Si è già parlato di Radiohead sulle pagine di Metal Mirror: era il ventennale di “OK Computer”, occasione per descrivere in modo ardito l’influsso della visione radioheadiana sugli sviluppi del metal degli ultimi due decenni. Oggi 5 novembre 2021 esce "Kid A Mnesia", operazione analoga con cui la band intende celebrare il ventennale dalla pubblicazione di quella doppietta di capolavori, "Kid A" ed "Amnesiac" (rispettivamente del 2000 e del 2001), che seppero a dir poco ridefinire l'estetica del rock del nuovo millennio.
In questa sede non intenderemo approfondire i contenuti di suddetti album, ma più semplicemente compiere una retrospettiva di questa importantissima band, sempre tenendo d'occhio i gusti del metallaro, come nostra assodata consuetudine.
Partiamo dal presupposto che Radiohead e metal stanno su sponde distanti, sia da un punto di vista concettuale che per quanto riguarda le sonorità. Eppure nella realtà dei fatti questa distanza si è andata ad accorciare, tanto che non è infrequente trovare ammiratori dei Radiohead all’interno del Reame del Metallo. Come è stato possibile?
Anzitutto la musica dei Radiohead porta con sé una cupezza ed un senso di alienazione che ben si allineano ai gusti del metallaro, da sempre attratto da atmosfere torbide ed angoscianti. Aiuta il fatto che la carriera dei Nostri, sebbene coronata da un grande successo di vendite, si sia di fatto dimostrata anti-commerciale nelle scelte, sia nei suoni esplorati che nelle strategie di marketing di volta in volta adottate. Ed anche questo ha reso più sereni tutti noi nell’approcciarci alla musica di Thom Yorke e soci, visto che il metallaro, per indole, tende ad evitare i fenomeni più schiettamente commerciali. Infine i Radiohead, come si diceva sopra, hanno letteralmente definito l’estetica del rock (o di gran parte di esso) del nuovo millennio, e dunque anche indirettamente il metal non ha potuto schivare soluzioni stilistiche, umori, approcci introdotti dai Nostri. Ed ecco che in molte sue espressioni (prog-metal in primis, ma anche sul versante delle sonorità post-ecc.) il metal si è fatto più introspettivo, più fragile o più raffinato, talvolta adottando soluzioni stilistiche tipiche dalla band di Oxford, come per esempio l’utilizzo del vocoder.
A complemento di tutto questo è bene ricordare che la musica dei Radiohead dà espressione ad una ricerca sonora e ad una analisi sociologica che, in una certa misura, possono essere assimilabili al percorso compiuto un paio di decadi prima dai Pink Floyd, altra entità decisamente apprezzata negli ambienti metal e a cui i Radiohead stessi sono stati accostati più volte. Esemplare, nell’evidenziare il collegamento fra le due band, la parabola artistica dei "nostri" Anathema che, pesantemente influenzati dai Pink Floyd nella loro fase doom-gothic, hanno poi saputo costruirsi una solida reputazione nel mondo del rock con lavori come “Judgement”, “A Nice Day to Exit” e “A Natural Disaster”, che proprio alla poetica radioheadiana guardavano con dichiarata ammirazione.
Dopo quasi trent’anni e nove full-lenght, i Radiohead sono oggi vivi e vegeti: hanno saputo raggiungere presto l’Olimpo del Rock, grazie a due/tre album epocali collocati temporalmente nella prima parte della loro carriera, ma i Nostri, lungi dal sedersi sugli allori, hanno anche dimostrato di avere molte cartucce da sparare, tanto che i lavori rilasciati negli ultimi venti anni, pur senza possedere lo stesso potenziale di rottura di quelli “storici”, rappresentano la più che dignitosa prosecuzione di un colto e raffinato cammino di ricerca. Questo per dire che la storia dei Radiohead va avanti, non presentando il classico “punto morto” che giova agli esercizi di retrospettiva. E se oggi ne parliamo, lo facciamo semplicemente perché abbiamo voglia di farlo, e non per tirare le somme di un percorso che - ne siamo certi - ha ancora molto da offrire.
