Terza e ultima parte della nostra Retrospettiva sui Sieges Even. Coincidente con la terza e ultima parte della loro prestigiosa carriera.
A distanza di 8 anni, e da una
fine vita che sembrava certa, i SE ritornano sul mercato discografico, forti di
3 novità: 1) una nuova casa discografica, degna di tal nome (l’ottima InsideOut
Music); il ritorno di Markus Steffen; 3) l’ingresso di un nuovo cantante,
l’olandese Arno Menses.
Il risultato?
“The Art of Navigating by the Stars” (2005)
Ed eccoci alla storia recente.
Oddio, sono già passati 3 lustri dalla pubblicazione di TAoNbtS. Difficile dire
qualcosa sul disco, tanto è stato sviscerato, e osannato, dalle riviste/siti
web specializzati.
Ed è poco utile anche girarci
attorno: questo è il vero capolavoro tanto inseguito dalla band. Produzione
limpida ma non patinata, ben bilanciata e valorizzante i diversi aspetti del
sound. Già, il sound. Se non fosse per il monicker, penseremmo che siamo di
fronte a una band che poco o nulla ha a che fare con i precedenti 5 album.
Spogliato quasi interamente delle partiture metal, Steffen concepisce oltre
un’ora di raffinatissimo progressive che, anche per la struttura “a sequenza”
del concept, rimanda immediatamente ai grandissimi Fates Warning.
Composizioni
mediamente molto lunghe consentono alla band di esprimersi tra digressioni
strumentali dove, finalmente, il cuore prevale sulla tecnica, giostrando
sapientemente i ritmi, tendenzialmente rilassati, i pieni e i vuoti e qualche
sporadica accelerazione (come a metà di “Unbreakable”). Le linee melodiche sono
ispiratissime, guidate da arpeggiati elettrificati ma con pochissima
distorsione. Alex e Oliver offrono la solita prestazione monstre ma questa
volta, a differenza di sempre, rimangono sotto le righe, funzionali
all’ambiente senza mai strafare e porsi in primo piano. Menses di per sé non è
un fenomeno (come detto nasce come batterista) ma è la voce perfetta per il
mood dell’opera, che si distingue per una sofferta malinconia, non priva però
di armonie solari e distese.
L’uno-due iniziale “The weight” – “The lonely
views of condors” scopre le carte in tavola del nuovo corso della band…ed è
subito una mano vincente. Non ci sono cali, non ci sono filler ed ogni brano,
pur in una omogeneità di fondo, lascia qualcosa di profondo e unico nell’animo
dell’ascoltatore (con una nota di merito per l’emozionalità sprigionata dalla sensazionale accoppiata “To the ones who have failed” – “Lighthouse”).
Dopo tanto tempo, Steffen e i
fratelli Holzwarth creano il lascito per il quale verranno ricordati nel Grande
Libro della Storia del Metal…
No river too wide / No
ocean too deep / No mountain too high / The myriads of open roads
Voto: 9
“Paramount” (2007)
Formula che vince non si cambia
e due anni dopo i SE, con la stessa formazione, ci riprovano. E’ passato
l’effetto sorpresa, ma ciò che conta è la qualità dei brani e l’ispirazione
delle linee armoniche. E su entrambi i fronti, pur con un leggero calo, i
Nostri fanno ancora centro. E lo fanno, ancora, con un uso preponderante di
stilemi prog/hard rock, che rimandano ai Rush, pur senza mai avvicinarsi al
plagio dei campioni canadesi (in tal senso, un meraviglioso esempio è “Iconic”).
Menses, rodato dal tempo e dai
live, padroneggia il suo “strumento” in modo convincente e carismatico,
confermandosi punto vincente nelle scelte del cambio di rotta operato dal
ritorno di Steffen. Un elemento evolutivo lo si può riscontrare comunque nei
riff della chitarra che, quando abbandona l’arpeggiato per le distorsioni
metalliche, si avvicina a compressioni groovy che tanto andavano (vanno) per la
maggiore in quegli anni (un elemento a mio parere fuori luogo nel sound
generale). Pur non mancando alcune parti guidate dai consueti funambolismi
tecnici (soprattutto della sezione ritmica, come sempre mostruosa per
tecnica&gusto) è evidente la volontà della band, pur suonando sempre
credibile nelle sue volontà artistiche e mai forzata, di rendersi accessibile,
spogliandosi degli arzigogoli del passato e puntando ancora forte sulla carica
melodica, a questo giro davvero molto accentuata (scadendo nello zucchero in “Bridge to the divine”, ma glielo perdoniamo volentieri!), e sul mantenersi
quasi sempre nell’alveo della forma-canzone.
E quindi: brani sostenuti e articolati
(l’accoppiata iniziale “When alpha and omega collide” – “Tidal”) toccanti ballad
hard rock (“Eyes wide open”), mini-suite sopraffine (“Where our shadows sleep”,
“Leftlovers”, la title track) e tanti, tantissimi brividi e suggestioni
sensoriali; ascoltate il chorus di “Duende” e ditemi se riuscite a trattenere
le lacrime, anche perché su tutto aleggia un’aura malinconica, caldamente
intimista, raccolta. Meravigliosamente sottolineata dalle note di sax
nell’ultimo minuto della conclusiva title track.
Altra prova top…
Voto. 8
Ora, se a questa doppietta di full lenght aggiungiamo il confermato supporto della InsideOut Music, un raggiunto livello di mixaggio
perfetto, un artwork finalmente azzeccato e un’amalgama tra i quattro pienamente
funzionante…beh, ci saremmo davvero aspettati un futuro radioso per i SE.
Infatti, all’indomani dell’uscita del live album “Playgrounds” (2008)…si sciolgono!
Le due coppie si scoppiano e,
mentre i fratelloni Holzwarth si dedicheranno ai loro molti progetti paralleli,
il duo Steffen-Menses fonderà i Subsignal, dove daranno libero sfogo a tutta la
vena prog rock che avevamo conosciuto in questi ultimi due album dei SE.
In definitiva, la band bavarese
va conosciuta, senza se e senza ma. Penalizzata da un ipertecnicismo nella sua
fase iniziale, che sicuramente ha portato gli ascoltatori più distratti e meno
pazienti ad allontanarsi dai loro album, i Nostri hanno dimostrato classe e
coraggio da vendere, realizzando, capitolo dopo capitolo, una loro personale
visione della materia metallica. Se compariamo “Life Cycle” a “Paramount” è
stupefacente vedere quanta strada, peraltro sempre coerente, è stata fatta. E questo
senza mai realizzare prodotti men che più che buoni.
Per certi versi la loro parabola
mi ricorda quella dei miei amatissimi Everon: band che hanno veicolato una
interpretazione del prog metal personale, originale, caratterizzata da tecnica,
gusto e classe. E da una produzione qualitativamente sempre in crescendo. E che, all’apice della
notorietà (sempre relativa e “di nicchia”, ok…), si sono sciolti.
Peccato, peccato davvero per
questo split del 2008 ma, a distanza di oltre un decennio, se siamo ancora qua
a ricordarli, lodandoli (non solo noi, ma anche la critica specializzata),
vuol dire che i meriti artistici della band sono innegabili.
Lasciatevi mettere sotto costante
assedio…
A cura di Morningrise