Punk e metal non sono mai andati grandemente d’accordo, forse per la loro contiguità, la loro vicinanza, come due fratelli bastardi divisi dalla nascita. Due generi che, almeno nelle origini, nascono e si sviluppano in un processo di estremizzazione sonora e con la medesima vocazione di incarnare il tipo di musica più “loud” in circolazione: questo probabilmente il motivo di diffidenza reciproca. Eppure più di uno sono gli elementi di contatto fra questi due universi sonori e culturali, con frequenti processi di osmosi dall’una all’altra parte avvenuti nel corso del tempo.
Ma se c’è da essere onesti il metal deve più al punk che viceversa. Il fatto è che il punk, esploso nella seconda metà degli anni settanta, ha costituito un fenomeno di rottura per la "musica popolare" in generale, elevando l’urgenza comunicativa dell’individuo al di sopra di tutto il resto, inclusa la capacità di saper suonare uno strumento musicale, cosa che prima di allora era data come condizione irrinunciabile per poter realizzare prodotti commerciabili. Il punk avrebbe influenzato la New Wave of British Heavy Metal alla fine degli anni settanta, avrebbe contribuito in modo fondamentale alla genesi dello speed metal e del thrash metal agli inizi degli ottanta. Metal e punk avrebbero flirtato senza pudore nel crossover. Punk e derivati (hardcore e crust) avrebbero condotto al grindcore. Il punk, infine, sarebbe stato un ingrediente fondamentale nelle varie forme di metal alternativo degli anni novanta, e lo sarebbe stato anche nel post-metal e nel metalcore del nuovo millennio. Con, al di sopra di tutto e tutti, la benedizione di sir Lemmy Kilmister con i suoi Motorhead contesi da sempre fra il pubblico punk e quello metal.
Quanto a noi, abbiamo scoperto il punk grazie ai Metallica che coverizzavano “Last Caress” dei Misfits o ai Megadeth che riproponevano “Anarchy in the UK” dei Sex Pistols (infinite le cover di brani punk fatte da band metal, gli Slayer, addirittura, ci hanno fatto un album intero di cover punk e hardcore – “Undisputed Attitude”). Insomma, è inutile dilungarsi oltre nello spiegare quanto metal e punk siano connessi, l’idea della nostra odierna guida pratica per metallari, piuttosto, è di tratteggiare una breve panoramica del fenomeno punk a beneficio di tutti coloro che, incuriositi, volessero una volta per tutte rompere gli indugi e “gettare l’orecchio al di là dello steccato”.
Il vero salto in avanti, tuttavia, si avrebbe avuto con l’uno-due fondamentale di Velvet Underground e Stooges. I primi, da New York, erano autori di una musica colta e selvaggia che metteva in scena drammi metropolitani (droga, prostituzione, delinquenza, degrado) sotto forma di truci baccanali di chitarre elettriche, distorsioni, feedback e ritmi ossessivi (il loro seminale primo album risaliva al 1967). I secondi, da Detroit e debuttanti discograficamente nel 1969, raccoglievano il testimone spingendo l’acceleratore in direzione di impatto, velocità e frastuono: con il loro folgorante esordio innestavano in un sound violento, acido e corrosivo ossessioni doorsiane e le performance animalesche ed autolesioniste del leggendario Iggy Pop, innalzato poi a padre putativo del punk. V'è da aggiungere, doverosamente, che sempre da Detroit proveniva un'altra entità cruciale per gli sviluppi del punk, ossia gli MC5, anch'essi esordienti nel 1969 con il live-album "Kick Out the Jams" che "metteva per iscritto" la potenza sonora espressa in quei concerti incendiari/leggendari per cui la band si era fatta conoscere negli anni appena precedenti.
Siamo ancora nello scorcio finale degli anni sessanta, ma il dado è tratto e da lì, negli anni successivi, molte band spunteranno come funghi a palesare un disagio generazionale che affliggeva i giovani del periodo, passati nell’arco di pochi anni dalle utopie delle rivolte studentesche a foschi scenari di nichilismo sociale ed individuale. Nel decennio 1967 – 1976, vero laboratorio di sperimentazioni per le sonorità punk, molte altre cose sarebbero accadute: le ritmiche meccaniche ed implacabili dei Neu!, le ruvide cavalcate spaziali degli Hawkwind, il rock irrequieto, colto e visionario dei Television, l’oltraggio e lo spirito ribellistico dei New York Dolls e di Alice Cooper, l’industrial oltranzista di Suicide e Throbbing Gristle, e, non ultimo, il debutto di Patti Smith “Horses”, prodotto nondimeno che da John Cale dei Velvet Underground, opera cruciale che metteva in luce le doti poetiche della Smith, il suo canto febbrile e la sua rabbia, ponendo al centro di tutto i testi, il messaggio lirico ed un’attitudine inequivocabilmente punk fra cavalcate elettriche e soundscape di grande suggestione.
