"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

4 nov 2018

METTI UNA DOMENICA SERA CON KEVIN MOORE...


Domenica sera, ore 7:00pm circa: il fantasma del lunedì già ti prende per la gola quando ancora sei assopito nel tedio domenicale. É un momento fragile questo, deve essere gestito con delicatezza. 

Se sei a casa e ti accingi a cucinare, l’oscurità è già rotta da quella luce gialla che è tipica della cucina che in genere riserva gli avanzi del pranzo. Per rassicurarti, ci vorrebbe la certezza di un film di Woody Allen dopo cena, ma se non è uscito di recente alcun film di Woody Allen (strano) allora ti ci vuole il sottofondo musicale giusto, qualcosa di pacato, avvolgente, non ingombrante.

Ci vorrebbe qualcosa di non metal, ma del metal hai bisogno, per il calore, per sentirti a casa, protetto. Se non può essere metal, allora che sia qualcosa ad esso correlato. Potevano calzare gli Ulver, ma gli Ulver richiedono troppa attenzione ed in genere li associo a momenti carichi di elettricità. La mente vola inaspettatamente ai dimenticati Chroma Key di Kevin Moore

Rievoco “Dead Air for Radios”, anno 1998. L’ex tastierista dei Dream Theater si riaffacciava sul mercato discografico con il suo progetto solista: niente di più lontano dai funambolismi di Petrucci & company. Il tocco jazzato del maestro Mark Zonder e il basso rotondo di Joey Vera (sodali nei Fates Warning con cui Moore aveva a più riprese collaborato) conferivano umanità ai suoni minimali di una elettronica soffusa con ambizioni cantautoriali. 

Mi ha sempre dato un senso di incompiutezza quell’album, sarà stata quella sensazione di “troppo poco” dopo il “troppo troppo” dei Dream Theater. In questa domenica d'autunno ho invece bisogno di qualcosa di uguale e di diverso, per questo ripiego sull’opera seconda “You Go Now”, anno 2000, che non avevo mai ascoltato. 

Che cosa stupefacente il cervello: senza troppi struggimenti, l’inconscio mi ha suggerito l’ascolto perfetto. Perché non poteva esistere ascolto più congeniale per la malinconia sospesa e rarefatta della domenica sera. Se Moore fosse il mio vicino di casa, indubbiamente sarebbe la persona ideale per farsi una birra al pub prima di cena e salutare il weekend fra discorsi profondi e leggeri al tempo stesso.

L’ingegnere del suono Steve Tushar, già presente nel lavoro precedente, entra in formazione, e forse è grazie a lui che i suoni si fanno maggiormente levigati, maturi: perfetti per chi ha messo oramai entrambi i piedi fuori dal perimetro del metal. Per il resto Chroma Key rimane immutato nella sua missione artistica: pattern elettronici, tastiere aeree, piano noir e quel canto da Ozzy robotico fluttuante, ora su note vellutate di ambient-music, ora su bassi circolari di sofisticato trip-hop

Ma che bellezza le voci arrochite degli astronauti, gli interventi vocali vocoderizzati, quel piano soffice che massaggia le orecchie e quel senso di sospensione che si prova galleggiando su queste melodie ricorsive, come se fossimo noi, rivestiti di tute spaziali, a gravitare lungo le pareti di stazioni spaziali parcheggiate nel Vuoto

Residui prog sopravvivono nell'uso dei sintetizzatori, ma in generale non riconosco quasi in nulla il Moore che avevamo incontrato nei Dream Theater, se non nella classe, nel tocco misurato e nel mood introspettivo. Chissà se il Nostro si è rifugiato nel minimalismo perché esasperato da Petrucci, o più semplicemente perché il Teatro del Sogno gli iniziava a stare stretto (o, per meglio dire, largo?). Alla luce di ascolti come questo si comprende facilmente come mai Moore abbia deciso ad un certo punto di lasciarsi alle spalle il baraccone, rifugiandosi in una nicchia di pura autorealizzazione artistica

Qualche anno dopo, nel 2004 per l’esattezza, sarebbe uscito un terzo (ad oggi ultimo) album targato Chroma Key: “Graveyard Mountain Home”. Voglio ascoltare anche questo in una sorta di improvviso attacco di bulimia: titolo accattivante, bellissimo anch’esso e proiettato lungo le medesime sonorità. Persino la mia ragazza (stranamente) sembra apprezzare mentre ceniamo, eppure non è la stessa cosa: in qualche dettaglio stride, qualcosa non torna, l'album non si sta rivelando perfetto come lo è stato, un momento prima, “You Go Now”, trentanove minuti di pura poesia domenicale, un gioiello caduto presto nell'oblio e che valeva la pena oggi riscoprire (e ridendo e scherzando son passati quasi venti anni…). 

Per non incrinare il ricordo di questo momento perfetto, non penso che ascolterò di nuovo "You Go Now"..