Meno sei: Cathedral - "Forest of Equilibrium" (1991)
Dopo aver divagato per le lande del death metal torniamo al doom. E lo facciamo con prepotenza, non scandagliando i fondali dell'underground per rinvenire malefiche scorie che possano in qualche modo aver "illuminato" (si fa per dire) il sentiero che batteranno in seguito gli alfieri del funeral doom, ma celebrando la grandezza di una delle più belle e solide opere che il doom abbia partorito nella sua storia: "Forest of Equilibrium" dei grandissimi (immensi) Cathedral.
L'album, che usciva nel dicembre del 1991, concludeva un anno che aveva visto affacciarsi sul panorama del metal estremo band che ebbero l'intuizione di coniugare gli stilemi del neonato death metal alla lentezza del doom (Paradise Lost e Winter i nomi di coloro che meglio si sono focalizzati su questo intento). Abbiamo anche visto come la lentezza non fosse una dimensione estranea neppure per chi rimaneva nel recinto del death metal: il rallentamento, la sospensione temporanea dalle ritmiche più veloci, era indubbiamente un escamotage atto a conferire ulteriore morbosità alla propria proposta (si pensi ad Obituary, Morbid Angel, Entombed). Ma vi era anche chi nella lentezza credeva con maggiore convinzione, come per esempio Asphyx ed Autopsy, a dimostrazione del fatto che quelli erano anni in cui il metal estremo si trovava innanzi ad infinite praterie su cui pascolare alacremente senza restrizioni.
I Cathedral, per come si imposero all'attenzione pubblica, rappresentano la perfetta esemplificazione di questa libertà espressiva che trovava la sua ragion d'essere nel forzare i confini del consentito. Non è un caso che Lee Dorrian provenisse proprio dai Napalm Death che qualche anno prima avevano per davvero abbattuto le barriere del comune sentire dando il battesimo al grindcore, fra i generi più estremi di sempre. Là (si pensi a lavori come "Scum" e "From Enslavement to Obliteration" dove dietro al microfono c'era ancora Dorrian) le barriere venivano abbattute sul fronte della velocità (supersonica) e della destrutturazione (con brani brevissimi che arrivavano a durare persino una manciata di secondi). Con i Cathedral, paradossalmente, sarebbe accaduto esattamente il contrario: avremmo avuto composizioni di considerevole durata e, soprattutto, una esacerbante lentezza. Aspetto, questo, assai curioso e che rende la "giravolta" di Dorrian una delle più clamorose di sempre nell'epopea del metal: da un progetto oltranzista con la missione di disintegrare tutto quello che era accaduto prima egli si ritrovò alle redini di una proposta ostentatamente tradizionalista e per certi aspetti reazionaria (sebbene nei fatti certe intuizioni si sarebbero rivelate dotate di un forte potenziale rivoluzionario).
I Cathedral traggono infatti ispirazione dall'heavy-sound dei classici nomi del doom: dagli imprescindibili Black Sabbath ai Candlemass, passando per Pentagram e Saint Vitus. Nel vasto bacino delle influenze figuravano anche nomi di culto del sottobosco del rock progressivo di matrice settantiana (Black Widow un nome su tutti), del folk acido ed oscuro della Terra di Albione (Comus per esempio) e, curiosamente, persino certe glorie del dark-sound italico come Death SS e Paul Chain (con quest'ultimo Dorrian avrebbe collaborato qualche anno dopo nel superbo "Alkahest" a firma del mitico chitarrista pesarese). Il passo avanti dei Cathedral (un nome un programma) fu amplificare la potenza di quel suono, mettendolo al centro di tutto.
Le chitarre di Gaz Jennings ed Adam Lehan sono auto-indulgenti, si beano di una estetica che si riproduce in una dialettica fra imitazione ed innovazione: i riff del passato, macinati in spietata sequenza, diventano attuali grazie ad un contesto inedito fatto di brani dalla durata pantagruelica ed una staticità svincolata dalle dinamiche del rock e che sembra voler puntare all'Assoluto, all'Eternità. La sensibilità sembra provenire dal metal estremo, con le due chitarre che si alleano per alimentare l'effetto annichilente dell'insieme, fondendosi nel piombo, sdoppiandosi in languide melodie che aumentano il senso di afflizione.
I legami diretti con il metal estremo, del resto, non mancavano. L'album anzitutto usciva per l'Earache, etichetta impegnata in prima fila nella divulgazione del verbo del metal estremo (cosa che avrebbe valso ai Cathedral la partecipazione nel 1992 al mitico tour europeo "Gods of Grind" insieme ad Entombed, Carcass e Confessor - a dimostrazione di come all'epoca i confini fra i sotto-generi fossero sfumati, o addirittura inesistenti, ed il metal estremo fosse percepito come un tutt'uno). L'Earache avrebbe anche garantito un sound all'altezza dei colleghi dediti al death metal, con distorsioni grevi ed una pesantezza di suono che andava di pari passo con la scrittura "a spirale" dei brani. Poc'anzi si è accennato al prog come influenza, ma si sia consapevoli che se c'è del prog in "Forest of Equilibrium" esso è parte infinitamente minoritaria: giusto degli spruzzi per rendere ancora più visionari ed estranianti dei brani monolitici che, come detto sopra, vedevano l'imponenza e la maestosità dei riff di chitarra come modulo privilegiato di espressione.
