Reietti. Trattati come appestati.
O, nel migliore dei casi, ignorati. Come se non fossero mai esistiti. “The X Factor” e “Virtual XI”. Per colpa sua: Blaze Bailey. Il terzo cantante della
storia dei Maiden non è mai stato benvoluto e/o apprezzato. Di conseguenza, men
che meno “rimpianto”. Sarà perché la dipartita di Bruce fu davvero traumatica,
sarà stato per il suo timbro, lontano da certi acuti strappatonsille del
canonico heavy metal singer; sarà perché il suo commiato è avvenuto dopo
“Virtual XI”, uno dei peggiori dischi (il peggiore?) dei Maiden. Insomma,
nessuna pietà nel trattare quella fase storica della Vergine di Ferro.
Vedete, per Di'Anno era stato diverso: lui c’era prima di Bruce. Non aveva “colpe”. E tutto quel po-po di classici dei dischi cantati da Paul, nell’immaginario collettivo dei fan, venivano ormai “pensati” come se fossero da sempre stati interpretati dalla The Air Raid Siren. Processo mentale analogo a quanto accaduto ai due brani riproposti ancor oggi dal vivo del periodo-Bailey (“The sign of the cross” e “The clansman”): quando si ascoltano live, chi pensa ormai al fatto che vennero cantati per la prima volta dal vituperato singer ex-Wolfsbane?
Oggi TXF compie un quarto
di secolo. 25 anni portati male, 25 anni di logorio
critico da parte di pubblico e critica. E persino in redazione le battutine
irriverenti verso di esso non si lesinano, quando c’è da tirar fuori qualche
titolo esemplificativo di “album di m…a”.
Ma io non ci sto. Assolutamente.
E oggi, come un novello Zola, provo a scrivere il mio “J’accuse…!” in difesa di
TXF!
Allora, se tralasciamo l’insulso singolo
“Man on the edge”, unico brano sotto i 5’ e composto per fare da
traino al disco (c’è sempre un breve-e-insulso-singolo-apripista negli ultimi 7
dischi dei Maiden), negli altri dieci brani dell’album troviamo degli Iron maturi,
ispirati, decisi a dare un taglio netto con i flop artistici di “No prayer for the
dying” & “Fear of the dark”; capaci di sperimentare nuove soluzioni, anche
rivoluzionarie rispetto alla loro Storia (la conclusiva “The unbeliever” è
probabilmente quanto di più originale e ardito i nostri avessero composto fino
a quel momento).
Ma il vero “X factor” non è, a parere di chi scrive, Blaze, così come il 99,9% di chi ha scritto/discusso su
quest’album ha banalmente evidenziato, quanto il mood complessivo del disco. Un
mood opprimente, soffocante, intriso di oscurità, cupezza, pessimismo: mai come
in questo disco gli inglesi, per mano di Harris e Gers, i principali autori dei
brani (Murray a quel giro si chiamò fuori), hanno veicolato tali sensazioni
nell’ascoltatore. Arpeggi malinconici, dalle linee melodiche azzeccatissime,
fungono ripetutamente da intro contribuendo all'innalzamento esponenziale del pathos (così come ad un sensibile aumento del
minutaggio) rispetto al passato. E’, in sostanza, l’estrinsecazione definitiva
di una tendenza che i Maiden avevano sempre avuto, cioè quella progressiva.
L’antesignano, ma in versione dark, degli album-fiume che avrebbero
caratterizzato il ritorno di Dickinson. Parafrasando una bella definizione del
nostro Mementomori, potremmo dire che qui siamo di fronte a degli Iron al
quadrato prima che diventassero degli Iron al cubo.
Due i temi portanti del disco: 1)
la guerra: “Fortunes of war” ha probabilmente il più bel testo sui traumi
postbellici dei reduci (con una cavalcata strumentale finale da brividi); “The
aftermath” non è da meno (ancora un testo meraviglioso), con un mid-tempo che
pare accompagnare la marcia di giovani ragazzi-soldato nel fango e sotto la
pioggia a morire senza un perché; e infine l’accoppiata “Blood on the world’s
hands” (canzone obliqua, dalle interessanti soluzioni di scrittura e
appassionata invettiva anti-politica) e la struggente “The edge of darkness”
che, basandosi sul capolavoro "Cuore di tenebra" di Conrad, segna il termine
della parabola discendente dell’uomo-soldato, ormai distrutto e ridotto a un
guscio vuoto senz’anima: Now I stand alone in darkness / with his blood upon
my hands / where sat the warrior, the poet / now lie the fragments of a man.
2) la depressione: “Judgement of
heaven” è il grido disperato di un uomo che prova a chiedere aiuto (al prossimo e
a Dio) per uscire dal vicolo cieco di un’esistenza senza senso; “2 a.m.”,
struggente ballata metallica su un uomo sull’orlo del baratro del suicidio a
fare i conti con la solitudine e la vana ricerca di un qualcosa di buono a cui
aggrapparsi.
Insomma, nemmeno noi rimpiangiamo Blaze (un gatto di marmo anche dal vivo) e la sua voce (che non ha mai
fatto breccia nei nostri cuori), così come non possiamo negare che il suo disco
di commiato è stato davvero scadente ma dobbiamo riconoscere la reale portata artistica dell'opera in oggetto. E quindi: alla faccia di AllMusic
(il più importante database di musica on-line) e del supercritico canadese
Martin Popoff (che gli appioppano rispettivamente 2 stelline su 5 e 2/10), noi ci
poniamo con convinzione a difesa di TXF a 25 anni dalla sua uscita (riascoltandolo oggi, mi suona ancora fresco ed emozionante).
Sperando così di
dare un piccolo contributo alla riscoperta di un disco dal titolo che
probabilmente, per la stragrande maggioranza dei giovani pensando alle nuove
generazioni di metalheads è solo quello di un talent show televisivo…
Voto: 8,5
Canzone top: “The sign of the cross” & “The
aftermath” (ex-aequo)
Canzone flop: “Man on the edge”
Momento top: lo scoppio elettrico
che apre la 2° strofa di “Judgement of heaven”
A cura di Morningrise