Insomma, tutto concorreva, in quegli anni, a demolire una vecchia e classica concezione di musica e creare i presupposti per l’esplosione del punk, un genere nei fatti nuovo che intendeva introdurre un linguaggio inedito fatto di brani brevi e veloci, riff semplici e diretti, linee essenziali di basso, proclami antisistema gridati da voci sgraziate e stonate, il tutto baciato da una sfrontata approssimazione esecutiva. Si trattava di un qualcosa che si imponeva in totale antitesi con tutta la tradizione del rock che si era leziosamente portata avanti fino a quel momento, dalle forme più edulcorate che tanto le masse gradivano a quelle più colte, raffinate e tecnicamente autocompiacenti del progressive. Più che un genere, nasceva un movimento, in quanto il punk avrebbe avuto un impatto anche su cultura, società, immaginario collettivo e persino sulla moda, visto il proliferare di giovani con capigliature spericolate ed abiti sdruciti e sfrangiati.
Il punk, tuttavia, ebbe vita relativamente breve, almeno per come lo si era inteso alle sue origini, tanto che già nei primissimi anni ottanta ci fu bisogno di una rifondazione che andava a restaurare lo spirito degli esordi e combattere quei processi di mutazione che andavano a svilire il potenziale di rottura dell'intero movimento. Nel migliore dei casi ci si incamminava per le vie del post-punk e della new-wave, che punk non erano più, mentre nel peggiore si andava a istituzionalizzare un percorso di commercializzazione che andava a contaminare persino queste sonorità nate per non esserlo. Prese dunque forma l’hardcore, con suoni ancora più estremi ed ambizioni di auto-gestione (in opposizione alle logiche di sfruttamento discografico perpetrato dalle maggiori etichette) e da questo momento si sarebbe iniziato a distinguere fra punk rock (più votato alla melodia ed all’orecchiabilità e spesso al disimpegno politico e sociale) e hardcore punk (più radicale, violento veloce, strillato e portatore di valori antisistema), sebbene le due cose non siano sempre state perfettamente separabili.
Senza l’ambizione di illustrare l’intera storia di queste sonorità (una storia che, fra alti e bassi, mutazioni virtuose ed appiattimenti commerciali, arriva ai nostri giorni con contributi da ogni angolo del globo), andremo a scoprire i 20 album (+1!) che secondo noi sono necessari per inquadrare l'argomento.
1) Ramones: “Ramones” (1976)
Hey ho, let's go! Pronti, via, ecco che il punk si materializza per mano di questi quattro ragazzacci del Queens (New York) che già dal monicker intendevano sbeffeggiare (ma anche tributare) i sacri Beatles (Paul Ramon era infatti lo pseudonimo che utilizzava McCartney per registrarsi in incognito negli hotel). Joey, Johnny, Dee Dee e Tommy, di fatto, sembrano una sorta di Fab Four in versione "capelloni", chiodo, jeans ed occhiali da sole. Il look da teppistelli tiene fede ad un sound grezzo e veloce che sembra l'estremizzazione degli stilemi del rock'n'roll degli anni '50, del garage e del surf. Questo loro esordio di fuoco inanella brani brevi (14 in soli 29 minuti!) e basati su pochi e semplici riff, ma dall'indiscutibile magnetismo, vuoi per i ritornelli orecchiabili, vuoi per l'inconfondibile timbro baritonale di Joey Ramone. I testi disimpegnati e il fare gigionesco richiamano più la tradizione del rock'n'roll che il nichilismo che di lì a poco verrà sdoganato dall'ondata di band britanniche, ma titoli memorabili come "Blitzkrieg Bop", "Judy is a Punk", "I Wanna Be Your Boyfriend" segnano indubbiamente un nuovo standard nella musica popolare. Come non volergli bene!
2) The Damned: “Damned Damned Damned” (1977)
I Damned vantano due primati, essendo stati la prima band punk in Inghilterra a rilasciar un singolo (“New Rose”) ed un full-lenght, questo “Damned Damned Damned”. Pionieri dell’epopea punk in terra d'Albione, hanno incarnato alla perfezione quello spirito ribellistico emerso dalla profonda crisi economica e sociale che ha attraversato il Regno Unito nel corso degli anni settanta. Nella loro musica schietta si rielaborava il carattere più selvaggio del rock (tracce di Who sono ancora assai evidenti) attraverso le lezioni di Stooges ed MC5, fra goliardia, sfrontatezza, voglia di provocare ed un tocco di glam che veniva da formazioni come i New York Dolls (non è un caso che Marc Bolan li volle come spalla per i suoi T-Rex). L’ascesa della band è incalzata da live incendiari e da una fama da “sfascia camere di hotel”, il resto lo fa una formula tanto semplice quanto vincente a base di velocità e ritornelli contagiosi, quasi pop, ma irresistibili. “Neat Neat Neat”, “Fan Club”, “Born to Kill” e la già citata “New Rose” rientrano nei classici del genere, in buona compagnia della cover della stoogesiana “It’s All Right” che colpisce più duro dell’originale.
