Abbiamo visto come i Pink Floyd siano divenuti un punto di riferimento cardine per quelle band che, nel corso degli anni novanta, seppero rivoluzionare il linguaggio del gothic, del black e del metal estremo in generale. Adesso facciamo tre passi indietro e torniamo nelle sontuose sale del prog-metal, da sempre ricettacolo privilegiato di stilemi pinkfloydiani.
Furono i Queensryche ad introdurre un approccio più concettuale nel metal, con ben in mente opere come “The Wall” e “The Final Cut”. Un lavoro come "Operation: Mindcrime" avrebbe infatti impresso una direzione ben precisa a quello che si stava modellando come un genere a sé stante: il prog-metal. Fra gli interpreti più intelligenti e raffinati di questo filone troviamo proprio i Fates Warning, oggetto della nostra dissertazione di oggi sul “metal pinkfloydiano”.
Anno 1988: Nessuna via d’uscita, se non attraverso il cancello d’avorio dei sogni...
I Fates Warning nacquero all’insegna di un heavy metal classico di chiaro stampo maideniano: “Night on Brocken” (1984), “The Spectre Within” (1985) ed “Awaken the Guardian” (1986) mostravano spunti interessanti e suggestivi risvolti fantasy, ma non erano di certo classificabili come progressive. Qualcosa cambiò con il quarto full-lenght “No Exit” (1988) che coincise con il passaggio di testimone dal pur talentuoso (ma anche troppo dickinsoniano) John Arch al più introspettivo Ray Alder, la cui caratteristica voce sarebbe divenuta presto un tratto distintivo per la band.
Forti del nuovo cantante, i Nostri si presentarono sul mercato con un album di soli sei pezzi, ma di cui uno, l’ultimo in scaletta, di quasi ventidue minuti: “The Ivory Gate of Dreams”. Definire questa suite una delle cose più belle udibili in fatto di heavy metal non è una esagerazione: divisa in otto sezioni, essa rappresenta l’espressione delle ambiziose intenzioni del combo americano, nonché il punto di snodo fra quell’heavy metal estroso che aveva caratterizzato il passato della band e il raffinato prog-metal con cui la stessa sarebbe stata da quel momento identificata.
La tripletta di album successivi, “Perfect Simmetry” (1989), “Parallels” (1991) ed “Inside Out” (1994), complice anche l’innesto del prodigioso batterista Mark Zonder, avrebbero consolidato il nome nella band nell’empireo del prog-metal, genere che nel frattempo era stato sdoganato al grande pubblico (metal) dai colleghi Dream Theater.
Guardando agli album appena citati, definire i Fates Warning “pinkfloydiani” suona tuttavia una forzatura: i brani dei Fates, a scapito della loro complessità, avevano una durata media assai contenuta (salvo qualche eccezione); il chitarrismo del leader Jim Matheos è sempre stato più focalizzato su ritmiche intricate che su ariosi assoli dal gusto gilmouriano; in genere le composizioni rilucevano ancora di una verve hard-rock e meno indulgente verso sonorità settantiane. In altre parole, rispetto a molti altri loro colleghi, ai quali ogni tanto la "zampata pinkfloydiana" scappava, i Fates Warning hanno sempre mostrato un rigore e una autoreferenzialità che se da un lato hanno contribuito a forgiare un sound unico ed inimitabile, dall'altro poco si prestano a letture consone al tema da noi oggi dibattuto: quello del metal pinkfloydiano.
Ma se decidiamo di includerli nella nostra rassegna è perché, ad un certo punto della loro carriera, anche in reazione ad una certa staticità stilistica mostrata dalle appena precedenti release discografiche, i Nostri decisero di giocarsi la carta del concept-album, con l'ambizioso proposito di realizzare un'unica composizione di cinquantatre minuti, esperimento tentato anche da altri nel metal, ma con alterne fortune. Il progetto vede certo nella sopra citata "The Ivory Gate of Dreams" un valido prototipo, ma questa volta le cose sarebbe andate diversamente, scollegandosi il sound dei Nostri dall'epicità che aveva caratterizzato l'illustre precedente, per spostarsi su territori esistenziali che potremmo definire queensrychiani.
