Ha senso spendere ulteriori parole sui Pink Floyd nell’anno di grazia 2020, quando oceani di inchiostro sono già stati versati? Ripercorrere la discografia dei Pink Floyd potrebbe sembrare oggi cosa oziosa e ridondante, tuttavia viviamo nell’era di Spotify e delle playlist, dove gli artisti vengono conosciuti attraverso i loro brani e non tramite gli album, cosa che non si confà ad una band che ha scritto album prima ancora che brani.
Come già fatto con altri grandi nomi del rock, Metal Mirror intende ripercorrere a volo d’uccello l’epopea pinkfloydiana soffermandosi sui quei passaggi della discografia che possono essere più consistenti per chi ascolta heavy metal. Il concetto di “espansione del suono”, tradotto nella suite monumentale che ha rapito il cuore di molti artisti metal dalle sconfinate ambizioni; il delirio watersiano come ispiratore primo del concept album esistenzialista (nel metal); l’infinito assolo gilmouriano che ritroveremo in una miriade di brani (metal): ai legami fra il nostro genere preferito e Pink Floyd, del resto, abbiamo dedicato una rassegna intera, a cui questo articolo intende fare da lettura propedeutica.
Premessa indispensabile è dire/ricordare che i Pink Floyd non sono solo musica, ma anche immagine, show spettacolari, esibizioni in location suggestive, le geniali copertine di Storm Thorgerson, film, installazioni, multimedialità ed ovviamente marketing. Ma siccome a noi di Metal Mirror sta a cuore la musica, di quella andremo a parlare.
Partiamo dunque dal principio, dai singoli "Arnold Layne”/“Candy and a Currant Ban” e “See Emily Play”/“The Scarecrow” e dal folgorante debutto “The Piper at the Gates of Dawn” (1967), capolavoro riconosciuto del rock psichedelico di fine anni sessanta: in questo primissimo periodo le composizioni dei Pink Floyd sono imbevute di LSD e del genio fanciullesco di Syd Barrett, e ben poco di interessante potrà ritrovarvi il truce metallaro. Fra filastrocche infantili e lisergiche visioni, si fa notare la verve elettrica di “Astronomy Domine”, con il suo bel riffone ipnotico e baldanzoso, o l'audacia della strumentale “Interstellar Overdrive”, viaggio spaziale di dieci minuti che mette in mostra la capacità descrittiva e la voglia di osare della band: aspetti che caratterizzeranno il prosieguo di carriera degli inglesi.
Uscito di scena il buon Barrett (divenuto inservibile per l’abuso di sostanze), il sound si sposterà gradualmente dalla psichedelia al progressive, sebbene l’etichetta di rock progressivo rimanga non perfetta nel definire la musica (inclassificabile) dei Pink Floyd. Se da un lato, infatti, i Nostri non sono mai stati dei virtuosi, dall’altro non sono loro mancate le ambizioni. Più di ogni altra cosa, i Pink Floyd sono stati musicisti in grado di dare forma alle proprie visioni, ricorrendo, ove necessario, al contributo di collaboratori esterni ed accorti ingegneri del suono (Alan Parsons prima e Bob Ezrin dopo risulteranno di fondamentale importanza per lo sviluppo delle idee della band).
Laddove in questa prima fase Roger Waters (basso/voce) e Nick Mason (batteria) assicurano una solida ed essenziale base ritmica (ed anche un fondamentale contributo alla composizione – in particolare il primo), è intorno all’asse David Gilmour (chitarra/voce) / Richard Wright (tastiere/voce) che si costruirà quello che sarà consegnato alla storia come il suono dei Pink Floyd, associabile in primis alle lunghe e maestose suite percorse dagli evocativi assoli di chitarra dell’uno e sorrette dalle imponenti tastiere dell’altro. Una via via crescente cupezza di umori, inoltre, avrebbe con il tempo soppiantato certe atmosfere naif della stagione psichedelica, cosa che avrebbe avvicinato la musica dei Nostri ai gusti del metallaro.
“A Saucerful of Secrets” (1968) presenta brani con caratteristiche assai diverse dal recente passato: mi riferisco alla strisciante e psicotica “Set the Controls for the Heart of the Sun” (che narra di un astronauta sucida che rivolge i comandi della sua navicella verso il sole - non proprio un tema tipico della psichedelia) e soprattutto alla superba title-track, quasi dodici minuti di estasi sonora, fra irrequiete improvvisazioni ed ariose aperture, con un finale di organo che sfiora il mistico. Intuizioni , queste, che verranno ulteriormente sviluppate nei lavori successivi. “Atom Heart Mother” (1970) si presenta con la mastodontica title-track di ventiquattro minuti, dove i Nostri sono accompagnati niente meno che da orchestra e coro: il tema portante del brano è quanto di più epico la band abbia sfornato nella sua carriera, mentre le sei sezioni di cui si compone sono un saliscendi emotivo che oscilla fra rock settantiano e musica sinfonica (peccato che il resto dell’album non sia all’altezza). Con “Meddle” (1971) si viene a confermare la capacità di sviluppare, a partire da idee semplici, brani di una grande potenza iconica. Basti pensare alla cavalcante “One of These Days”, dal proverbiale giro di basso e con la terrificante voce effettata (ai limiti del growl) di Mason. E come non menzionare, poi, gli immaginifici ventiquattro minuti di “Echoes”, fra cori eterei e progressioni strumentali da brividi. Un compendio perfetto di questa prima (seconda?) fase artistica della band lo troviamo nello splendido documento-video “Live at Pompeii” (1972), di cui si consiglia altamente la visione.
