Per chi mastica black metal i Blut Aus Nord non hanno certo bisogno di presentazioni, rappresentando oggi, dopo trent’anni di onorata carriera, una delle realtà più lungimiranti e solide in fatto di avant-garde o post-black metal che dir si voglia.
Personalmente parlando, ho sempre avuto difficoltà ad inquadrare la proposta della band francese: prima ancora che etichettarla in questo o quell’altro modo (perché la copiosa e variegata discografia permetterebbe le definizioni più disparate), mi piace pensare ai Blut Aus Nord come ad una entità avulsa dal suo contesto, una stella cometa che ha compiuto il suo viaggio in solitaria, ignorando la conformazione delle galassie che ha via via attraversato, e che ha lasciato dietro di sé una lunga scia capace di investire molti nomi che del black metal hanno inteso avere una visione più libera ed aperta alle sperimentazioni. Ma fra tutti gli ambiti che ha solcato, mi sento di dire che il filone che più di ogni altro la musica dei Blut Aus Nord ha saputo influenzare è stato quello dell’atmospheric black metal, dimensione che i Nostri hanno saputo anticipare in modo egregio grazie ai loro primi album ed in particolare al capolavoro “Memoria Vetusta I: Fathers of the Icy Age” del 1996.
Non credo di sbagliare nell’affermare che il buon nome dei Blut Aus Nord sia salito alla ribalta non prima del nuovo millennio, ed in particolare per il clamore suscitato da un’opera come “The Work which Transforms God” del 2003, dove la componente industriale prendeva il sopravvento sul resto e trovava la sua più piena applicazione su una materia sonora già di per sé originale: una rivoluzione più di approccio che stilistica in senso stretto, visto che, come già detto, i Nostri si sono sempre mossi in piena libertà, hanno aperto porte, rimanendo nella sostanza ineguagliati, unici ed inimitati, vuoi anche per l’imprevedibilità che ha caratterizzato il loro percorso artistico.
Andando invece nel 1995, ai tempi del loro esordio discografico (il notevole “Ultime Thulée”), li troviamo alle prese con un black ben più canonico che, a chi all’epoca ne fosse venuto in contatto, sarà risultato come un episodio minore e derivativo rispetto alle grandi pietanze cucinate in quegli anni nell’insuperabile laboratorio scandinavo. Ad un ascolto più attento, al di là di una grezza scorza bathoriana, è possibile tuttavia rinvenire delle peculiarità che, in embrione, andavano ad incarnare certe caratteristiche tipiche della band che si sarebbero palesate più avanti, come il riffing psicotico e tendente alla dissonanza o l'uso delle tastiere in ottica ambient che, con il senno di poi, avrebbero ricordato gli affabulanti scenari ritratti dagli artisti dediti al dungeon synth (genere che all’epoca non si era ancora strutturato, nonostante nomi come Burzum, Mortiis e Wongraven già sperimentassero con le sole tastiere in direzione ambient/fantasy).
Tutto questo rendeva la musica dei Blut Aus Nord estremamente suggestiva, ancora molto feroce, certo, ma rischiarata da una indole melodica che emergeva in modo significativo e che sapeva traghettare la mente dell’ascoltatore entro gli scenari fantastici raccontati dai brani. Tanto il suono era glaciale e talmente vivide erano le immagini generate dalla musica contenuta in “Ultime Thulée” che durante l’ascolto ti pareva di essere sperso in ostili paesaggi invernali, aggredito da terribili raffiche di vento, investito dagli schizzi gelidi di onde impetuose.
