, fra distorsioni ottenebranti, candele e barattoli in fiamme, si collochi il richiamo ad uno degli album più rappresentativi del genere (e che non a caso noi abbiamo indicato come l’opera black metal per eccellenza). Sarà solo un caso? Nonostante Anne Imhof, classe 1978, abbia l'età anagrafica per essere una cultrice del black metal norvegese, non è lecito pensare che lo sia per davvero. Tuttavia è molto probabile che essa vi sia entrata in contatto e ne abbia individuato il potenziale espressivo per dare forma alle sue visioni.
Il black metal, forse come il grindcore in passato, rappresenta uno standard di Estremo che attrae certa avanguardia artistica a più livelli sensoriali: uditiva, visiva, mentale, spirituale. Forme scarnificate, minimaliste di espressionismo esasperato, di contrasti laceranti (bianco/nero a livello iconografico) che certo sono abbinabili ad un contesto di arte performativa.
In un primo momento ho pensato a quell’accezione di black metal sdoganata dai Sunn O))) che costituisce indubbiamente una soluzione più fresca e capace, in più di un frangente, di rimpiazzare la classica musica ambient (ricordiamo che lo stesso Stephen O’Malley si è cimentato nella scrittura di musica per esibizioni di arte contemporanea). Ma quello che era stato solo un sospetto (il True Norwegian Black Metal alla Tate Modern!), si è trasformato in conferma nel momento in cui, in un angolo dell'ampio spazio compositivo, quasi a fine esibizione, si è palesata una performer con la maglietta di “Transilvanian Hunger” dei Darkthrone.
Se due indizi non sempre fanno una prova, certo sarebbe una coincidenza davvero strana che, nel contesto di un vero e proprio urban-ritual, fra distorsioni ottenebranti, candele e barattoli in fiamme, si collochi il richiamo ad uno degli album più rappresentativi del genere (e che non a caso noi abbiamo indicato come l’opera black metal per eccellenza). Sarà solo un caso? Nonostante Anne Imhof, classe 1978, abbia l'età anagrafica per essere una cultrice del black metal norvegese, non è lecito pensare che lo sia per davvero. Tuttavia è molto probabile che essa vi sia entrata in contatto e ne abbia individuato il potenziale espressivo per dare forma alle sue visioni.
Il black metal, forse come il grindcore in passato, rappresenta uno standard di Estremo che attrae certa avanguardia artistica a più livelli sensoriali: uditiva, visiva, mentale, spirituale. Forme scarnificate, minimaliste di espressionismo esasperato, di contrasti laceranti (bianco/nero a livello iconografico) che certo sono abbinabili ad un contesto di arte performativa.
Insomma, come i feedback assordanti dei Velvet Underground alla fine degli anni sessanta accompagnavano le esibizioni di Andy Warhol, oggi, alla fine degli anni dieci, possiamo affermare che la musica di Euronymus, di Varg Vikernes e di Ferniz (figura totalmente omessa dalla ricostruzione di “Lords of Chaos”) sia il medium sonoro prediletto per certe forme estreme di riconosciuta ed acclamata (segnaliamo il sold out registrato dall'evento) arte contemporanea.
Peccato che la storia che ci racconta la pellicola di Akerlund sia diversa, ossia quella trita e ritrita del metal satanico frutto del disagio di un pugno di ragazzotti invasati e senza talento...