3) The Saints: “(I’m) Stranded” (1977)
Nel fitto botta e risposta fra Stati Uniti e Regno Unito che nel corso della decade settantiana ha portato alla genesi del punk, si incunea con cognizione di causa questa seminale band australiana (provenienza che in realtà non ci dovrebbe stupire visto che negli stessi anni l’Australia aveva dato i natali agli AC/DC dei fratelli Young e ai Birthday Party di Nick Cave, giusto per fare due esempi). E così il debutto dei Saints entra di diritto nei classici del punk, con un sound tanto massiccio quanto esuberante. In questa forma primordiale di punk, non ancora inasprita dalla lezione nichilista delle band inglesi, sopravvivono ancora tanto rock’n’ roll e nomi classici come Rolling Stones ad ispirare persino un paio di ballad, a dimostrazione di come i Nostri, pur saliti di prepotenza sul nascente carrozzone punk, portassero ancora in dote una gran voglia di comporre e suonare brani che potessero essere riconosciuti ed all'occorrenza essere ricordati e cantati. Ma ogni divagazione è compensata da violenza e velocità esecutive che in certi brani (vengono in mente le esplosive “One Way Street” e “Erotic Neurotic”) vanno a spazzare via la concorrenza quanto ad efferatezza e potenza di suono.
4) Richard Hell & The Voidoids: "Blank Generation" (1977)
Se il suono grezzo e veloce lo avevano introdotto i Ramones, a Richard Meyers (ribattezzatosi Hell) spetta il merito di aver dato al punk un orizzonte culturale, una missione, un messaggio preciso che lo smarcasse definitivamente dall’immaginario del rock. Irrequieto ragazzo di provincia, Richard Hell si sposta a New York (la New York dei Velvet Underground, di Patti Smith e dei Television – tutte influenze molto evidenti nella sua visione artistica) e, in compagnia dei Voidoids, se ne esce con “Blank Generation”, il manifesto definitivo di una generazione sbandata, logorata da eccessi ed insanabili conflitti interiori. Insomma, vecchio e puro rock’n’roll ma reso con un nuovo linguaggio ed attitudine! Musicalmente abbiamo riff spigolosi, ossessivi e sbilenchi, una sezione ritmica potente e puntuale, l’istrionica performance vocale di Hell. La musica del Nostro non è stata a caso definita anche art-punk e glam-punk, proprio per andare a sottolineare le connessioni con uno spleen decadente e romantico che fa da contraltare alla rabbia ed alla frustrazione espresse nei testi: il canto di Hell è poliedrico, a tratti irrequieto, a tratti apatico, paranoico, isterico, lacrimevole, teatrale, e sembra gettare un ponte fra l’Iggy Pop degli Stooges e il Robert Smith dei Cure. Un'opera, questa, che farà scuola rivelandosi cruciale per gli sviluppi del punk come movimento prima ancora che come genere musicale.
5) Sex Pistols: “Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols” (1977)
Se non i primi, di sicuro son stati quelli che si fecero notare più di tutti. Se infatti i Damned esordirono discograficamente nel febbraio del 1977, i Sex Pistols avevano già creato scompiglio con il singolo "Anarcky in the UK" nel novembre del 1976. Sarebbero seguite le incendiarie "God Save the Queen", "Pretty Vacant" e "Holidays in the Sun": tutti brani che sarebbero poi finiti nel leggendario, unico album "Nevermind the Bollocks, Here's the Sex Pistols", edito nell'ottobre del 1977. Fiumi di inchiostro sono stati versati sul conto di questi quattro musicisti autodidatti, bistrattati dalla critica dell'epoca per le carenze tecniche e tacciati di essere stati non altro che uno spregiudicato prodotto di marketing. E se è vero che non sono stati secondari i ruoli del manager Malcolm McLaren e della stilista, sua consorte, Vivienne Westwood nel preparare l'ascesa della band (dove look, capigliatura ed immagine furono cruciali), non bisogna togliere meriti a questi musicisti (onesti, tutto sommato) che seppero cambiare il mondo con una manciata di canzoni ed in così poco tempo. Poche note e molta rabbia avrebbero spazzato via in un sol colpo le infinite e pompose suite dei virtuosi del prog, sputando in faccia al pubblico un senso di realtà che ha saputo fare breccia nei cuori di una generazione di giovani in piena crisi valoriale. Era musica, quella, che esprimeva uno spirito ribellistico che prendeva in dote il disagio giovanile messo in campo dagli Stooges per elevarsi a nuovo standard di efferatezza: un messaggio iconoclasta ed anti-sistema volto solamente a distruggere e che si esprimeva con il suono sferragliante di chitarra elettrica e tramite il canto sgraziato di John Lydon (alias Johnny Rotten in onore dei suoi denti marci). Fra droga ed insanabili contraddizioni interne - ed in assoluta coerenza con lo spirito auto-distruttivo che animava la loro musica - i Nostri sarebbero presto implosi dissolvendosi l'anno successivo, ma lasciando una profonda frattura nella storia del rock (mentre il percorso di Lydon avrebbe proseguito fruttuosamente con il post-punk arguto dei Public Image Ltd).