A questo va aggiunto l’alone di mistero che da sempre avvolge i musicisti, di cui si sa poco o nulla. I Nostri si presentavano come un duo composto da Vindsval, diviso fra voce e chitarra, e dal batterista/tastierista W.D. Feld, che secondo i più maliziosi potrebbe essere non altro che una invenzione del folle mastermind. La batteria infatti odora non poco di drum-machine e non sarebbe una cosa del tutto inverosimile pensare che dietro al progetto vi sia il solo Vindsval, peraltro compositore di tutto, musiche e testi. Sia quel che sia, in un momento in cui il black metal scandinavo, al di là degli ovvi meriti, saliva agli onori delle cronache per vicissitudini che poco avevano a che fare con la musica, nella gelida ed altrettanto suggestiva Normandia muoveva i primi passi questa entità schiva che, di contro, preferiva starsene lontana dai riflettori e si riferiva fino ad un certo punto alle novità stilistiche introdotte dai centri di Oslo e Bergen. Quello dei Blut Aus Nord, di fatto, suonava più come un proto-black ancora legato al thrash metal, persino al metal classico e ad entità estreme precedenti all'Inner Circle come i primi Bathory.
Il passo avanti con “Memoria Vetusta I: Fathers of the Icy Age”, uscito l’anno successivo, fu notevole e smarcò definitivamente la band dallo status di realtà minore, se non a livello di popolarità, almeno a livello qualitativo. Si parte da una copertina spettacolare, in antitesi con quella essenziale, in bianco e nero, di “Ultime Thulèe" e, più in generale, in antitesi con i minimalismi professati nella penisola scandinava: si tratta del dipinto “Les Enfers” (“Inferno”) del pittore barocco François Didier Nomé che Wikipedia descrive come un artista dalla forte carica fantastica che ambienta scene bibliche in architetture capricciose e irreali, popolate da piccole figure. Una descrizione che calza a pennello anche alla musica proposta dalla band in questo leggendario sophomore destinato a divenire pietra miliare per l’intero movimento dell’atmospheric black metal.
Oltre alla carica visionaria, alla varietà delle scelte stilistiche, c’è un aspetto nello specifico che rende “Memoria Vetusta I: Fathers of the Icy Age” il progenitore diretto del black metal atmosferico, e mi riferisco alla sensazione che si ha durante l’ascolto: una perdurante sensazione di grande spazialità, di vastità o, più semplicemente, la convinzione costante che tutto possa accadere. Non è una questione di “dimensioni” (l’album dura “solo” 45 minuti, un’inezia in confronto alle durate medie degli album di atmospheric black metal), ma di capacità descrittiva: esattamente come nell’atmospheric black metal che verrà, i brani procedono in modo del tutto imprevedibile, non seguendo strutture finalizzate a valorizzarne il carattere individuale, ma avventurandosi lungo le pagine di quella che sembrerebbe essere una tortuosa sceneggiatura cinematografica.
Se Burzum, Ulver, Emperor, chi in un modo e chi un altro, hanno gettato le premesse affinché potesse essere concepito e sviluppato un black metal dal taglio spiccatamente atmosferico, v’è da dire che nelle loro emanazioni sonore si percepisce un senso di “costrizione” dato dal rigore con cui si concepiva e realizzava la musica (un rigore che - beninteso - era stato determinante nel far sì che il black metal norvegese potesse sgravarsi della "zavorra degli antenati" e costruire, lungo la via del minimalismo, qualcosa di nuovo). Burzum sperimentava con suoni lenti, ossessivi e tracimanti nell’ambient, ma oltre quel recinto non si andava. I primi Ulver incorporavano elementi folk, e lo facevano magnificamente, ma ben attenti a rimanere aderenti a quello specifico ambito. Gli stessi Emperor, forti di un granduer sinfonico ed una vocazione progressiva apparentemente senza limiti, offrivano in verità un black metal bidimensionale, fatto di ruvida elettricità ed eleganti orchestrazioni.