Ad onore di completezza, dovremmo citare anche la colonna sonora “More” (1968), il doppio “Ummagumma” (1969), con una facciata registrata dal vivo ed una in studio (esperimento in cui i quattro musicisti danno sfogo alle loro pulsioni più avanguardiste, non come ensemble, ma in solitaria) e la raccolta “Relics” (1971), con brani tratti dal primissimo periodo, ma contenente anche chicche meravigliose, come la mitica “Careful with that Axe, Eugene” (utilizzata per la colonna sonora di “Zabriskie Point”), sussurrata nella prima porzione e poi scossa nel finale da grida lancinanti e potenti deflagrazioni ritmiche.
Saltando a piè pari il trascurabile “Obscured by Clouds” (altra colonna sonora), giungiamo ad un’ulteriore stagione per la band, aperta da “The Dark Side of the Moon” (1973), emblematico fin dalla copertina. Lo stacco con il passato è netto, e se il linguaggio parlato è ufficiosamente ancora quello della psichedelia, le accortezze prese in studio di registrazione lo rendono un lavoro innovativo ed avulso dalla sua epoca. Con l'intento di rappresentare un viaggio nella follia umana, esso inanella brani memorabili (per lo più di minutaggio contenuto) che confluiscono l’uno nell’altro con una fluidità che ha del magico, il tutto immerso in una atmosfera da sogno e condito da azzeccati inserti di elettronica ed effetti speciali assortiti (le voci campionate, il battito cardiaco in “Speak to Me”, l’incidente automobilistico in “On the Run”, il ticchettio degli orologi in “Time”, i registratori di cassa in “Money”, etc.). Non è forse il capitolo più consigliabile al metallaro, ma rimane un passo obbligato nell’affrontare la discografia dei Pink Floyd. E certo la sognante “The Great Gig in the Sky”, con le prodezze vocali della guest Clare Torry, ha offerto spunti che abbiamo ritrovato in più di un album metal.
L’opera inaugura anche una trilogia dedicata ai mali dell’uomo della società occidentale, proseguita da “Wish You Were Here” (1975) e completata da “Animals” (1977), album "cugini" che traghetteranno il sound dei Pink Floyd verso altri lidi, ingrigendo i toni mano a mano che l’analisi sociologica dei Nostri si inasprisce. “Wish You Were Here” si apre con toni da requiem per mezzo di uno dei momenti più alti della poetica pinkfloydiana: la celebre “Shine on You Crazy Diamond” (divisa in due macro-sezioni chiamate rispettivamente ad aprire e chiudere l’album - venticinque minuti in tutto!) che si pone come la summa definitiva del Pink Floyd-pensiero, con tracce vocali ridotte al minimo e lunghi passaggi strumentali dove tastiere e chitarre sembrano dialogare all’infinito (il tutto impreziosito da ispirati inserti di sax - strumento spesso utilizzato in modo intelligente dai Nostri). Un gioiello come “Welcome to the Machine”, altro brano-capolavoro, risulterà uno degli episodi più amati nel metal, con i suoi synth gelidi e le voci aliene.
“Animals”, che si compone di materiale scartato dal lavoro precedente, prosegue sulla stessa direzione: altra amara dissertazione sulla natura umana, il nuovo lavoro dei Pink Floyd si mostra ancora più oscuro del predecessore, con almeno un paio di brani da ricordare, come la lunga e complessa “Dogs” (diciassette minuti ove, fra dotte architetture rock e perlustrazioni di sintetizzatori ai limiti dell’ambient, accade praticamente di tutto) e la più movimentata “Sheep”, anch’essa molto molto apprezzata negli ambienti del metal. Nell’arco di questi due ultimi album, invero, si noterà lo spazio crescente ricoperto dall’ego di Roger Waters, già penna feconda dalle origini della band.
