Per capire il carattere estremo e radicale del tema della miniera, userò i riferimenti che mi vengono in mente. Scuola elementare, ci fanno leggere una novella, “Ciàula scopre la luna”, opera di Pirandello che più black non si può. C’è questo ragazzo (il cui nome significa “corvaccio”) che lavora, praticamente da schiavo, in una solfatara. Una notte esce in superficie e scopre la luna, scoppiando a piangere. Conosceva il sole, conosceva la luce delle lampade, il buio della miniera, ma non immaginava che anche la notte fosse illuminata. Sì, perché ciò che rende l’uomo consapevole è la luce nel buio, la luna nella notte: a differenza del buio cieco della solfatara, in cui gli animi sono assopiti; a differenza della luce delle lampade, che sei obbligato ad accendere per poter faticare.
Se uno non avesse ascoltato gli Ulver potrebbe pensare che sia un racconto-denuncia sulla condizione minorile nella Sicilia rurale dei primi del secolo, e non un inno al lupo nell’uomo. La questione sociale indubbiamente c’era e il minatore era un sottotipo d’operaio particolarmente dannato in quanto abbastanza nomade per essere ancora più facilmente sfruttabile, rispetto al classico operaio da stabilimento. Si ricorda, dall’Italia, un’ondata migratoria verso le miniere del Belgio, segnata dalla strage di Marcinelle. I New Trolls composero “La miniera” per ricordare quell'episodio. In una parte del film “Sono Pazzo di Iris Blond” di Carlo Verdone, il nostro si trova invitato ad una festa di immigrati italiani a Charleroi, il giorno di Santa Barbara, “protettrice dei minatori”, dove si esibisce un grandioso ed estremo Mino Reitano. La metafora della Santa-Barbara, cioè deposito di armi, in particolare esplosivi, ricorre in tanti servizi giornalistici sulla criminalità, forse perché evoca l'imponenza e il pericolo di quelle esplosioni da miniera, accidentali o volute che, oltre a segnare la vita dei minatori, sfregiano anche il paesaggio roccioso, fino a sostituire voragini a intere fiancate di monte.
Dalle mie parti, già dalla strada, avvicinandosi alle Alpi Apuane (fonte di marmo) si intravede il “Monte Spaccato”, che è letteralmente un monte con uno spacco macroscopico creato dalle mine. Quindi si tratta si sventrare la roccia, quella sopra e quella sottoterra, potendo da una parte precipitare dalle vette brulle, dall’altra essere sepolti da un crollo nelle viscere della terra.
Ricordo con gran disagio le puntate del cartone animato “Candy Candy” in cui l’eroina faceva l’infermiera tra i minatori. Oppure la puntata de “La casa nella prateria” in cui, per un bel gruzzoletto di soldi, i padri di famiglia della serie trasportano un carico di esplosivi su per le pendici di un monte, a loro rischio e pericolo. Non erano le miniere cantate dai Panopticon in “Kentucky”, ma il mood è simile. Un alone di morte e di regressione allo stadio bestiale, che mai prevale però sui buoni sentimenti. Il nero del sacrificio, le sagome evanescenti dei minatori dietro il paesaggio verde del Kentucky. Quello del pollo fritto. Ma dietro il country si nascondono amarezze indicibili, ed è questa la chiave di lettura della saga mineraria dei Panopticon, che improvvisamente squarciano atmosfere naturistiche ed echi di storia con sfuriate di consapevolezza di classe, blast-beat dello sciopero. Le miniere sono una ferita aperta nei rapporti di classe dell’America, e anche se l’orgoglio di aver costruito una Nazione è un balsamo che non si nega, lo sfruttamento e la vita bruciata e consumata nella fuliggine rimangono un marchio e un destino oggettivamente sfavorevole.
Perfino il famoso dottor Lecter, de “Il silenzio degli Innocenti”, dal chiuso della sua cella di isolamento, si permette di sbeffeggiare l’agente Clarice Starling, nel tentativo di farle abbassare le difese, quando gioca a indovinarne il retroterra “…e quell’accento che cerca così disperatamente di coprire…puro “West Virginia”…che faceva tuo padre? Il minatore di carbone? Puzzava di lampada a petrolio?...”.
Per un diabolico marchingegno, non è solo un problema di coscienza di classe, ma di complementarietà tra gli sfruttati e gli sfruttatori per cui non è vero che sono i secondi a creare le masse affamate per poi schiavizzarle: non è più vero di quanto non lo sia che sono le masse a creare gli sfruttatori, magari - perché no – eleggendoli democraticamente in un sistema evoluto. Ecco allora che il black metal dei Panopticon sembra la versione oscura e ferale del brano cupo e senza speranza sul mondo operaio scritto da Springsteen, “Youngstown”. Un testo da black depressivo, in cui si descrivono questi operai che come formiche operano tra le miniere di metallo e le fonderie delle industrie belliche. In cui le fumate delle ciminiere sono come le braccia di Dio che ti cingono in una stretta tossica. L’amarezza dell’operaio, dice Springsteen, è di consumarsi da anonimi per la ricchezza altrui, con la consolazione di vedere i propri figli partire per le guerre che quelle armi rendono possibili. E così, nel sarcasmo più nero, il brano si chiude con la frase “Quando muoio non voglio far parte del Paradiso, sento che il lavoro del Paradiso non sarebbe cosa mia; prego il Diavolo di prendermi e mettermi all’opera nelle terribili fornaci dell’Inferno”.
