Che anno è stato, il 2022, per il
power metal?
Le uscite da parte di ‘calibri da 90’ non sono di certo mancate nel corso dell’anno appena trascorso e Metal Mirror, oggi, le va ad analizzare. Del resto, certi nomi sono troppo importanti nel panorama metal mondiale per far finta di niente…
Allora, tanto per cambiare la
‘parte del leone’, almeno da un punto di vista quantitativo, l’ha fatta la
Nuclear Blast. E
così, ecco che per la label di Donzdorf vengono licenziati i nuovi Blind
Guardian e Avantasia. Trattiamoli singolarmente.
BLIND GUARDIAN - “The
God Machine”
I Bardi di Krefeld tornano in
campo a distanza di ben 7 anni dall’ultimo, buonissimo, “Beyond the Red
Mirror”, già disco dell'anno su Metal Mirror. In mezzo, l’esaltante esperienza
di “Legacy of the Dark Lands”, odiato da molti ma amato dal sottoscritto (il
perché e il percome lo leggete qui). Ebbene, “The God Machine” è “solo” un buon
album, in cui i Nostri dispiegano sapienza compositiva e discreta
ispirazione, rilasciando un prodotto di maniera che non fa sobbalzare sulla
sedia, pur non avendo né filler né cadute di tono. Semplicemente, per chi
scrive, è il full lenght meno valido dell’intera loro carriera (e con una
mixaggio rivedibile). Dopo un trittico iniziale notevole, culminante
nell’highlight del disco “Secrets of American Gods”, tutta la parte centrale
dell’album raggiunge la sufficienza senza mai esaltare: 5 brani di fila (da
“Violent Shadows” a “Blood of the Elves”) impeccabili formalmente ma senza quei
guizzi (che siano una linea melodica particolarmente memorabile o una sezione
strumentale originale) riscontrabili nei primi tre brani. La conclusiva “Destiny”
prova delle soluzioni armoniche diverse dal materiale restante con risultati
alterni.
Album solo per i fan indefessi
del Guardiano Cieco (e infatti fa parte della mia collezione…)
Voto: 7
AVANTASIA – “A Paranormal Evening with the Moonflower
Society”
Titolo altisonante, suggestiva
copertina timburtoniana, solita pletora di super cantanti di ambo i
sessi alla corte di Mr. Sammet.
Il nuovo Avantasia è un disco
piacevole, asciutto, facilmente memorizzabile. Ma fottutamente ‘telefonato’.
Ormai, da circa un decennio, quando si schiaccia il tasto play di un disco dell’ex side project dell’artista di Fulda, sai già cosa aspettarti.
Tanto che in molti casi ti chiedi: ma questa canzone non era già presente sul
disco “X”?!? E questo non è un bel segnale. Insomma, in tanti frangenti dei 53’
di durata del disco, se non ci troviamo davanti ad auto-plagio poco ci manca (per
credere, ascoltare “Kill the Pain Away”, “The Inmost Light” o il refrain di
“The Moonlight Society”).
Tobias pare dare il meglio della
sua ispirazione nelle sezioni più riflessive e melodiche, anche se a volte esagera,
come in “Paper Plane”, ove il tasso di glicemia nel sangue si alza fino a
livelli preoccupanti; quando Sammet prova a pigiare il piede sull’acceleratore,
invece, è ancora la sensazione di deja-vu a pararsi di fronte, con una qualità
che latita (vedasi “Rhyme and Reason” o la peggiore del lotto, la pessima
“Scars”). D’altro canto, per noi amanti delle sonorità da sempre trademark
degli Avantasia, basta poco per emozionarsi e brani come l’opener “Welcome to
the Shadows”, la cazzuta “The Wicked Rule the Night”, il refrain di “Misplaced Among
the Angels” o la suite conclusiva, l’orientaleggiante fin dal titolo
“Arabesque”, ci bastano e…no, stavo per scrivere “avanzano” ma no, non è più
così…E per alzare le quotazioni del disco, non basta la suggestiva variazione
delle ugole in gioco, da brano a brano sempre diverse.
Insomma, dopo l’ottimo “The
Mystery of Time” (2013) il progetto Avantasia pare essersi arenato in una
riproposizione degli stessi stilemi che hanno fatto la fortuna della band
dagli albori delle mitiche “Metal Opera I&II”(2001-02). Ma dalle capacità
compositive di Tobias ci aspettiamo molto di più che una sufficienza
stiracchiata.