6) Wire: “Pink Flag” (1977)
L’Inghilterra del ’77! Il punk non faceva in tempo a nascere che già si facevano strada diramazioni stilistiche volte al suo superamento. E’ il caso dei Wire, un caso anomalo nel punk, riconducibili al genere solo all’inizio della loro storia (avrebbero infatti presto intrapreso audaci percorsi di ibridazione che li avrebbero condotti al post-punk, alla dark-wave, all’industrial, alla new-wave in un viaggio in perenne mutazione). Anche in questo loro debutto, “Pink Flag”, non mancavano spunti estremamente personali, non è un caso che i Nostri venissero dal mondo accademico delle belle arti - cosa che dava un inedito piglio intellettuale alla loro musica (e l’amicizia con Brian Eno era un altro indizio della loro unicità). Sopravviveva, del punk, l’urgenza comunicativa, la valanga di brani brevi (ben 21 in 35 minuti!), certi dei quali anche sotto il minuto di durata. Ma quello che sulle prime potrebbe sembrare un quadro frammentato è in realtà un gioco coerente di rimandi ed ammiccamenti volto a disorientare l’ascoltatore, calandolo in un labirinto di distorsioni, temi obliqui, passaggi orecchiabili, tempi blandi, fulminee accelerazioni e la voce alienata e paranoica di Colin Newman. Artisticamente geniali e sociologicamente penetranti, i primi Wire hanno offerto un saggio di incredibile originalità nel neonato movimento punk, a dimostrazione di come il genere sia divenuto grande non solo grazie a chi ne ha professato il verbo in modo ortodosso, ma anche e soprattutto per merito di coloro che hanno saputo travisarlo e portarlo altrove.
7) Crass: “The Feeding of 5000” (1978)
Includiamo in questa carrellata anche i Crass (dall'Essex, Inghilterra), non tanto per reali meriti artistici quanto per l'importanza culturale ricoperta all'interno del punk. Anzitutto sono considerati gli iniziatori e i più autentici alfieri del movimento anarcho-punk: per loro l'anarchia non era un vuoto proclama, ma una profonda credenza ed uno stile di vita, tanto che vivevano in una comune e più che una band erano da considerare un collettivo (non solo di musicisti, ma anche di grafici, addetti alle luci ecc.). Inoltre promossero la filosofia del "DIY" ("Do It Yourself"), che era l'unica garanzia di libera espressione (ed infatti presto i Nostri si sarebbero auto-gestiti fondando una loro etichetta discografica). I testi dei Crass erano contro il fascismo, il razzismo, il sessismo, la guerra, il capitalismo; musicalmente siamo dalle parti dei Sex Pistols con le voci di Eve Libertine, Joy De Vivre e Steve Ignorant (personaggio noto agli appassionati di post-industrial e folk apocalittico per le sue collaborazioni con i Current 93) a sputare roventi invettive ed oscenità volte a provocare la società benpensante, ma anche a scuotere le coscienze e diffondere consapevolezza. "The Feeding of 5000", album di debutto, inanella 18 brani per poco più di mezzora, incarnando lo spirito del punk primigenio in una versione ulteriormente stringata e caotica, non scevra da certi "rumorismi" e slanci concettuali tipici della musica di John Cage, compositore ammirato dal combo. Una esecuzione paurosamente approssimativa e suoni a bassissima fedeltà rispecchiano gli intenti della band, assolutamente non disposta a scendere a compromessi e per questo enormemente rispettata. Dureranno poco (si scioglieranno nel 1985) ma avranno il tempo di rilasciare un altro paio di titoli importanti: il doppio "Stations of the Crass" (79 minuti!) e il più sperimentale "Penis Envy".
8) Germs: “(GI)” (1979)
I Germs hanno costituito il perfetto anello di congiunzione fra punk e hardcore. Proprio in un periodo in cui il punk stava mutando verso qualcos'altro, fra pulsioni post-punk e tentazioni new wave, la band losangelina riparte dai Sex Pistols, inasprendone le lezioni di nichilismo. I Nostri non hanno goduto di buona fama quanto ad esibizioni dal vivo (caotiche e totalmente fuori controllo - anche per via della pessima forma fisica), ma il suono durissimo messo in campo avrebbe ispirato molti nomi dell'hardcore americano, con il latrato acidissimo del leader Darby Crash a secernere rabbia e disillusione e ad anticipare le nevrosi del grunge. "(GI)", primo ed unico album della band, infila 15 brani al fulmicotone (su tutti l'annichilente accoppiata "We Must Bleed" e "Media Blitz"): una corsa a perdifiato che si conclude degnamente con i quasi dieci minuti di "Shut Down (Annihilation Man)", trip delirante a base di dissonanze ed urla furibonde. In perfetta coerenza con le pulsioni auto-distruttive espresse da musica e testi, la band si sarebbe dissolta un anno dopo a seguito della morte di Crash (vittima di una overdose letale a soli 22 anni), mentre ritroveremo il chitarrista Pat Smear nei circuiti grunge degli anni novanta, prima come collaboratore esterno dei Nirvana e poi come membro dei Foo Fighters.
9) Clash: “London Calling” (1979)
Giunti al terzo appuntamento discografico i Clash, fra i "grandi" del punk inglese del 1977, decisero di alzare l'asticella delle ambizioni sfornando questo doppio LP (19 brani in tutto!) che sarebbe poi divenuto un classico epocale del rock. Di punk in senso stretto rimaneva poco o nulla, in quanto il quartetto londinese puntava sulla carta dell'evoluzione e della varietà stilistica. Questa operazione andava in due direzioni, da un lato riscoprendo le radici rock'n'roll che lo stesso punk aveva da un certo punto in poi ripudiato, dall'altro muovendo il suono verso lidi inediti come reggae, ska, funky, jazz (con annesso ricorso a strumenti non convenzionali come fiati, organo e pianoforte). A stupire è l'equilibrio miracoloso con cui tutte queste tessere si incastrassero alla perfezione ed il tutto mantenesse il tono militante e l’impegno politico che ha contraddistinto la band fin degli esordi, con Joe Strummer e Mick Jones autori ed interpreti in stato di grazia supportati egregiamente dalla solidissima e fantasiosa sezione ritmica composta da Paul Simonon e Topper Headon. Sebbene molti puristi storsero il naso, "London Calling" avrebbe non solo rappresentato un modo coraggioso per i Clash di sopravvivere alla crisi del punk nella fine degli anni settanta, ma anche una fondamentale influenza per molto rock degli anni ottanta e novanta.