I Blut Aus Nord, invece, dimostravano di saper navigare con maggior libertà, permettendosi anche di non abbandonare del tutto l'universo del metal che vi era stato prima del black metal degli anni novanta. Ma il salto, prima ancora che musicale, avveniva a livello concettuale. Se l’ambizione dei gruppi scandinavi era stata quella di smarcarsi dal satanismo per approdare a temi più prettamente esistenziali e, a tal fine, facendo leva sulle connessioni spirituali con la propria terra di origine (dagli aspetti culturali a quelli naturalistici e paesaggistici), l’ambizione dei Blut Aus Nord fu di spingersi ulteriormente oltre e passare dal particolare all’Universale, ritraendo l’Umano come parte infinitesimale di un disegno incommensurabilmente più vasto. Un po’ come - si diceva - appaiono le figure umane nei dipinti fantasiosi di François Didier Nomé.
Le liriche delineano le forme cruente di un concept fantastico dove le gesta epiche si sprecano: una brutta faccenda di rivalsa e vendetta, potremmo dire, dove certi topoi della narrativa fantasy si fondevano ad elementi di mitologia e simbologie che rendevano il tutto ancora più suggestivo. Inutile dirlo, il tutto si concretizzava in un suono maestoso, magniloquente, ambizioso, continuamente votato alla trascendenza e metafisico nella vocazione. E, come si diceva sopra, molto vario. In esso passavano in rassegna le più svariate soluzioni uditive, fra frequenti cambi di tempo, un riffing poliedrico che esondava spesso in lidi thrash metal, tappeti di tastiere praticamente onnipresenti e una voce altrettanto versatile che alternava uno screaming luciferino e cori odinici. Il tutto condito da trovate francamente originali (una su tutte: il reiterato refrain melodico di chitarra solista protratto ad oltranza al termine della lunga "The Territory of Witches / Guardians of the Dark Lake").
Citare un brano piuttosto che un altro lascia il tempo che trova in un album dove le singole tracce perdono la loro individualità per farsi componenti virtuose di una narrazione più ampia (una narrazione non solo più grande di un singolo brano, ma anche di un intero album, visto che l’opera - come poi capiterà altre volte nella storia dei Blut Aus Nord - veniva concepita come parte di una trilogia e sarebbe stata seguita da ben due sequel, ossia “Memoria Vetusta II – Dialogue with the Stars” del 2009 e “Memoria Vetusta III – Saturnian Poetry” del 2014).
Basti dire che nell’arco delle sette tracce in scaletta si esprimevano due anime ben distinte: da un lato un approccio più cervellotico che andava a concretizzarsi in una scrittura pragmatica che valorizzava i contenuti e le idee, minimizzando le tentazioni di dispersione e così scongiurando il fantasma del minimalismo che invece andava per la maggiore in Norvegia. Dall’altro una indole melodica che si metteva al servizio dell’ascoltatore e che si realizzava attraverso passaggi memorabili, interazioni riuscite fra chitarre e tastiere. E dove, di tanto in tanto, spuntava anche una chitarra solista dal flavour ottantiano.
La capacità di far coesistere queste due anime suggerisce di descrivere come geniale la musica dei francesi: un abbraccio fatale fra sperimentazione e complessità compositiva da un lato e momenti diretti e di cangiante melodia dall’altro. Un connubio che non è facile trovare nel metal estremo, ma anche nel metal in generale. Un ulteriore paradosso è che questo equilibrio veniva raggiunto con un approccio alla strumento per niente virtuoso e con una batteria che, se non era una drum-machine, si muoveva come tale, ingessando un poco il risultato finale (sia come suoni che come dinamiche) senza comunque pregiudicare la bontà del prodotto nel suo complesso.
Con il tempo la verve sperimentale avrebbe preso il sopravvento nella visione artistica di Vindsval, una visione sempre più offuscata da dissonanze, geometrie sbilenche e dalla componente elettronica: un cammino che, allontanandosi dalla dimensione più prettamente umana, avrebbe accentuato la sua componente spirituale, trasferendo le suggestive narrazioni degli esordi su un piano più propriamente esoterico, ma senza perdere in nulla quanto a freschezza compositiva ed impatto emotivo.