Riprendiamo la nostra Retrospettiva sul De Andrè oscuro, dopo la conclusione della sua prima parte di attività (comprendente idealmente i primi 3 full lenght + le due importanti raccolte antologiche "Tutto Fabrizio De Andrè", del 1966, e "Nuvole barocche" del 1969), con quella che possiamo considerare la seconda parte della Carriera del Nostro. Che comprende tre concept albums in fila. Altre tre pietre miliari della canzone d'autore italiana.
Rileggendo i Vangeli Apocrifi e usandoli come allegoria delle istanze socio-politiche delle rivolte del ’69, De Andrè spoglia tutti i personaggi del Vangelo del loro manto sacrale per ricoprirli con un altro manto: quello umano. In particolare Maria e Giuseppe sono il fulcro della sua rivisitazione, protagonisti di canzoni che, per testo e melodie, sono tra le migliori cose scritte dal Faber (il trittico “L’infanzia di Maria”, “Il ritorno di Giuseppe” e “Il sogno di Maria” formano 15’ di puro brivido emozionale; ma è soprattutto “Maria nella bottega d’un falegname” che, per chi scrive, è il testo più riuscito dell’intera carriera del Faber).
Ma il De Andrè Metal, almeno
dalla nostra prospettiva, lo vediamo in…
7) “Via della Croce” (da “La Buona
Novella” – 1970)
Guidata da un ritmo sostenuto,
con un giro di chitarra accompagnato dal violino e da suoni improvvisi, a mò di
frusta, FdA dà voce ai pensieri dei diversi gruppi di persone che seguono la Via Crucis
di Gesù: quelli delle povere donne ebree, addolorate per questo Profeta
condannato a morte, nel quale avevano visto un salvatore, un riscatto della
loro condizione (“colui che perdonò a Maddalena”); quelli degli apostoli che
dovranno, domani, spargere la “buona novella”, ma che ora lo seguono terrorizzati,
impauriti di fare la stessa fine una volta scoperti “cugini di Dio”.
Ma noi preferiamo soffermarci sui primissimi versi della canzone, esprimenti tutta la rabbia, l’odio e il rancore provato dalle madri dei neonati uccisi da Erode. “Poterti smembrare coi denti e le mani / sapere i tuoi occhi bevuti dai cani / di morire in croce puoi essere grato / a un brav’uomo di nome Pilato”…beh, ditemi voi se questi non sono versi tra i più violenti mai espressi in musica!
Gruppi death/gore/black…venite a prendere appunti…
8) “Il testamento di Tito” (da “La Buona Novella”)
Banale, lo so. E’ tra le canzoni più amate e famose del suo canzoniere ma non potevamo lasciare fuori la rivoluzionaria rilettura dei 10 comandamenti fatta da Tito sulla croce poco prima di morire. La prospettiva di quei comandamenti viene totalmente ribaltata dal ladrone anarchico. Ma quando meno ce lo si aspetta, al tramonto del giorno e dei suoi ultimi respiri, guardando Gesù morente affianco a lui, Tito riesce a sublimare, in sette brevi parole, l’intero messaggio umano della poetica deandreiana: “NELLA PIETA’ CHE NON CEDE AL RANCORE / MADRE HO IMPARATO L’AMORE”. Amen…
Cosa si può comporre dopo un
capolavoro immane? Beh, semplice: un altro capolavoro immane…
Dopo lo scarso successo commerciale de “La buona novella” (troppo “avanti” concettualmente per essere compreso appieno in quegli anni), il Faber non abbassa il tiro e si cimenta con un altro concept, coadiuvato alle orchestrazioni dal maestro Nicola Piovani. Prendendo spunto dall’”Antologia di Spoon River” di E.L. Masters, e affiancato da chi quel libro di poesie lo aveva tradotto in Italia (Fernanda Pivano) “Non al denaro, non all'amore nè al cielo” mette in fila i pensieri, le delusioni, le verità di una massa di reietti e diseredati di un piccolo villaggio di provincia.
Ipocrisie, dolori, aspirazioni, amori,
sogni irrealizzati…ogni morto sulla collina ricorda la sua triste vita,
intrisa però di una dolente grandezza umana che solo i versi di De Andrè potevano
esprimere in modo così lucido e profondo. Tanto da far trovare in ognuna di
quelle storie, una parte di noi e della nostra esistenza.
Ciascuna delle 9 canzoni è una
gemma luminosa che brilla non seconda a nessun’altra nel canzoniere
deandreiano. Scelta durissima la Nostra in mezzo a cotanta qualità, che alla
fine ricade su…
9) “Un blasfemo (dietro ogni blasfemo c’è un giardino incantato)” (da “Non al denaro, non all’amore né al cielo”
– 1971)
Glen Benton e tutta la schiera di parolieri del “nostro” black metal vengano qui, ad abbeverarsi a questi incredibili versi…massacrato di botte dall’ordine costituito, in quanto giudicato dai villani, appunto, un blasfemo, il protagonista di questa invettiva (in verità, più che contro Dio, contro chi sfrutta Dio per imporre le sue regole sul prossimo), si lascia andare a un Inno alla sacralità dell’Uomo e a quella della Vita, invitando tutti a goderne senza indugio i piaceri, da cogliere come se fossero “la mela proibita” del giardino dell’Eden.