L'epopea dei Radiohead inizia nel settembre del 1992 con l'uscita del singolo “Creep”, chiamato ad anticipare il full-lenght di debutto "Pablo Honey", che avrebbe visto la luce l'anno successivo. I cinque giovini provenienti dall’Oxfordshire, reduci dal trascurabile EP "The Drill" (sempre del 1992), avevano stentato a farsi notare, complice anche una presenza scenica non certo esaltante, ma adesso "Creep" li proiettava di colpo nell'alta classifica, facendo loro guadagnare l'altisonante appellativo di Nirvana britannici. Il fenomeno grunge si trovava allo zenit della popolarità e certo "Creep" non sfuggiva a quegli umori, sospesa fra toni da depressive ballad ed esplosioni improvvise di chitarra, il tutto baciato dal canto esasperato di Thom Yorke che sarebbe divenuto presto il principale trademark della band. In quel brano si introducevano, pur con qualche ingenuità, quel mondo di perdenti e sfigati, quel senso di inadeguatezza adolescenziale, quelle nevrosi giovanili da cui le alienanti esplorazioni sonore del futuro avrebbero preso piede.
"Pablo Honey", edito nel 1993, avrebbe tuttavia tradito le aspettative dicendo poco di nuovo sul fronte musicale ed appiattendosi sulle sonorità dell'alternative rock radiofonico tanto in voga all'inizio degli anni novanta. Capiamoci: "Pablo Honey" non è da considerare un brutto album in assoluto, ma di certo esso costituisce un lavoro che mostra una band ancora poco consapevole di se stessa, poco consapevole delle proprie potenzialità e soprattutto poco consapevole delle proprie intenzioni. Per questo motivo, senza cattiveria, esso è da vedere come un episodio a parte nella carriera dei Radiohead, un capitolo che verrà presto rinnegato dalla stessa band.
Il successo di "Creep" portò comunque ad un contratto con la prestigiosa EMI e il tocco della major si sente, si sente eccome, in "The Bends”, opera seconda targata 1995. Scrollate di dosso certe intemperanze giovanili dell'esordio, l'album si impregnava fino al collo negli umori british pop del periodo, con punte di melodismo spudorato che fece accostare il nome dei Nostri persino a quello degli U2. Ma al di là delle palesi ambizioni commerciali di certi episodi, si registra nel complesso un significativo passo in avanti, grazie anche ad un ensemble di musicisti cresciuti, affiatati e capaci finalmente di realizzare brani accattivanti, se vuoi anche orecchiabili, ma portatori di un’inquietudine che covava verso sviluppi ulteriori. L’album si chiudeva con “Street Spirit (Fade Out)”, una ballata spettrale in cui un arpeggio ipnotico ed un coinvolgente crescendo strumentale fanno da sfondo all’angosciante lamento di Yorke: i “nuovi Radiohead” sono belli e serviti.
Le lugubri atmosfere di questo brano-capolavoro verranno riprese, sviluppate ed estese all’intero full-lenght successivo, quell’“OK Computer” (1997) che sancirà lo spartiacque fra lo status di rock band di successo e quello di entità capace di ridisegnare l’estetica del suono di una epoca intera. Del resto lo scorcio finale degli anni novanta non mostrava il fianco a grandi ottimismi: le nevrosi del grunge riemergevano nell'era dei rave party sotto forma di un nichilismo che ammorbava le nuove generazioni, frammentate, isolate e disorientate innanzi ad un mondo che non offriva più solidi punti di riferimento. Le nuove composizioni dei Radiohead divenivano dunque la colonna sonora ideale per l’ansia, l’atomizzazione, l’alienazione dei giovani dell’epoca: nonostante la ritrosia di qualche miope, il mondo si ritrovava a rispecchiarsi in questa musica disturbante, fatta di languide ballate e visioni oscure di un mondo tecnologico oramai indomabile.
L’approccio alla composizione diviene in un certo senso progressivo, ma la ricerca dei Nostri non si muove lungo i binari della suite, anzi, il formato-canzone permane come modulo privilegiato, animato dalle evoluzioni di una sezione ritmica puntuale e suoni liquidi, impalpabili: un flusso emotivo offuscato da incursioni di elettronica, rumorismi e un uso sempre meno convenzionale degli strumenti. I musicisti, dal canto loro, sembrano essere sempre meno rigidi nell’interpretare i propri ruoli, con in prima fila un Thom Yorke diviso fra microfono, chitarra e pianoforte, e un John Greenwood più a suo agio nei panni del polistrumentista che in quelli del semplice chitarrista. Da tutto questo scaturiranno brani eccelsi, tanto significativi se presi singolarmente quanto coerenti nell'articolare una visione penetrante sulle contraddizioni della società occidentale: un messaggio, quello dei Radiohead della maturità, radicalmente anti-sistema.
