Il death consapevole. Ci voleva solo il tempo, o il troppo poco tempo, per far venire alla luce l'essenza del death. Il tempo che passa, quello che porta in superficie i cadaveri inabissati in acqua, gonfi di quella vita “dopo la morte” che procede ad alterare, consumare, e restituire la visione rivelatrice dei corpi morti. Col tempo che passa si capisce che cosa canta il death, quale è il binario nascosto, dissimulato, della sua poetica.
Chi l'avrebbe detto che gli Obituary, nel 2023, sarebbero stati così lucidi e sempre così validi, in condizioni di vibrare un colpo musicale e concettuale importante come questo "Dying of Everything"?. Solo i più attenti probabilmente hanno già capito, per puro caso e pura tragedia, quale sia il messaggio essenziale del death, perché in un'occasione è emerso, ed è stato un momento in cui invece il tempo si riduceva al minimo, non ce n'era più. Non c'era più tempo da perdere per tirar fuori il senso fondamentale di tutta la poetica death.
Quando a Chuck Schuldiner rimaneva poco da vivere, la sua vena artistica ebbe un'eruzione ulteriore: mentre usciva “The Sound of Perseverance” (1998), uscì a contrappuntarlo anche il disco dei Control Denied, La fragile arte dell'esistenza. Da una parte, sulla copertina del disco dei Death, uomini che arrancano e si trascinano verso la cima di un'altura, in cui una bocca di roccia munita di denti è pronta a divorarli. Dall'altra parte, un disco di metal progressivo e tecnico, di impronta classica, power thrash, che canta della vita come ciò che rimane dopo tutto l'imprevedibile e l'imprevisto che ci può travolgere. Noi stessi, il nostro percorso, le parti sopravvissute, la nostra storia, dentro e sopra gli ostacoli che abbiamo superato.
Chuck fece in tempo a farla, questa confessione orgogliosa: il death era la rappresentazione della spinta verso la vita sotto le spoglie di una strana e morbosa inquietudine rivolta alla morte. Non c'era più tempo, andava detto. Per gli Obituary c'è stato il tempo, e infatti è venuto. La morte nei titoli degli Obituary era tutto fuorché un passaggio, piuttosto una presenza. “Slowly We Rot” faceva coincidere la lunghezza della decomposizione con la vita stessa, che è un processo di decomposizione, di cui noi vogliamo vedere soltanto la parte finale. “Rotting Ways” (brano tratto da "The End Complete", 1992) descrive le vie della decomposizione, che sono infinite probabilmente, ed è la morte che decide la via della decomposizione: cosa può determinare la morte se è termine e passaggio al nulla? Invece, se la morte è vista come il punto a cui tende la vita, essa fa ricondurre a sé tutto il corso della vita, che fin dal suo inizio guarda alla morte, secondo un binario che possiamo definire “via della composizione”. Non c'è da temere la decomposizione: la paura guarda oltre le vie della decomposizione, ora il tempo segna il passare dei giorni.
Il pensiero che consuma è quello della sostanziale “non-esistenza” oltre la morte, pensiero con cui l'uomo non smette mai di fare i conti. Perché è attaccato alla vita. Lo spavento per il macabro è un alibi, perché tutto muore. Il vero problema è che morire è tutto, “muore tutto, ogni cosa” anche nel senso che niente sopravvive alla fine. I dischi del periodo d'oro del death, come appunto “Cause of Death” (1990), sono degli alibi un po' tutti: fanno vedere ed estremizzano ciò che in partenza è già ovvio, e non è veramente preoccupante: il corporeo, il fisico. Ma sempre di più è evidente che dietro il cinismo e il grottesco di un'autopsia via sia un disagio più profondo: dibattersi contro l'evidenza che oltre non c'è niente. Finché la morte è dipinta come una fase che non dovrebbe esistere, ma che interviene improvvisamente per porre fine alla vita, il suo opposto, il discorso regge e tutti siamo portati a pensare che la vita abbia un senso, e la morte invece no, pensiamo che sia la distruzione del senso. Diverso è quando si arriva a concludere che la vita non ha senso, e la morte è un altro modo di considerarla, di inquadrarla, per cui è giusta tanto quanto la vita, essendone un aspetto, un abito. Intorno alla vita (o alla morte) c'è l'assenza di coscienza, l'assenza di pensiero.
Gli Obituary del 2023 ci raccontano il death metal in pochissime parole: “My Will to Live”.
Seppelliscimi sotto una croce, all'incrocio delle correnti marine; La mia volontà...;Condannami a morire nella sabbia, e a liquefarmi – La mia voglia di divere ! La mia voglia di di vivere Condannami ad una terra di tenebra, il mio vincolo...trasportami attraverso la sabbia, pietrificato.... il mio vincolo che deve sciogliersi, il conto che devo rendere!. John Tardy, angosciato ma sicuro, scopre le carte. La voglia di vivere è ciò che viene invocato all'apice di suggestioni death metal, e circola irrisolto. La voglia di vivere che deve confrontarsi con la realtà della morte, ribadita in maniera feroce. Non c'è limite tra un atlante di anatomia umana “normale” e uno di anatomia patologica. Un tempo, alla Facoltà di Medicina si terminava il corso di esami proprio con l'esame di Anatomia, dopo aver imparato quel che c'era da sapere sulla morte. Il corpo normale è quello che si ammala, il corpo è costruito secondo regole di decomposizione, e non viceversa. Dovessimo definire il disfacimento, ne saremmo capaci in maniera molto precisa, mentre al contrario non sapremmo esattamente dire dove sia il limite della vita, e quale la sua prerogativa. E' difficile e controverso trovare il momento della morte, normalmente coincidente con la morte cerebrale accertata. E' infatti solo un punto nella vita, verso il disfacimento di quella particolare forma di vita. Ciò che terrorizza, e fa del death metal un genere molto psicologico, è solo un pensiero impossibile, malsano, il pensiero di “non essere”, fondamentalmente. Non si è in assoluto: si è solo per poco, e in un piccolo spazio.
Il livello di consapevolezza del death metal è ormai maturo. Dopo la rivelazione di Chuck, regalata dal tempo che non avanzava e non faceva sconti, adesso giunge questo ottimo lavoro che è arrivato piano piano al medesimo punto sulla mappa.
A cura del Dottore