10) X: “Los Angeles” (1980)
Varchiamo nuovamente l’oceano e sbarchiamo in California. Chiaramente da Los Angeles, la band capitanata da Exene Cervenka e John Doe propone un punk vivace e spregiudicato dove l’eredità del rock'n'roll degli anni cinquanta, del blues e di certa psichedelia è ancora molto evidente. Le voci dei due cantanti si intrecciano sguaiatamente in duelli all’ultima stecca, mentre chitarre affilate, una batteria fracassona e persino le dissonanze di un organo hammond (c’è lo zampino di Ray Manzarek dei Doors) si incrociano in brani brevi e di facile presa. Fra denuncia sociale e languori interiori gli X cantano la fine di un’epoca - quella dorata delle utopie degli anni sessanta - per abbracciare il credo nichilista del punk inglese di fine settanta, smussato da toni da “party sfrenato” dove droghe, alcool, sesso e spirito di auto-distruzione copulano come se non ci fosse stato un domani. Disco fondamentale per quella che sarà la scena punk californiana, terreno fecondo per l’esplosione, prossima a venire, del fenomeno hardcore con Dead Kennedys, Circle Jerks e Black Flag a raccogliere il testimone.
11) Dead Kennedys: “Fresh Fruit for Rotting Vegetables” (1980)
Esordio epocale quello dei Dead Kennedys, da San Francisco: un concentrato di deragliante follia che ancora oggi fa impressione. 33 minuti, 14 pezzi (fra cui una irrispettosa cover di "Viva Las Vegas") di tiratissimo e destrutturatissimo hardcore: un "comizio" tenuto con fare teatrale e salmodiante dal mitico Jello Biafra, istrionico predicatore che vanta persino un passato da politico (si era candidato a sindaco di San Francisco con un programma anarchico ed arrivando persino quarto!). Chitarre surf, esagitati riff rock'n'roll, virate e divagazioni melodiche inaspettate si schiantano alla velocità della luce in uno spettacolo pirotecnico continuamente illuminato dal carisma di Biafra, il tutto condito da un sarcasmo corrosivo che si mescola in modo irriverente ad una intelligente denuncia sociale. I quattro scriveranno la storia esercitando una influenza mostruosa sull'intera decade successiva (fra i loro fan ci mettiamo anche i "nostri" Napalm Death), ma senza mai essere lontanamente avvicinati. Nonostante il successo, proseguiranno per la loro strada, non vendendosi, non firmando mai per una major e guadagnando eterno rispetto da pubblico ed addetti ai lavori. Ed anche dopo la sua dipartita (burrascosa, con annessi risvolti legali) dalla band, Biafra rimarrà al servizio della scena con la sua illuminata etichetta Alternative Tentacles.
12) Circle Jerks: “Group Sex” (1980)
14 brani in 15 minuti, e già questo dovrebbe far capire su che coordinate si muove “Group Sex”, pietra miliare dell’hardcore al pari dei lasciti più o meno contemporanei di nomi più blasonati del genere come Minor Threat, Dead Kennedys e Black Flag. Fondati proprio dall’ex vocalist di questi ultimi Keith Morris, qui coadiuvato dal brillante chirarrista Greg Hetson (già nei Redd Kross ed in futuro nei Bad Religion), i Circle Jerks debuttano con il botto con quella che è da ritenere la loro prova migliore. Qui la velocità la fa da padrona per brani che non arrivano mai al secondo giro di orologio (in 5 casi non si arriva nemmeno al singolo minuto di durata!). Nonostante questo apparente limite, l’album si fa piacere grazie ad un song-writing accattivante che rende coinvolgente questa sequenza assassina di brani che non lascia letteralmente respirare l'ascoltatore: schegge impazzite di nichilismo sonoro si susseguono con impeto distruttivo incalzate dall’ugola sgraziata di Morris che si muove egregiamente fra critica sociale, provocazioni ed oscenità assortite. Il tutto splendidamente riassunto dal titolo del loro brano più famoso: “Live Fast Die Young”. Come dargli torto...