“Paranoid Android” è una mini operetta dall’umore instabile, sospesa fra lugubre ballata ed improvvisi break chitarristici; “Karma Police” è nevrosi lennoniana trasposta ai mali di fine millennio: saggi, entrambi, di un mal de vivre insostenibile e nonostante questo divenuti singoli di gran successo. E come non citare la funerea “Exit Music (For a Film)”, fra toni sommessi, quasi soffocati, e sconfortanti esplosioni; la desolante “No Surprises”, forte del contrasto fra il candore fanciullesco di uno xilofono e uno Yorke da cappio al collo; il dittico finale - escapismo allo stato puro - composto dalle pinkfloydiane “Lucky” e “The Tourist”, immerse in una atmosfera irreale, cullate da suoni dilatati, sospese fra sogno e realtà: la colonna sonora ideale per la fuga da questo mondo.
Sarebbero bastati questi dodici brani per iscrivere la band negli annali della storia del rock, ma la peculiarità dei Radiohead è stata proprio quella di rilanciare e non lasciare: di non essersi fermati ed aver avuto il coraggio di cambiare ancora una volta le carte in tavola.
Proprio mentre il mondo si stava modellando intorno alle loro intuizioni e schiere di discepoli iniziavano a spuntare come i funghi (Muse un nome fra i tanti), ecco che i Nostri prendono tutti in contropiede con un album ostico e dalle poche concessioni all'orecchiabilità. “Kid A” (2000) spiazza fin dalla sua promozione: nessun videoclip fu realizzato per il lancio di questa operazione discografica che nasceva da una faticosa lavorazione e fra i mille dubbi degli stessi musicisti. Destrutturazione è il concetto chiave per capire cosa combinarono i Nostri, che con un balzo uscirono dal recinto del rock per spostarsi sui binari di una elettronica di scuola Warp (chi ha detto Aphex Twin?).
A fare da collante con il passato troviamo il falsetto svenevole di Yorke, la cui voce non veniva risparmiata dalle manipolazioni di un vocoder: sullo sfondo, scenari desolanti che vedevano i fraseggi spezzati di beat elettronici e bassi corpulenti dialogare con i suoni processati di sintetizzatori e chitarre. “Everything in its Right Place” e “Idioteque” sono i nuovi inni generazionali scritti dai Radiohead, danze robotiche che continuano a convivere accanto alle consuete ballad (“How to Disapper Completely” la nostra preferita), qui in una veste ancora più scarna e minimale che in passato.
A nemmeno un anno di distanza esce “Amnesiac” (2001), scaturito dalle medesime sessioni di “Kid A” e da considerarsi il suo album gemello: le sonorità sono le medesime del predecessore, ma un po’ meno ermetiche ed impenetrabili. Si registra infatti una lieve riapertura sul piano della comunicazione da parte della band, una scrittura meno frammentata e cervellotica, la volontà di scrivere brani che potessero avere una autonomia, cosa dimostrata dai singoli “Pyramid Song” (trasognata ballata pianistica) e “Knives Out” (rigurgito dei vecchi Radiohead “elevati” ai nuovi canoni di alienazione). Il lamento yorkiano si muove fantasmatico attraverso gli undici gironi di questa nuova discesa negli Inferi dell'Occidente, esso è il filo rosso che unisce i differenti scenari allestiti dalla band, fra elettronica claustrofobica ed intense aperture melodiche: alchimie che vanno a consolidare il nuovo suono dei Radiohead, destinato a cambiare il volto del rock degli anni zero.
L’influsso di questi due tomi sull’intero panorama del rock alternativo (ma non solo) sarà dunque immane: ai Radiohead non resterà che portare avanti con onore il proprio percorso, impresa non proprio semplice considerate le aspettative che si sono andate a generare per ogni loro uscita discografica successiva.
“Hail to the Thief”, del 2003, è certamente un lavoro di altissimo livello, ma in esso si respirano tutte quelle incertezze e quelle paure che la band ha dovuto affrontare nel concepire un "dopo" alla fase "Kid A"/"Amnesiac". Musicalmente parlando esso costituisce una sorta di ritorno al passato ma senza rinnegare del tutto le recenti sperimentazioni. Fra episodi che recuperano un armamentario rock più convenzionale (“2+2=5”), inquiete ballate (“There There”, “A Wolf at the Door”) ed ottenebranti escursioni elettroniche (“The Gloaming”, “Myxomatosis”), il risultato è eterogeneo e nel complesso convincente, sebbene quattordici pezzi e cinquantasei minuti siano forse troppi, laddove l'ispirazione va e viene, e qua e là emergano i primi tocchi di manierismo: comprensibile quando si diviene una istituzione della musica contemporanea.