Voto: 6
Abbandoniamo la Germania e la
Nuclear Blast, piuttosto insoddisfatti, per atterrare nella vicina Austria, in
casa Napalm Records che, per il terzo album di fila, ha supportato gli
HammerFall…
HAMMERFALL – “Hammer of
Dawn”
A differenza dei due nomi precedenti, qui le nostre orecchie non si aspettavano nulla di particolarmente significativo dai cinque defenders di Goteburg. E infatti…
Ho lasciato
ormai da tempo gli svedesi, deluso dalla sterile riproposizione degli stilemi
con cui avevano (ad oggi lo possiamo dire: piuttosto incomprensibilmente) fatto
breccia nel mercato internazionale e nel cuore di legioni di fan real&pure
nel 1997 col debut “Glory to the Brave” e il successivo “Legacy of Kings”. Se
fino a “Crimson Thunder” la qualità della loro discografia si era mantenuti su
livelli più che buoni, da “Chapter V” (2005) in avanti l’accoppiata Joacim Cans
– Oscar Dronjak va avanti col pilota automatico. Mestiere, mestiere e poco (o
nulla) più. Qualcosina di buono qua e là si vede (l’accoppiata iniziale
“Brotherhood” e la title track sono piacevoli) e, va detto, l'ugola cristallina di Cans, a 52 anni, continua a essere un trademark importante per la band. Così
come produzione ed esecuzione rimangono professionalmente impeccabili. Ma il
disco, dalla pessima “No Son of Odin” in poi, non decolla mai, non riuscendo ad
emozionare neppure nella scontatissima ballad “Not Today”. Tra lyrics
autocelebrative more true than the True e un songwriting che prova a
riscaldare i cuori con i cliché più abusati (riff cavalcanti, assoli classic e
ritornelli ariosi) è proprio l’ispirazione e il flavour epico, presenti nelle
loro prime opere, a mancare. E anche quando li si prova ad evocare tramite refrain
corali (come in “Reveries”) il risultato fa quasi tenerezza…
Per i soli fan indefessi della
band (e, forse, manco per quelli…)
Voto: 5
Ma allora chi cazzo si aggiudica questa palma di miglior album power del 2022?
Torniamo in Germania per saperlo,
presso gli studios della versatile earMusic dove, ormai dal 2009, si sono
accasati gli Stratovarius…
STRATOVARIUS – “Survive”
“We had the promised land / We were supposed
to be the chosen ones / We thought we were unbreakable…” (da “Broken”)
Lo ammetto: nel corso dei decenni
di ascolti metallici, gli Stratovarius li ho abbandonati una ventina di anni
fa. E non mi sono mancati. Ho letto distrattamente dei grossi problemi di salute
di Tolkki e, in tutta sincerità, me ne sono dispiaciuto perché a Timo sono
particolarmente affezionato. Lui e Jen Johansson sono stati due dei musicisti
che, nella mia fase liceal-universitaria, ho più apprezzato e i dischi storici
dei finlandesi (“Episode” e “Visions” su tutti) li ho, all’epoca della loro
uscita, letteralmente consumati.
Ma non avrei mai ascoltato
“Survive” se in Redazione il nostro Lost in Moments non lo avesse sponsorizzato
caldamente. E, cavolo, aveva, ancora una volta, fottutamente ragione!
Già la copertina è a dir poco
clamorosa (opera del loro cover artist di fiducia, l’ungherese Gyula Havancsák),
rappresentativa dell’auto-distruzione che l’Uomo, con successo, sta perpetrando
da decenni. In una discarica piena zeppa di manufatti, campeggia un teschio
umano dalla cui terra che ne riempie la cavità, cresce una gracile piantina
verde, simbolo, nonostante tutto, di speranza per il futuro.
Che i Nostri siano baciati da ispirazione e freschezza lo si nota dalle prime note della title track che apre i 58’ di musica che compongono il disco. E non sarà un fuoco di paglia. Tutt’altro. Perché (quasi) ognuno degli undici brani cattura l’ascoltatore; anche quando essi si configurano come “canonici” (penso a “Glory Days” o “Before the Fall”, ad esempio) trasmettono una carica energica notevole. I momenti di stanca si contano sulle dita di una mano (forse proprio i singoli “Firefly” e “World on Fire” risultano scontatini, seppur non sgradevoli). Ma per il resto chapeau, con nota di merito per l’articolata “Frozen in Time”, la dolce “Breakaway” e la suite conclusiva “Voice of Thunder”.
Per il resto che dire? Band impeccabile con Matias
Kupiainen alle sei corde, Lauri Porra al basso e il giovane Rolf
Pilve al drum kit che non fanno rimpiangere minimamente tre nomi storici e
ingombranti che avevano fatto le fortune degli Stratovarius nei tardi novanta,
come Tolkki, Jari Kainulainen e Jörg Michael; Kotipelto non pare
risentire minimamente dell’età che avanza, lavorando senza strafare sui suoi
soliti registri e riservando il meglio nella conclusiva suite. E anche il buon
Johansson, pur ritagliandosi grandi parti tastieristiche, non eccede in
sinfonismi né in sezioni virtuosistiche stucchevoli riuscendo in fase di
scrittura ad alternare sapientemente potenza e melodia, velocità e
rallentamenti, sfuriate dirompenti e sezioni riflessive.
Insomma, un album bilanciato,
moderno, ben prodotto. E che, credo, farà felici tanto la fan base dei
finnici quanto i ‘traditori’, come il sottoscritto, che li avevano abbandonati.
Felice di ricredermi, consegniamo
la palma di Miglior disco Power Metal del 2022 a “Survive”!
Voto: 7,5
Che anno è stato, il 2022, per
il power metal? ci chiedevamo all’inizio di questo lungo post. Beh, dai,
tra alti e bassi non ci possiamo lamentare…e un disco come “Survive” dimostra
che questo genere può ancora essere capace di esprimere ottimo Metal, non
snaturandosi ma, al contempo, essendo capace di risultare attuale…
A cura di Morningrise