13) Minor Threat: “Minor Threat” (1981)
Fa sorridere il fatto che su YouTube si possa trovare l’intera discografia dei Nostri in un video di soli.....47 minuti. Eppure, nonostante la loro brevissima esistenza e il poco materiale prodotto, i Minor Threat di Ian MacKaye - da Washington DC - avrebbero lasciato una enorme eredità, divenendo una delle realtà più influenti di sempre dell’hardcore. Come per i Crass, l’importanza dei Minor Threat è stata principalmente culturale, introducendo per la prima volta la filosofia “straight edge” che predicava astinenza da alcool e droghe e persino dal sesso occasionale (le forme più ortodosse si spingevano fino al veganesimo): una evidente reazione all’attitudine auto-distruttiva tipica degli ambienti punk. Ma contrariamente ai Crass, i Nostri ebbero anche una forte rilevanza stilistica, con capacità esecutive sopra la media ed una inusuale attenzione a suoni e produzione. Esordivano con un lavoro breve che non arrivava a 10 minuti e che contava 8 tracce (fra cui la stessa “Straight Edge”) dove le più lunghe arrivavano al minuto e mezzo. Velocità, cambi di tempo spezza-collo, riff micidiali, voce strillata e tanta tanta tanta rabbia per una band che sarebbe stata coverizzata a più riprese dagli Slayer (per dire...). Ma per il talento straripante di MacKaye l’abito sarebbe stato fin troppo stretto: egli avrebbe infatti di lì a poco fondato i Fugazi, leggenda del post-hardcore, per dare maggior respiro e penetrazione alla propria visione artistica.
14) Black Flag: “Damaged” (1981)
Si dice che i Black Flag stiano all'hardcore come i Sex Pistols siano stati al punk rock. Ed è indubbio che ogni crepa o parvenza di deviazione commerciale che il punk poteva aver vissuto a cavallo fra la fine degli anni settanta e l'inizio della decade successiva viene spazzata via dalla furia di questi quattro ragazzacci californiani, ma non è solo una questione di velocità ed attitudine. I Black Flag, nell'arco della loro lungimirante carriera, hanno dimostrato libertà compositiva ed efficacia espressiva, tanto da divenire seminali per i generi (estremi) più disparati, incluso il metal e in particolare per il thrash metal. "Damaged", il debutto, è un concentrato di rabbia e depressione fatto di brani veloci spezzati continuamente da cambi di tempo ed animati dai riff dissonanti di Glenn Ginn, chitarrista anomalo e poliedrico che applicava al linguaggio grezzo del punk le lezioni di Hendrix, fra scorie proto-slayeriane, premonizioni post-hardcore in stile futuri Jesus Lizard e rallentamenti sabbathiani (quei rallentamenti densi di disperazione che porteranno al capolavoro "My War", anticipatore di marcissimi scenari sludge). Ciliegina sulla torta: un front-man come Henry Rollins, sorta di Iggy Pop fisicato sotto steroidi, violentissimo sul palco ed ugola roca e raschiante, nonché autore di una brillante carriera in campo alternative metal negli anni novanta con la sua Rollins Band. Imprescindibili.
15) Misfits: “Walk Among Us” (1982)
I Misfts di Glenn Danzig, icona dell'heavy/hard rock più plumbeo e luciferino. I Misfits di "Last Caress" e "Green Hell" coverizzate dai Metallica. I Misfits dei corpse-paint, dei teschi sulle magliette, del ciuffo di capelli sugli occhi e delle tematiche horror/splatter/gore. Sono tanti i motivi per cui i Misfits sono stati da sempre accolti con simpatia dal pubblico metallico. Iniziatori del cosiddetto horror punk, il quartetto del New Jersey è stato autore di hit memorabili e dai ritornelli contagiosi che è un piacere cantare a squarciagola ancora oggi a quarant'anni di distanza. Dopo qualche singolo (fra cui la mitica "Halloween"), usciva nel 1982 il loro album di debutto "Walk Among Us" che già metteva in campo le peculiarità della band, fra le quali indichiamo sicuramente i testi radicati nell'immaginario vintage di certo cinema di serie b degli anni cinquanta e sessanta, e la voce inconfondibile da "Elvis indiavolato" di Danzig, cantante dotato che avrebbe presto abbandonato la nave del punk per intraprendere una carriera solista di gran pregio in direzione heavy metal. Mitici/mitico!
16) Fear: “The Record” (1982)
Ancora Los Angeles: attivi dal 1979 i Fear di Lee Ving sono considerati cruciali per lo sviluppo dell’hardcore californiano. Il loro è un folle concentrato di violenza e schizofrenia sonora, una formula anomala che trae forza in pari modo da una capacità esecutiva sopra la media e da una scrittura variegata che permette di mettere in fila le soluzioni più disparate, fra fraseggi blues, scale esotiche, ardite incursioni di sax, riff sbilenchi e jazzati, passaggi noise, cori anthemici, ritornelli irresistibili, il tutto frullato nel classico format del brano breve e veloce (si parla pur sempre di 14 brani in 27 minuti!) e condito da una insana dose di ironia. Si nota inoltre un gusto particolare per l’alternanza di pieni e vuoti, cosa che per certi aspetti avrebbe anticipato il modus operandi delle band grunge ed anche di molto alternative metal (i Faith No More si sono sempre dichiarati ferventi ammiratori del quartetto losangelino). Ma Mike Patton e soci non sono stati gli unici estimatori dei Fear, considerato che si perde il conto di loro brani coverizzati da band rock e metal (la celeberrima “I Don’t Care About You” verrà resa popolare dalle nostre parti grazie ai Guns’n’Roses).