Un processo, prima sotterraneo e poi sempre più evidente, che troverà piena realizzazione nella rock opera “The Wall” (1979), monumentale doppio-album sulla base del quale verrà realizzato in seguito persino un film (l’omonima pellicola di Alan Parker). Con fare oramai dittatoriale, il bassista/cantante mette in piedi un concept stratificato sull'incomunicabilità in cui convivono storia, politica e dramma individuale. Il sound classico dei Pink Floyd, seppur riconoscibile ed ancora forte della sua intrinseca carica visionaria, ne esce sacrificato, abbracciando un approccio più teatrale e slegandosi definitivamente dalla lunga suite progressiva per cui i Nostri si erano distinti in precedenza. Qui i singoli episodi si asserviscono alle esigenze narrative, fungendo spesso da scenografia per il soliloquio di uno psicotico Waters, immerso in una giostra di suoni che oscillano continuamente fra intimo raccoglimento e grandeur orchestrale. Si sprecano i momenti memorabili e in questa sede ci sentiamo di citare almeno il riff iniziale di “In the Flesh”, le tre parti di “Another Brick in the Wall”, l’oscura strumentale “Is There Anybody Out There?”, le ballate “Hey You” e "Comfortably Numb” (fra le più popolari ed imitate nel metal) e la delirante “The Trial” (teatro allo stato puro!).
In “The Final Cut” (1983), altro saggio auto-biografico che rielabora del materiale avanzato dalle sessioni di “The Wall”, Waters ritenta in piccolo la stessa formula, a volte colpendo al cuore con struggenti ballate come “The Gunner’s Dream”, “The Fletcher Memorial Home” e la title-track, a volte risultando eccessivamente auto-referenziale, laddove la musica (sempre più minimale) sembra degradarsi a mero orpello di contorno rispetto alle esigenze concettuali dell’album (con un Gilmour letteralmente imbavagliato e impossibilitato ad esprimere il suo estro chitarristico – da segnalare che Wright era stato allontanato dalla band durante le registrazioni di “The Wall”).
Sarà dunque inevitabile l’emergere di fratture insanabili in seno alla formazione: una rottura che culminerà con una strenue contesa legale al termine della quale Waters si ritroverà fuori dal gruppo e Gilmour detentore unico del brand. Quel che seguirà, francamente parlando, risulterà tuttavia di poco interesse per il cultore del metallo (ma anche per l’appassionato stesso dei Pink Floyd), in quanto con “A Momentary Lapse of Reason” (1987) il suono audace dei Pink Floyd virerà verso un rock "un po' seduto", certamente ben suonato, arrangiato, prodotto ed al passo con i tempi (molto “anni ottanta” nei suoni), ma più sterile nel concepimento e dagli imperdonabili dolciastri risvolti radiofonici (scioccante per qualsiasi fan della band il singolo “Learning to Fly”).
Le cose andranno un pelino meglio con il successivo “The Division Bell” (1994), ma solo perché oramai si è pronti ad aspettarsi di tutto. Il tomo, anticipato dal bel singolo “High Hopes” (visionaria ballata, nonché uno dei pochi episodi da salvare in questo scorcio finale di carriera), vede il ritorno all’ovile di Wright, cosa che giova al risultato complessivo, ma è chiaro che il manierismo e il gusto per gli arrangiamenti pomposi hanno preso oramai il sopravvento sulla creatività e sulla vena sperimentale. I Pink Floyd, del resto, sono oramai la band dei trionfali e spettacolari tour mondiali e poco altro. Seguirà una lunga fase di stanca in cui Gilmour preferirà dedicarsi alla sua carriera solista, mentre per i Pink Floyd il capolinea ufficiale giungerà dopo uno iato di venti anni con “The Endless River” (2014), opera di estrazione quasi strumentale chiamata da un lato a tributare la figura di Wright, deceduto qualche anno prima, e dall’altro a mettere il sigillo finale (pare) su una gloriosa epopea durata mezzo secolo. Un finale amaro, visto che l’album (non altro che gli scarti del lavoro precedente ricuciti alla bell’e meglio) si rivelerà fin troppo auto-indulgente: un esercizio di stile che scivola continuamente nella spudorata citazione del proprio passato.
Allora meglio le prove soliste del "pazzo" Waters, che con l’ottimo “Amused to Death” (1992) e il discreto “Is This the Life We Really Want?”(2017) offre uno sforzo maggiore quanto a scrittura ed impegno (politico ed intellettuale), supportato dalla inconfondibile cifra stilistica dell’artista (siamo pur sempre "prigionieri" in un territorio fra "The Wall" e "The Final Cut"). Chi ha nostalgia dei “veri” Pink Floyd, si può ancora consolare da queste parti...
Play-list per metallari:
1) “Interstellar Overdrive” (“The Piper at the Gates of Dawn”, 1967)
2) “Careful with that Axe, Eugene” (“Point me at the Sky”, 1968 - single)
3) “Atom Heart Mother” (“Atom Heart Mother”, 1970)
4) “One of These Days” (“Meddle”, 1971)
5) “Echoes” (“Meddle”, 1971)
6) “Shine on You Crazy Diamond” (“Wish You Were Here”, 1975)
7) “Welcome to the Machine” (“Wish You Were Here”, 1975)
8) “Hey You” (“The Wall”, 1979)
9) “Comfortably Numb” (“The Wall”, 1979)
10) “High Hopes” (“The Division Bell”, 1994)