Il successivo “In Rainbows” (2007) mostra maggiore sincerità, oserei dire serenità: è probabilmente intervenuta nel frattempo l’accettazione del fatto che non si può cambiare il mondo ogni volta che si entra in studio di registrazione. Hanno certamente giovato quattro anni di pausa riflessiva nei quali sono intervenuti fattori determinanti come l’abbandono della EMI (i Nostri, da quel momento, si sarebbero auto-prodotti), l’esperienza solista di Yorke (con il buon “The Eraser”, del 2006, che in verità non si discostava molto da quanto combinato con la band madre, ma sarà servito sicuramente come valvola da sfogo) e l’avvio della fortunata carriera da autore di colonne sonore di John Greenwood (cosa che avrà negli anni successivi delle influenze sulla musica dei Radiohead, soprattutto a livello di arrangiamenti).
Gli umori si fanno dunque più distesi, a tratti persino solari. Meno lungo e dispersivo del suo predecessore, “In Rainbows” è realizzato da una band rilassata, che gioca principalmente su ritmi e sofisticate cromature elettro-acustiche, compattando il Radiohead-sound in poco più di quaranta minuti e dieci brani. Non vi si trovano particolare acuti, ma tutto scorre che è una bellezza, dagli intarsi elettronici della brillante opener "15 Step" alle incalzanti “Bodysnatchers” e "Jigsaw Falling into Place", passando per l'emotività di intime ballate come "Nude", “All I Need” e "House of Cards". Si percepisce più che altro una maggiore padronanza dei mezzi in sede di post-produzione, cosa che permette ai Nostri di effettuare un ottimo lavoro sui suoni e saldare senza strappi l'universo analogico a quello digitale, con un'eleganza che non si era riscontrata in precedenza.
Questa rinnovata sicurezza si trasferisce nello sperimentale “The King of Limbs” (2011) che mostra una band oramai convinta al 100% delle proprie scelte e ben poco curante dei giudizi di pubblico e critica. Avrà tuttavia deluso in molti questo album breve di soli otto brani privi di melodie memorabili e per lo più incentrati sulla componente percussiva. Fa eccezione il gioiello pianistico che risponde al nome di "Codex", uno squarcio di umanità nel bel mezzo di composizioni più pensate che sentite. Lodevole il coraggio, apprezzabili gli sforzi fatti in studio in merito a suoni ed arrangiamenti: esso è infatti un album indiscutibilmente raffinato e di sicuro non alla portata di tutti, quasi un lavoro da band di nicchia, ma inutile dire che dai Radiohead è lecito aspettarsi di più, molto di più.
Raddrizzerà il tiro l’ottimo “A Moon Shaped Pool” del 2016 e ad oggi ultimo lavoro di inediti rilasciato dalla band: in questo lavoro i Nostri si muovono con disinvoltura lungo quel range espressivo che nel corso degli anni ne ha caratterizzato il suono, ma con un quid in più quanto ad emotività che lo rende a nostro parere il miglior album dei Radiohead dell’era post “Kid A”/“Amnesiac”. L’indole sperimentale, non più audace come un tempo, si adagia nelle forme eleganti di composizioni sempre più curate a livello formale, con suoni puliti che mettono in luce il più piccolo dei dettagli ed arrangiamenti sempre più elaborati, con uso di cori ed archi a lambire la musica da camera. E così "Burn the Witch" apre le danze con l'incalzare degli archi, “Daydreaming” integra piano, ambient, ancora avvolgenti arrangiamenti di archi ed intense linee vocali come solo i Nostri sanno fare, “Ful Stop” sfodera il lato più sperimentale della band con un pulsare ossessivo che rievoca certo “kraut dello spazio”, mentre la stupenda ballata pianistica “True Love Waits” chiude l'album nel migliore dei modi.
Non è forse più lecito aspettarsi grandi colpi di scena dai Radiohead, ma forse questo è l'approccio migliore che si può avere oggi con la loro musica: non nutrire aspettative di nessun tipo, lasciarsi andare e fidarsi. A quasi trent’anni dall’inizio del loro cammino, i cinque giovini dell'Oxfordshire hanno ancora molto, moltissimo da offrire. Stupido sarebbe pensare che la loro carriera si sia conclusa venti anni fa...
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