17) Discharge: “Hear Nothing See Nothing Say Nothing” (1982)
Accanto allo stra-dominio americano nello sviluppo e diffusione del fenomeno hardcore trova degno posto nella storia del genere questa band britannica figlia dell’esplosione punk alla fine degli anni settanta, ma presto in grado di emanciparsi e divenire qualcos’altro: un qualcosa che avrà peso nella genesi delle frange più estreme del metallo (speed, thrash e grindcore). A fare la differenza è il tasso di violenza e, dopo una manciata di EP rilasciati in veloce successione, ecco che nel 1982 esplode come una bomba il debutto in full, monumento dell’Estremo da ogni angolazione lo si voglia guardare, lirico o musicale. Il vocione di Kevin “Cal” Morris è un monito al risveglio delle coscienze innanzi ad un mondo ingiusto e spietato, procede per slogan e frasi ad effetto, mentre la chitarra di Tony “Bones” Roberts macina riff vorticosi e semina assoli caotici. Completano il quadro una solidissima sezione ritmica e la consueta rassegna di brani-lampo (tutti fra l’uno o i due minuti, salvo un’eccezione di uno di “ben” tre minuti!) che trovano in schiettezza, efficacia e forza d’urto un valido controbilanciamento alla mancanza di tecnica ed accortezze produttive. Una bomba ieri, una bomba oggi: ascoltare “Protest and Survive” per credere!
18) Bad Brains: “Rock for Light” (1983)
Fenomeno più unico che raro, i Bad Brains (originari di Washington, poi trapiantati a New York) hanno costituito un caso decisamente anomalo nell’universo dell’hardcore, ma anche del rock in generale viste le evoluzioni nella seconda parte di carriera. Questi quattro afro-americani dai background musicali più disparati (fra cui anche jazz, fusion e funky) hanno saputo mettere insieme sonorità dure (l’hardcore più sparato, lo speed metal di cui sono considerati anticipatori) a passaggi più morbidi ed orecchiabili, divenendo di traverso fondamentali per il crossover e per l’alternative metal degli anni novanta. “Rock for Light” è la riedizione del debutto discografico (uscito originariamente l’anno prima, nel 1982): più che un album, un raccolta di brani (20 in appena 40 minuti!) scritti nella prima fase artistica. Qui le due anime si dissociano, con 16 brani più propriamente hardcore (un hardcore evoluto, preciso, fatto di velocità, continui cambi di tempo e riff dal grande impatto) e 4 di puro reggae. La preparazione tecnica dei musicisti (cosa insolita anch’essa) fa si che i Nostri si muovano con disinvoltura ovunque la loro ispirazione li porti, con il falsetto isterico, la voce poliedrica di H.R. (sorta di Mike Patton ante litteram) a fare da perfetta didascalia al mondo selvaggio raccontato dai Nostri.
19) Agnostic Front – “Victim in Pain” (1984)
Degni rappresentanti della scena hardcore newyorkese (una scena particolare, non sempre adeguatamente apprezzata dai puristi, forse perché troppo "compromessa" con il metal) gli Agnostic Front sono da considerare fra i pionieri più decisivi per la genesi delle sonorità crossover: un percorso che sarebbe stato ripreso e sviluppato ulteriormente dai concittadini Cro-Mags (a proposito, segnatevi il seminale “The Age of Quarrel”, anno 1986, diretto progenitore del suono della maturità dei vari D.R.I., Suicidal Tendencies ecc.). Gli elementi “metallici” non mancano nel sound potente ed epico del quartetto americano, il quale con gli anni sarebbe approdato a sonorità più propriamente metal (“Cause for Alarm”, l’album della svolta), finendo per firmare addirittura per una etichetta come la Nuclear Blast. Mai tuttavia gli Agnostic Front avrebbero bissato l’energia e l’urgenza del loro esordio “Victim in Pain”, un capolavoro di attitudine. I Nostri non perdono tempo, confezionando un debutto al fulmicotone di soli 15 minuti composto da 11 brani brevissimi (due di essi sono sotto il minuto e solo due osano andare oltre i due minuti), incalzati dalle arringhe anti-sistema dello scatenatissimo Roger Miret, autore peraltro di ritornelli a dir poco anthemici che ti si stampano nel cervello in un nano-secondo (da segnalare almeno quello di “United and Strong”). Ritmiche serrate e riff velocissimi si alternano a rallentamenti micidiali (si pensi al possente mid-tempo che sorregge la conclusiva “With Time”): un dinamismo veloce-lento-veloce che evoca in modo spettacolare quel concetto di “mosh” che proprio in quegli anni i concittadini Anthrax professavano sul versante thrash metal.
X) Hüsker Dü: “Zen Arcade” (1984)
Di solito il +1 delle nostre rassegne viene presentato all'inizio o alla fine delle stesse, ma per rispettare l'ordine cronologico delle uscite discografiche eccoci che ci proponiamo di fare la nostra "deviazione" in corso d'opera, appena un miglio prima del capolinea. Un discorso a parte, infatti, merita "Zen Arcade", secondo lascito discografico degli Hüsker Dü, da Minneapolis. Si tratta di un album epocale, un’opera monstre articolata in ben 23 brani e dalla durata mastodontica di 70 minuti, dei quali 14 appartengono alla sola “Reoccurring Dreams”: una maratona noise-rock chiamata a concludere un viaggio turbolento fatto di rabbia e disperazione giovanilistica. Qui l’hardcore implode, le emozioni deragliano, escono dagli schemi e conducono all’alternative rock: "Zen Arcade" non è "solo hardcore", è un ponte che conduce dritto al noise rock dei Sonic Youth, al grunge degli anni novanta, allo shoegaze, all'emocore, un fiume di elettricità in cui schegge di velocità si alternano ad episodi più meditativi, fra cui un'inaspettata ballata folk. Psichedelia, rumore, ma anche gioielli "pop" e con l'alternarsi riuscito delle voci del chitarrisata Bob Mould e del batterista Grant Hart, l’una più misurata e malinconica, l’altra raschiante, esasperata: un'operazione di decostruzione e ri-assemblamento che va a costituire la sublimazione definitiva dell’hardcore e al tempo stesso il suo superamento, definendo, con molto anticipo, il suono che rivestirà le nevrosi e i languori del giovane "spezzato" delle decadi successive.
