Vi ricordate il varietà “RockPolitick”, condotto e ideato da Adriano Celentano nel 2005? La RAI lo presentò come un evento epocale, con teaser mandati in onda mesi prima, tali da creare un clima di attesa spasmodica come mai ricordo ancor oggi per una trasmissione televisiva. Il fulcro del Varietà erano, manco a dirlo, i monologhi del Molleggiato, punteggiati da pause chilometriche, nei quali il Nostro si dilettava a distinguere, non solo a livello musicale, ma anche politico, cosa fosse rock e cosa fosse invece lento.
Nel vasto e articolato mondo metallico, i più non identificano come "metal" solo la musica che ascoltano. Ma vi comprendono tutta una
serie di manifestazioni artistiche che hanno una sensibilità, una struttura e
un concepimento che sono affini al nostro Genere Preferito. Quanti film, libri,
mostre d’arte, opere pittoriche, fumetti abbiamo sentiti definire “metal”?
Tornando alla musica, che è il fulcro del nostro scrivere, abbiamo provato ad applicare il "giochino" di Celentano ad un cantautore amatissimo, trasversale ai generi e ormai entrato nel panorama culturale italiano. Parliamo di Fabrizio De Andrè, che i nostri lettori più attenti ricorderanno più volte citato in alcuni nostri vecchi post (leggi qui e qui).
Ma che c’azzecca De Andrè col
Metal? Beh, premesso che ci vorrebbe un’Enciclopedia per sviscerarne l’Opera
Omnia, scandagliarla in ogni sua piega e risvolto concettuale, sicuramente ben
poco da un punto di vista delle sonorità e degli arrangiamenti. Ma, a livello
di tematiche e di prospettive, dei punti in contatto esistono. In primis una
forte comprensione e sensibilità verso il dolore umano in generale e verso la
sofferenza dei diseredati, dei reietti (degli “outcast” direbbero i Kreator); e
poi un’irrefrenabile amore per la libertà; una libertà anarchica, insofferente
a qualsivoglia tipo di costrizione sociale e naturalmente in contrapposizione
alle ipocrisie e le falsità della “normale” vita borghese, ai soprusi del
Potere, ai vincoli imposti dall’Autorità Costituita. E poi un senso istintivo
di ribellione verso ogni tipo di ingiustizia: sociale, economica, relazionale,
politica, legal-giudiziaria. Una rivolta espressa sì attraverso il medium del
suo forbito linguaggio ma anche con una forza e una profondità che non avevamo
neppure conosciuto nel thrash più “politicizzato”.
E come non tenere presenti poi le
originali ed eretiche interpretazioni della religione cattolica, delle figure
evangeliche, le sue invettive verso un Dio visto come un’entità in debito verso
l’Uomo e non viceversa. Insomma, roba che potrebbe essere trattata a pieno
titolo nella nostra rubrica sulle “Lezioni di satanismo a fascicoli” ideata dal
nostro Dottore.
Per questo nostro divertissment
quindi ci appiglieremo proprio a tutti questi temi, stilando una sorta di tracklist
deandreiana quanto più possibile vicina alla nostra sensibilità metallica. Già
sicuramente molti metalheads lo conosceranno e lo avranno apprezzato ma, con
questa breve guida, cercheremo di farlo conoscere ancora più approfonditamente,
mettendo in risalto quei brani magari meno conosciuti e “pubblicizzati” ma che
nascondono un’anima fortemente dark, dai risvolti brutalmente doom, del Nostro.
Del resto è tutta questione
di potenza, di visione, di afflato epico, di pugni nello stomaco…e i versi di
De Andrè, in tal senso, non sono secondi a nessuno…
Come nostra consuetudine,
cercheremo di toccare tutti e 13 i dischi d’inediti pubblicati dal Faber
nazionale, per una collection di 20 brani (e, come di consueto, i tagli sono
stati molto dolorosi). Perché in ognuno di essi, l’anima tormentata del
genovese ha espresso qualcosa di notevolmente “metal”…
Ok, partiamo. E lo facciamo col botto…
Basato su semplici, ma ricercati,
giri di chitarra (sullo stile di quello che stava facendo proprio in quel 1967
Leonard Cohen) e guidato concettualmente dallo spirito corrosivo e implacabile
del maestro chansonnier Georges Brassens
(l’ispirazione più grande del genovese), il primo disco d’inediti di De Andrè,
“Vol. 1°” è già di livello altissimo. E tutti i temi cui abbiamo accennato
sopra sono magistralmente espressi. In maniera fin troppo esplicita, tanto che
la celebre “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poiters” riceve una bella
denuncia per immoralità (sic!), poi caduta nel vuoto.