La bellissima copertina in stile Hieronymus Bosch (a cura del bravissimo illustratore Dave Patchett che accompagnerà la band per l'intera carriera) aiuta ad entrare nel mondo oscuro e surreale dei Cathedral, edificatori di un edificio sonoro imponente, fra potenza metallica e suggestioni arcane. C'è tuttavia un momento nello specifico che rende perfettamente l'idea di quelli che sono gli intenti della band: il passaggio dagli umori beffardamente leggiadri dell'intro boschivo "Picture of Beauty & Innocence" (a base di chitarrina acustica e flauto traverso) e il riff grasso e tremendo di "Commiserating the Celebration" : la chitarra elettrica entra in scena senza accompagnamento ritmico, seppellendo senza pietà l'aura onirica dell'introduzione con una tonnellata di watt e la sola forza delle distorsioni. Della serie: festa finita, si va tutti a morire. Seguiranno una decina di minuti davvero devastanti, dove riff granitici come non si era sentito fino ad allora si susseguono accompagnati dalla voce catacombale di Dorrian, che fa efficacemente a meno dei registri estremi adottati ai tempi dei Napalm per abbandonarsi ad un canto lascivo e privo di speranza.
Quello che colpisce in questo album è la forza programmatica della band nel portare avanti uno specifico suono, brano dopo brano. Lo si capisce dalla successiva "Ebony Tears" (da annoverare fra i classici della band), che parte come finiva il brano precedente, con una chitarra strisciante e il rantolo di Dorrian a rompere nuovamente gli indugi. Parlando dei Paradise Lost, avevamo accennato a quanto fossa significativa la foto in bianco e nero della band con sfondo a base di cattedrale e cimitero. Ancora più significativo è lo scatto in cui qui la band è immortalata in un cimitero, questa volta a colori, con Dorrian appoggiato ad una croce di pietra e lo sguardo sconsolatissimo. Vi è la genuinità dell'artigianato in questa espressione, siamo lontani dalle pose studiate e l'artificiosità di tanti "giovani Werther" del gothic metal. E la stessa naturalezza la ritroviamo nel modellare il profilo mostruoso di questi paesaggi mentali di assoluta devastazione sonora.
Fatta eccezione per il singolo "Soul Sacrifice" (il brano più veloce del lotto per nemmeno tre minuti di durata), tutte le tracce raggiungono considerevoli durate e sono scandite da tempi lenti all'inverosimile: involontariamente i Cathedral inventavano il funeral doom.
C'è chi ha del funeral una concezione ristretta, circoscrivendo il sotto-genere agli utilizzatori dell'organo o comunque a chi adotta toni sacrali ad accompagnare la propria visione artistica. Ebbene, nemmeno l'organo manca in questa messa elettrificata, e a questo strumento viene lasciata nientemeno che la chiosa dell'opera, con la conclusiva "Reaching Happiness, Touching Pain". L'album, indubbiamente, vede la sua forza nel saper coniugare la ferrea coerenza di un suono inevitabilmente estremo e variazioni sul tema, con piccoli espedienti (un arpeggio, un flauto traverso) disseminati con intelligenza: appigli per l'ascoltatore per poter continuare la scalata e superare i momenti di sconforto.
Il paradosso è che, una volta entrati nel giusto mood, l'album non annoia un attimo. "Forest of Equilibrium" sarebbe rimasto un'opera unica nel suo genere ed anche nella discografia stessa della band, che già dal successivo (superlativo) "The Ethereal Mirror" avrebbe virato verso un suono - come si suol dire - "frizzante", dotato di un maggiore groove da un lato ed impreziosito da una più spiccata verve progressiva dall'altro (a dirla tutta i Nostri avrebbero un paio di volte provato a rinverdire i fasti dell'insuperabile debutto con il non sempre convincente "Endyime" (2001) e il già migliore "The Last Spire" del 2013, immaginifico canto del cigno che è andato a chiudere il cerchio all'insegna del binomio pesantezza/lentezza.
"Forest of Equilibrium", tuttavia, sarebbe rimasto un picco insuperato quanto ad imponenza di suono. Ed è assurdo pensare che una entità come i Cathedral - che nemmeno sono annoverabili fino in fondo come esponenti del metal estremo - siano nel 1991 quanto di più vicino a quel suono massivo e brutale che, anni dopo, sarebbe stato etichettato come funeral doom...