20) Bad Religion: “No Control” (1989)
Torniamo alla nostra "sporca ventina" con un gruppo fondamentale che avrebbe influito in modo decisivo sulle evoluzioni del punk nelle decadi successive agli anni ottanta. Dopo un esordio di fuoco in stile hardcore californiano, un’opera seconda sperimentale e dalle sfumature progressive (???) ed un EP chiamato a mettere le cose a posto, i Bad Religion trovavano finalmente la loro strada con un trittico di album da urlo come “Suffer” (1988), “No Control” (1989) ed “Against the Grain” (1990). Il quintetto californiano individuava così la quadratura del cerchio nella velocità e nella violenza abbinate alla melodia, tanto che il loro sarà anche etichettato come melodic hardcore. L’album della consacrazione “No Control”, con le sue 15 tracce spalmate in nemmeno 27 minuti, offre un sound sì veloce ma anche epico ed animato da sforzi che intendono andare oltre la furia iconoclasta del genere, cercando di differenziare i diversi brani, in effetti riconoscibili per gli intrecci delle due chitarre e ritornelli dal grande gusto melodico (caratteristico l’utilizzo delle armonizzazioni e delle sovrapposizioni vocali) che tanto farà storia nel punk mainstream degli anni novanta. Cruciale la voce pulita e salmodiante di Greg Graffin - aria da intellettuale fra ironia e spietate analisi sulla società, autore peraltro di testi intelligenti che denotano una grande consapevolezza dei meccanismi che governano il mondo, ma anche un approccio umanista che mette l’uomo al centro di tutto come artefice del suo stesso destino. La missione della band non si completa nel lato musicale, ma anche nella promozione del “movimento” punk/hardcore tramite l’etichetta Epitaph (fondata e condotta dal chitarrista Brett Gurewitz), nella cui scuderia hanno pascolato nomi importantissimi (e popolarissimi) del punk come del rock alternativo in generale.
Abbiamo terminiamo la carrellata di titoli con la fine della decade ottantiana, ma questo non significa che la storia del punk sarebbe terminata qui. Come già detto, il punk è stato un fenomeno trasversale che avrebbe lasciato una forte eredità nella musica popolare: ritroveremo ovunque “semi” e schegge di punk, persino in ambiti insospettabili come l’elettronica o il cantautorato. Come genere in sè il punk avrebbe vissuto una "seconda giovinezza" all'inizio degli anni novanta grazie a nomi come Green Day, Offspring, NOFX e Rancid: una botta di popolarità che inaspettatamente - se si considera gli assunti iniziali da cui il genere era nato - avrebbe portato il punk in cima alle classifiche di vendita, trovando un pubblico entusiasta nei giovani delle nuove generazioni. Un punk melodico, orecchiabile, che tuttavia avrebbe fatto storcere il naso a molti appassionati del genere.
Discorso a parte merita il fenomeno del post-hardcore, che invece avrebbe portato ad esiti artistici del tutto esaltanti: una rivoluzione che era partita già dai dischi della maturità dei Black Flag, dal succitato capolavoro degli Hüsker Dü “Zen Arcade” (1984), dall'operato di band come Big Black e Shellac del mai troppo compianto Steve Albini, degli stessi Fugazi di MacKaye, dei Glassjaw e moltissimi altri. Un percorso che sarebbe proseguito sia nel mondo undeground (si pensi al capolavoro dei Refused “A Shape of Punk to Come”) che nel mainstream (vengono in mente gli At the Drive In – dalle cui ceneri sarebbero poi emersi i “progressivi” Mars Volta), senza dimenticare tutto il calderone post-hardcore più propriamente metallico capitanato da Neurosis, Breach, Isis e Cult of Luna. Ma questa è un'altra storia...
Playlist per metallari:
1) Ramones: “Blitzkrieg Bop” (“Ramones”, 1976)
2) Sex Pistols: “Anarchy in the UK” (“Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols”, 1977)
3) Clash: “London Calling” (“London Calling”, 1979)
4) Dead Kennedys: “California über Alles” (“Fresh Fruit for Rotting Vegetables”, 1980)
5) Black Flag: “Rise Above” (“Damaged”, 1981)
6) Misfits: "Skulls" ("Walk Among Us", 1982)
7) Fear: “I Don’t Care About You” (“The Record”, 1982)
8) Discharge: “Protest and Survive” (“Hear Nothing See Nothing Say Nothing”, 1982)
9) Agnostic Front: “United and Strong” (“Victim in Pain”, 1984)
10) Bad Religion: “Sanity” (“No Control”, 1989)