Se la mezz’ora del platter è
ricordata quasi esclusivamente per i capolavori “Via del Campo” e “Bocca di
Rosa”, non da meno sono tutti gli altri: da “Preghiera in gennaio” (scritta la notte prima del funerale di Luigi
Tenco, è una sorta di j’accuse verso l’ipocrisia che la Chiesa riserva ai suicidi)
a la brassensiana, meravigliosa “Marcia
Nuziale”; dal sacrilego gospel di “Spiritual”
(in cui Faber intima violentemente a Dio di scendere sulla Terra se vuole
davvero salvare e amare l’Uomo) alla messa in primo piano del mondo delle
prostitute in “La canzone di Barbara”,
fino ad arrivare alla delicatissima e malinconica “La stagione del tuo amore” (per chi scrive, la top song del disco,
arrangiata con toccanti partiture di violino).
Ma ai nostri fini metallici non
possiamo che soffermarci sulla dissacrante…
1) “Si chiamava Gesù”
(da “Vol. 1°” - 1967)
La figura di Cristo qui viene "raccontata" in tutta la sua umanità, e come tale descritta mentre muore sulla croce
(sbiancando “come un giglio”). Ma al contempo De Andrè vuole esprimere tutta la
sua stima, rispetto e in fin dei conti ammirazione per colui che riuscì ad esprimere
un “amore inumano” verso il prossimo (“Ma inumano è pur sempre l’amore / di chi
rantola senza rancore / perdonando con l’ultima voce / chi lo uccide tra le braccia
di una croce”).
Avantguarde-metal…
2) “La Morte” (da “Vol. 1°”)
139 secondi per la song più breve dell’album. “La morte”, anch’essa ispirata a un’aria di Brassens, è un inquietante folk medievale introdotto da battiti marziali di tamburo.
Atroce, cruda, spietata, priva di sentimenti…la Morte viene qui raccontata, a mò di “grande livella”, che non guarda in faccia nessuno e falcia tutti: belli e brutti, ricchi e poveri, buoni e malvagi; anzi, attraverso uno dei suoi tipici e meglio riusciti paradossi, De Andrè ci spiega come per gli straccioni e i poveracci, che portarono “il cilicio e la gogna”, la Morte è un’amica, capace di sollevarli dalle sofferenze della vita; mentre prelati, notabili e conti, abituati a vivere una parassitaria vita di agi e ricchezze, la piangono inconsolabili...
Molto death, of course…
“Ho licenziato Dio / gettato via un
amore / per costruirmi il vuoto / nell’anima e nel cuore”
Se “Vol. 1°” era poco meno che un capolavoro, beh, l’anno successivo il Faber fa il botto. “Tutti morimmo a stento” è un album fenomenale, pietra miliare a pieno titolo. Nell’anno dei sommovimenti studenteschi e delle contestazioni sociali per antonomasia, il 1968, FdA riesce a tirar fuori canzoni, senza stacco tra l’una e l’altra, che da un lato si calano perfettamente nell’ambiente socio-culturale del momento (tanto che il disco vendette tantissimo e portò il suo nome sulla bocca di ogni appassionato di musica italiana), e dall’altro si elevano a canzoni fuori dal tempo, eterne.
Tutte le tematiche affrontate e i
personaggi descritti l’anno prima, qui vengono riproposti e al contempo
rinnovati, sublimati, filtrati in modo maturo dalla poetica deandreiana, sempre
più chiara e ficcante. Il risultato è un vero e proprio concept album
ante-litteram, dalle forti venature rock-prog (vedi i 7 incredibili minuti di
“Cantico dei drogati” e la successiva “Primo intermezzo”).
Straccioni, drogati, prostitute,
stupratori, condannati a morte…tutti assieme in un “girotondo” in cui non si
richiede altro che amore e pietà, le uniche due fonti che per De Andrè possono
salvare l’Umanità. Soprattutto quell’umanità che, nei meandri della vita, si è
persa, smarrita, imboccando una “cattiva strada” senza ritorno.
