Sempre un passo avanti rispetto a
tutti. Sempre i più duri nell’alveo del Metal Classico. I Judas. I “Gods of
Metal” non hanno (quasi) mai tradito i propri fan. Erano già avanti prima dell’esplosione
della N.W.O.B.H.M., quando seppero sfornare album immortali come “Sad wings of tragedy”,
“Stained class” e “Killing machine/Hell bent for leather”; lo rimasero, nel
sound, nell’attitudine e nell'iconico look all’alba della New Wave quando, assieme agli
Iron, misero tutti in riga con “British steel” e “Screaming for vengeance”. E
anche quando la spinta propulsiva di quel movimento si stava consumando, i JP
non persero un briciolo di intensità e pesantezza, sfornando, anzi, uno dei
loro dischi più apprezzati: il programmatico “Defenders of the faith”.
Dimostrarono di rimanere “sul pezzo” persino nel 1990, quando con i Maiden in fase calante da tempo, se ne uscirono, quasi con nonchalance e disarmante facilità, con “Painkiller”. Col quale parevano quasi voler dire: Ah si, c’è stato il thrash e il proto-death? Bene bene, tutto molto bello. Eccone la nostra rivisitazione. Che ne dite?
Che ne diciamo?!? Album epocale...
Negli anni a venire, si sono così potuti permettere il lusso di “stare alla finestra”, mantenendo saldamente il Trono del Metallo. A veder sorgere le nuove tendenze “panterose”, a introiettare le nuove “commistioni” del metal novantiano.
Poi il silenzio; il periodo Fight di Halford&Travis. E infine lo stesso Travis che si porta dietro nei Priest questo ragazzone di 28 anni, Timothy Owens, che fino a quel momento si limitava a cantare covers. Due anni di preparazione et voilà, ecco “Jugulator”. L’inizio della fine (?). Si, è vero.
Forse.
Forse perché,
dopo, ma solo dopo “Jugulator” i JP non riuscirono più a comporre un disco che non
fosse mediocre (“Demolition”) quando non scadente (“Nostradamus”); o appena
passabile (“Angel of retribution”), discreto (“Reedemer of souls”), o tutt’al
più buono (“Firepower”). Ma non di più…
Eppure sono questi, gli album con
Owens alla voce, “Jugulator” e “Demolition”, che sono spregiati dai fan e
alquanto detestati dalla critica. Tanto da farci automaticamente creare un
parallelismo: “Jugulator” e “Demolition” stanno ai JP come “The X Factor” e
“Virtual XI” stanno agli Iron Maiden.
Ma, mantenendo quel parallelismo, se “Demolition” possiamo dire che è stato un flop artistico come lo fu "Virtual XI", “Jugulator”, come "The X Factor", fu un disco coi controrazzi. Una mazzata nei denti da far paura. E, ancora una volta, “evoluto”. Diverso. Unico, in quel 1997, nella discografia dei Nostri.
I tempi rallentano (ma la title
track è di una velocità e di una violenza, mai fine a se stessa, imbarazzante),
si iniettano robustissime dosi di groove metal, i mid-tempos prevalgono
nettamente su quelli veloci, si inseriscono qua e là influenze industrial,
effettistica sulla voce e sulle chitarre; il tutto in modo mai invadente ma
sempre funzionale al sound complessivo (si veda, come fulgido esempio, l’ottima
“Brain dead”). E si capisce, quindi, come il passaggio nell’universo metallico nella
prima metà dei nineties di giganti come Fear Factory e Korn, non hanno lasciato
indifferenti le orecchie di Tipton e Downing.
Non rinunciando al loro consueto
gioco/scambio di fraseggi, i due mastermind della band settano le loro asce su
toni più ribassati, compressi, groovici. I riff sono tutti di primissima
qualità, senza cedimenti, e gli assoli non di rado hanno un sapore
robotico-sintetico.
Ma, e questo è davvero segno di
grandissima classe e qualità compositiva, i due vecchi volponi riescono “alla
prima” a superare chi quelle sonorità le aveva inventate e portate alla
ribalta. Come? Come detto, in primis, con la qualità dei riff (simili ma
diversi e riconoscibili uno dall’altro), con i perfetti cambi di tempo, con
inserti acustici e/o arpeggiati da brividi, mai ruffiani (quello dell’intro di
“Death row” o a metà brano di “Abducted” sono da antologia), ed evitando così i
momenti di stanca, praticamente assenti (forse qualcosina in “Decapitate” ma
giusto per essere pignoli...)
Prediligendo, in fase di
produzione, un approccio più cupo, oppressivo (proprio come avevano fatto gli
Iron per TXF), “Jugulator” è quindi un disco fottutamente classico&moderno
assieme. Capace, almeno sulla carta, di mettere d’accordo davvero tutti: fan
della vecchia guardia e nuovi metalhead cresciuti musicalmente negli anni
novanta.
E il ragazzino? Come se la cava dietro ai microfoni? Cazzo…alla grande…Owens, sembra quasi banale scriverlo nel 2020, è un cantante della madonna, capace di modulare la sua ugola su un range di tonalità amplissimo, lacerandoci i timpani con acuti al limite dell’umano fino a scendere a bassezze semi-growl. E quando si apre su toni medi e melodici, come nella splendida “Bullet train”, beh…si capisce che la scelta di Travis di portarlo dentro al gruppo fu lungimirante.
Ok, ai fan sarà mancato
Rob e come dargli torto? Ma qui signori eravamo davanti a un cantante
fenomenale (e qui si ferma pure il parallelismo coi Maiden…). Ascoltate bene,
ad esempio, “Burn in hell”: il buon Ripper dà un saggio di tutto quanto su
descritto. E lo fa a livelli strepitosi.
Se poi, dopo 48’ di grandissimo
metallo (classico, new-thrash, groove…chiamatelo come vi pare) qualcuno non si
era ancora convinto della bontà di “Jugulator”, beh…arriva lei, la conclusiva “Cathedral spires”: 10 minuti di
perfezione metallica. La canzone che vorrei avere come sottofondo il giorno del
matrimonio di mia figlia da quanto emoziona…il sigillo definitivo che ci disse in quel 1997, per
l’ennesima volta a oltre 20 anni dagli esordi discografici, che il Prete di
Giuda era sempre il God of Metal che tutti conoscevamo. Anche con Owens dietro
al microfono…
E se inizio della fine è dovuto
essere, beh, è stato uno splendido inizio della fine…
(Vedi il resto della Rassegna)
A cura di Morningrise