Flauto e basso introducono i primi
versi, prima che uno splendido arpeggio di chitarra, inframmezzato da inserti
di violino, portino la canzone sulle ali di un ritmo sempre più sostenuto. Un
crescendo esaltante, sempre guidato da un violino martinpowelliano, fino ad
arrivare alla blasfemia finale. Questa: “E se furon due guardie a fermarmi la
vita / è proprio qui sulla terra la mela proibita / E non Dio, ma qualcuno che per
noi l’ha inventato / ci costringe a sognare in un giardino incantato”.
Non c’è due senza tre…confermando
un incredibile stato di grazia compositivo, FdA inanella nel 1973 il terzo
concept-capolavoro consecutivo: “Storia di un impiegato”. La critica e il
pubblico non apprezzano; tutt’altro. Solo 20 anni dopo verrà rivalutato, a
ragione, come un album di livello altissimo.
A distanza di 5 anni dal “maggio francese”, il
Faber dà una sua visione del movimento studentesco e delle istanze che lo
avevano animato. E, da spirito anarchico qual era, con versi ispiratissimi
guidati da melodie da brividi (decisivo ancora una volta l’apporto di Nicola
Piovani), dipinge una Storia Individuale incastonata in quella di Popolo.
Svelando senza remore le ipocrisie e le menzogne sia del Movimento che
del Potere stesso. Con quest’ultimo capace di sfruttare a suo vantaggio quanto
successo per reinventarsi e uscirne più forte di prima. Quello che rimane è la
goffa velleità, e inutilità, dell’”eroico” e violento, ma controproducente, gesto individuale: quello dell’Impiegato-Bombarolo. I brani
sono collegati totalmente uno all’altro, ma chi scrive sottolinea il crescendo
prog de:
10) “La bomba in testa” (da “Storia
di un impiegato” – 1973)
E’ l’emozionante presa di
coscienza dell’impiegato che, dal “contare i denti ai francobolli”, fa altri “conti”:
con se stesso, le sue aspirazioni, l’esempio genitoriale e la triste
consapevolezza del grigiore della sua vita. Fino all’immedesimazione, in
ritardo, con i ventenni del ’68 e l’ideazione di un violento piano di
ribellione da programmare e mettere in esecuzione. Il sound si articola su un doppio giro di
chitarra, arpeggiato e non, sul quale un violino inizialmente pacato e in
sottofondo, e poi sempre più ingombrante e “violento”, si unisce a tastiere e
strumenti a fiato. Fino all’esplodere della sezione ritmica e di un synth
distorto di grande impatto emotivo.
Progr rock puro.
Dopo 3 album-concept di tal livello, FdA, almeno apparentemente, alza il piede dal pedale e pubblica “solo” un album antologico, dal titolo emblematico: “Canzoni”. Facendosi ancora una volta ispirare dalla musica tradizionale francese, dal suo caro e vecchio Brassens, il Faber compie un salto in avanti, avvicinandosi al folk americano, celebrato attraverso delle riuscitissime cover di Leonard Cohen (“Giovanna d’Arco” e “Suzanne”) e Bob Dylan (“Via della povertà”, in collaborazione con De Gregori). Lungi dall’aver un’ispirazione calante, il Nostro riesce ancora una volta a inanellare brani capolavoro, rimasti immortali nel suo canzoniere: “Le passanti”, “Fila la lana”, “La città vecchia”, “Canzone dell’amore perduto”, la struggente “Delitto di paese”.
Ma la nostra sensibilità metallica non può che soffermarsi su…
11) “Ballata dell’amore cieco” (da “Canzoni”
– 1974)
Ritmo sostenuto e scanzonato,
intervallato da frivoli “trallalalla tralallalero”, ma la violenza dei versi è
davvero brutale e, ricordo, mi ha sempre impressionato in modo atroce: cuori
strappati dai petti e dati in pasto ai cani, vene tagliate, sangue secco
riverso…
Gli Shining avrebbero apprezzato
per il loro suicidal metal…
Composto interamente in Gallura,
con la consistente cooperazione di De Gregori, “Volume 8” apre una nuova, splendida fase della carriera
deandreiana. Album breve (appena 32’), particolare, criptico (i testi di ogni
brano sembrano quasi un inno all’indicibile, a qualcosa per cui non si trovano
le parole) e ancora una volta poco apprezzato dalla critica al momento della
pubblicazione. E, ancora una volta, rivalutato negli anni. L’album contiene
altri eterni capolavori della musica d’autore italiana: da “La cattiva strada”
a “Oceano” (dedicata al figlio Cristiano e per chi scrive la top song del
disco); da “Sally a “Giugno ‘73” fino alla battagliera “Canzone per l’estate”. Per
concludersi con lei…la celeberrima…
12) “Amico fragile” (da “Volume 8”
– 1975)
Potremmo definirla l’avvelenata deandreiana (anche se la canzone gucciniana uscirà l’anno successivo).
Un’invettiva personale, intima, contro la superficialità borghese e il ruolo,
fallimentare, dell’artista nella società contemporanea. Vicina musicalmente
all’arte di Leonard Cohen, ma impreziosita da trame di sax, violino e tastiere,
io l’ho sempre pensata come un brano funeral doom ante-litteram.
Imprescindibile.
Continua...
A cura di Morningrise