Il disco andrebbe ascoltato tutto
d’un fiato ma per la nostra carrellata scegliamo…
3) “Leggenda di Natale” (da “Tutti
morimmo a stento” – 1968)
Coadiuvato dai fratelli genovesi
Reverberi, che assistono in modo decisivo in studio l’autore, e utilizzando una
Orchestra Filarmonica (diretta sempre da Gian Piero Reverberi), il sound del
disco compie un salto in avanti enorme rispetto all’esordio. E "Leggenda di Natale" ne è un
fulgido esempio. Introdotta da un toccante arpeggio folk, è la storia di una
bambina violata da un orco travestito da Babbo Natale e della sua conseguente
perdita di ogni innocenza; per sempre. Il canto del brano ricorda da vicino
alcune cose dei Demons&Wizards, con 30 anni di anticipo…il senso di disagio
alla fine dei 3’ e mezzo scarsi ti lascia senza fiato. E in lacrime…
4) “La Ballata degli Impiccati” (da “Tutti morimmo a stento”)
“Prima che fosse
finita / ricordammo a chi vive ancora / che il prezzo fu la vita / per il male fatto
in un’ora”
Su un’aria quasi western,
morriconiana, guidata da arpeggi a tratti vorticosi e a tratti lentissimi, con
una drammaticità epica che si taglia con l’accetta, il Faber dà voce agli
ultimi pensieri di condannati a morte che, nell’ammissione delle loro colpe,
constatano di contro l’assoluta assenza di pietà e com-passione da parte della
società che li ha giudicati “colpevoli”. Tra le song più intense, e
oggettivamente seminali, del canzoniere deandreiano. Top assoluto…
5) “Girotondo” (da “Tutti morimmo a stento”)
Giocando con la nenia del “Giro giro tondo” e alternandosi con un coro di ragazzini, De Andrè, in un crescendo vorticoso, sia sonoro che emotivo, ci lancia in faccia senza filtri tutto l’orrore della guerra, della sua distruzione, della morte che provoca, soprattutto verso i c.d. “effetti collaterali”, non altro che vittime civili innocenti.
Il soldato pacifista, il “buon Dio”, l’aviatore che può scegliere di non gettare l’ordigno…tutti coloro che potevano salvare dalla morte gli innocenti sono arrivati tardi o non si trovano del tutto…la bomba è ormai lanciata e va a distruggere tutto ciò che incontra sul suo cammino. Fiori, bestie, piante…tutto spazzato via. I pochi superstiti ballano sulle ceneri di un pianeta arido e privo di vita, ma follemente contenti di avere la Terra adesso tutta per sé…delirante paura. I Bolt Thrower potrebbero prendere spunto per qualche loro disco a tema bellico…
Dopo un capolavoro così
ambizioso, l’anno successivo FdA solo apparentemente “abbassa il tiro”:
sistematizzando una serie di singoli usciti prima del ‘67, e condendoli da 4
inediti, pubblica “Volume III”,
sorta di album antologico, quasi un “greatest hits”, contenente alcune tra le
più importanti e popolari canzoni del genovese. Su tutte “La canzone di Marinella”, “Il
gorilla”, “Amore che vieni amore che
vai”, “La ballata del Miche’”, “Il testamento”. E come non citare “La guerra di Piero”, i cui versi hanno
segnato la mia gioventù e che, in 3’ scarsi, esprime meglio di intere enciclopedie
di Storia, il fil rouge che marca a fuoco l’Umanità dalla notte dei tempi. Insomma
tutti carichi da 90…metallicamente parlando però, la nostra scelta ricade sulla
conclusiva…
6) “Il re fa rullare i tamburi” (da “Volume III” – 1968)
Utilizzando un clavicembalo (strumento che adoro!) e rifacendosi a un’aria medievale francese (già edita in Francia in lingua originale) De Andrè ne dà una sua versione di un’intensità incredibile. L’arroganza del potere che pensa di aver diritto a tutto e soddisfare ogni proprio capriccio, si abbatte come una scure non solo su città e castelli nemici, ma anche sulle persone. Il re, con sfrontatezza e presunzione, “chiede” (in realtà “pretende”) la mano di una dolce fanciulla che si rivela essere però la sposa del suo fedele marchese; che si piega, devastato, alla volontà del suo Re (verrà ricompensato da una promozione a capo delle armate di Francia…).
Il finale tragico, che sembra essere stato scritto
da Nick Cave, lascia in bocca il sapore di una canzone dei My Dying Bride…
Con un successo ormai consolidato e dopo aver sistematizzato la produzione passata con “Volume III”, FdA entra in quello che è stato probabilmente il suo periodo migliore, da un punto di vista della qualità compositiva. Dal 1970 infatti il Nostro infila tre capolavori di fila. Tre dischi che entreranno per sempre nella musica cantautoriale italiana.
E partiamo subito con quello che lo stesso Faber considerava il suo album meglio riuscito. Nonché quello più controverso…
A cura di Morningrise