Ironia della sorte, nemmeno un mese prima della pubblicazione di "A Pleasant Shade of Gray" era uscito “Hear in the Now Frontier” dei Queensryche: una doccia fredda per i fan della band di Seattle, che si ritrovarono per le mani un maldestro esperimento in direzione grunge (eresia!). Il "vuoto" lasciato dai maestri sarebbe stato così abbondantemente colmato dagli ormai navigati Fates Warning, giunti all'ottavo capitolo della loro pregiata discografia.
Anno 1997: "A Pleasant Shade of Gray" (anatomia di un capolavoro)
“Dunque, da dove iniziamo. E cos'altro possiamo dire? Quando le linee sono già disegnate. Cosa dovremmo fare oggi?”
"A Pleasant Shade of Gray", si diceva, è un’unica composizione, divisa in dodici sezioni. Nonostante le singole parti abbiano il più delle volte una loro individualità (tanto che molte di esse possiedono un ritornello e potrebbero essere pacificamente definite canzoni), l'album mostra nel complesso una straordinaria omogeneità.
Tale omogeneità è garantita, anzitutto, dalla componente lirica: i versi, scritti dal mastermind Matheos ed ottimamente interpretati dal sempre emozionante Alder, affrescano un lungo soliloquio in cui il protagonista (di cui non conosciamo il nome) sembra voler ripercorrere la propria vita, indugiando soprattutto sul tema del rimpianto. Amore, perdita, scelte sbagliate, quello-che-sarebbe-potuto-essere-ma-che-non-è-stato, riflessioni, ricordi, dubbi ed interrogativi esistenziali si accavallano in modo confuso in uno stato che potrebbe essere di dormiveglia (e non a caso il flusso di coscienza verrà bruscamente interrotto dalla soneria di una sveglia). Un non-concept che potrebbe ricordare gli umori di "Promised Land", uscito tre anni prima, ma che, ancora una volta, vede come inevitabile modello i Pink Floyd watersiani, maestri indiscussi dello scavo esistenziale messo in musica.
Ma il senso di unità di cui gode "A Pleasant Shade of Gray" non si limita alla parte concettuale. Le sezioni, anzitutto, sono collegate fra di loro e in questo ha un ruolo centrale l'ottimo lavoro svolto dietro la consolle del produttore Terry Brown (che già aveva lavorato con i Rush a cavallo fra settanta ed ottanta): i suoni da egli allestiti sono moderni e freddi (qualcuno li ha definiti industriali), in perfetta sintonia con l'atmosfera uggiosa dell'album.
Certamente aiuta lo stile della band, almeno per come si era strutturato nel corso degli anni novanta: minimale, incline alla malinconia, in netta controtendenza con l’eclettismo di molte altre band dedite al progressive. Incide certamente l’assenza della seconda chitarra (Frank Aresti è uscito dal gruppo) e il supporto alle tastiere da parte dell’ex Dream Theater Kevin Moore, le cui pulsioni minimaliste sarebbero emerse di lì a poco nel progetto Chroma Key.
E' doveroso tuttavia sottolineare il fatto che dietro a questo senso di unità dell’opera vi è un complesso lavoro della band volto alla definizione di un'architettura ad orologeria fatta di continui rimandi tematici. E in questo, finalmente, è il caso di tirare fuori i Pink Floyd della seconda metà degli anni settanta. Il tema musicale e lirico di “Part I” si ripeterà dunque svariate volte durante l’ascolto, ricalcando il modus operandi che la band inglese ha attuato in modo pedissequo in “The Wall”, attraversato da un unico tema riproposto in tutte le salse (quello che compare, per intenderci, nella tre parti di “Another Brick in the Wall”, ma anche altrove, spesso sotto forma di ossessivo giro di chitarra, come accade anche in "Hey You" e "The Trial").
Non solo: “Part V” e “Part VII”, poste non a caso a distanza ravvicinata, condividono lo stesso, ritornello (“Let nothing bleed into nothing And did nothing Let nothing bleed into nothing And did nothing at all”), che nella seconda viene sapientemente enfatizzato, raggiungendo l'effetto desiderato quanto a coinvolgimento emotivo. Oppure: il giro di pianoforte che apre la stessa “Part VII” viene poi riutilizzato e sviluppato in “Part VIII” (strumentale che poi virerà verso un raffinato duetto fra pianoforte e chitarra classica). Con questo incastro di temi che si richiamano vicendevolmente, la band salda indissolubilmente i vari tasselli, che, come già accennato, confluiscono l'uno nell'altro, o con trucchetti da studio (lo scrosciare della pioggia, per esempio) o semplicemente perché si incastrano bene. Altro tratto tipicamente pinkfloydiano.
Ma di pinkfloydiano non vi è solo la concezione strutturale dell’opera, ma anche rimandi espliciti al repertorio della band inglese. Si prenda “Part IV”, classico "brano ponte" che offre almeno due chiari richiami all’opera rock del Pink Floyd: nell'incipit viene in mente la già citata “Hey You”, per l'ipnotico arpeggio di chitarra, ma soprattutto per un profondo giro di basso di watersiana memoria (da menzionare l'ottimo lavoro alle quattro corde da parte dell'ex Armored Saint Joey Vera). Dopo una breve impennata prog, il brano torna quieto, questa volta tramutandosi in una semi-ballad che richiama alla memoria un’altra perla di “The Wall”: “The Thin Ice” (si faccia caso ai cori che supportano il canto dolente di Alder).
E come non citare “Part VI”, che nella prima parte evoca inequivocabilmente gli umori di una “Welcome to the Machine”, con trame tese di tastiere e voci campionate che drammatizzano l'inquieto arpeggio. L’esplosione del ritornello e l'intenso assolo di chitarra mimano le classiche ballate condotte dall'estro melodico di David Gilmour e i suoi infinite solos. E la conferma del fatto che i Nostri operino con in mente i Pink Floyd si ha con l’eco di voce alla fine del ritornello: eco che si prolunga desolante proiettando la propria ombra sull’ambientazione successiva (cliché tipico del soliloquio watersiano). Il tema principe dell’opera che si aggancia in coda al brano è solamente gloria che si aggiunge alla gloria: come saper architettare un climax perfetto e colpire l'ascoltatore quando è più indifeso.
Ancora “The Wall” nella sezione “VII”, dove i possenti accordi di chitarra, i cori da stadio, ricordano da vicino “In the Flesh”. In “X”, una breve strumentale, il tema principale dell'album viene ripreso nuovamente, questa volta condito di infiltrazioni elettroniche che richiamano ancora una volta le atmosfere alienanti di “Welcome to the Machine”: scelta atta a preparare il terreno all'avvincente fase finale dell'opera. Nell'elegiaca "XII", infine, il tema dell'album torna ancora, l'ultima, con la forza di un ensamble al completo che suona in modo impeccabile e sa colpire al cuore come pochi.
“Dunque, da dove iniziamo. E cos'altro possiamo dire? Quando le linee sono tutte disegnate. Cosa dovremmo fare oggi?”. Echeggiano ancora nella mente questi emblematici versi, a confermare l'efficacia della band nel veicolare il suo messaggio. Ci siamo divertiti a compiere una vera e propria caccia al tesoro degli elementi pinkfloydiani, ma il nostro esercizio non deve indurre a pensare che i Fates Warning siano una band derivativa: come pochi altri, gli americani vantano un sound più unico che raro, riconoscibile alla prima mezza nota. La nostra analisi (che poteva benissimo essere fatta per altri concept di band prog-metal, come per esempio "Metropolis Pt. 2 - Scenes from a Memory" dei Dream Theater) era solamente volta a sottolineare, ancora una volta, come i Pink Floyd siano una presenza forte nel background di chiunque, nel metal, si sia cimentato in opere dalla forte valenza concettuale.