I minatori nel metal sono una categoria che ha ricevuto effettivamente poca attenzione. La parola chiave “mining” tra le tematiche produce solo 9 risultati su Metal Archives. Uno di questi risultati sono gli Abitabyss, già trattati in questa rassegna, ma che sostanzialmente si limitano a citare la figura del minatore e a metterla in copertina in maniera scanzonata.
Siamo invece incappati, oltre le più rosee speranze, in un gruppo tedesco che dedica l'intero suo cursus discografico (sei full lenght e vari ep) al tema della miniera. Al limite della fissazione autistica, i Dauþuz poi compensano questa stranezza con una scelta ben più neutra a livello di nome: “morte”, in germanico antico. I nostri, è proprio il caso di dire, “sviscerano” il tema della montagna e della miniera da ogni punto di vista. Si va dalla fiaba neopagana alla critica sociale, fino al futuribile surreale e commistioni varie.
La versione più prevedibile è quella della montagna come interfaccia con l'essenza della vita e dell'esistenza. Se siamo abituati a pensare alla montagna in salsa scandinava, qui la visione è diversa. Nel nord estremo infatti la montagna è un gigante impenetrabile, muto, la cui sacralità deriva dalla sua incommensurabilità rispetto all'uomo in altezza, durezza e vastità. L'uomo la onora e vi penetra soltanto al livello del suo manto, il bosco. Si muove tra le sue nevi e suoi ghiacciai, la valica, ma il rapporto è telepatico. Il mitteleuropeo invece la montagna la sventra. Il ventre del monte è come una vigna, un orto o uno specchio d'acqua, fonte di vita tramite le sue vene minerarie, a cui l'uomo attinge. Il ventre del monte si lascia esplorare, non senza un atto di forza che parte dal piccone e arriva all'esplosivo. Eppure questo rapporto con il monte non è irrispettoso ma ha una sua sacralità e il minatore è una specie di cerimoniere del rapporto tra l'uomo e l'interno della terra. Mentre il contadino dissoda la parte più molle e fertile per la vita, al minatore tocca scavare e lacerare la parte più dura e compatta, per trarne fuori materie prime.
Così, è prevedibile che la montagna diventi il riferimento di ogni fase della vita e le sue parti e la sua struttura la metafora del destino dell'uomo. Ma non la montagna qualsiasi, bensì la montagna dei minatori. Il minatore fa l'impensabile: viola la roccia e dentro scopre i colori dei minerali, da essi trae il progresso e infine la sua vita si esaurisce nel fondo di un cunicolo, l'ultimo cunicolo inevitabilmente cieco, in cui la lampada da minatore si spegne.
"Als mein Geleucht für immer erlosch" (Quando la mia lampada da minatore si spense)
Di prima mattina salimmo,
I camminamenti scivolosi, soffiavano venti freddi,
giovane di 15 primavere, pieno di slancio e sete di conoscenza:
tra poco sarò alla Trinità, là alla scuola dei minatori.
La montagna maestosa e sublime è la mia gioia.
Nel tempo libero, sempre, me ne vado a fare due passi all’Alter Mann (al „Vecchio uomo“),
in gallerie da tempo dimenticate, lontano dagli altri,
iI mio sguardo è ammaliato da una vena di verde malachite.
Un passo verso il nulla, giù nelle nere profondità
mi trascinò il monte, a sé, nel suo cuore.
Il mio cranio si scortica e sbatte forte contro i pali dei pozzi della miniera,
braccia e braccia di lunghezza, il dolore mi brucia come fiamma.
Nel cadere al fondo sento il mio cranio spezzarsi
e quando le mie ossa vanno in frantumi e si conficcano nelle mie viscere
sangue caldo mi sale piacevolmente agli occhi
La mia lampada vacilla, il mio sangue scorre via lungo la galleria.
Nella penombra risplendono bianche ossa, incredibilmente belle,
il mio cuore batte sempre più debolmente, come combattesse per non addormentarsi,
Onnubilata, terribilmente silenziosa, sale la mia ode
Ora che la mia lampada si spegne per sempre.
Le figure umane in rapporto con la montagna sono il fabbro primordiale e il minatore primordiale. Queste semidivinità somigliano ad un demiurgo che estrae la materia prima per forgiare la forma operativa dell'uomo, quello dell'età del fuoco e del ferro. La montagna, priva di vita, diventa motrice delle azioni umane, della trasformazione che l'uomo applica alla materia prima, e che poi le sue armi e i suoi strumenti applicheranno agli altri uomini, agli animali, agli alimenti.
Il monte è anche un luogo in cui naturalmente refluisce la vita. Le caverne e i cunicoli scavati verso il centro del monte somigliano a quelli delle piramidi. Al termine della vita il ventre del monte accoglie l'uomo, e lo riporta al centro della vita, simbolicamente. Il monte è una bara gigantesca, che mostra la vita attraverso il destino delle materie prime che ha fornito, prendendosi in cambio, in quello spazio liberato, le ossa dei mortali. Mi perdonino i Dauþuz, ma mi viene in mente a tal proposito la fiaba con i minatori più noti a tutti i bambini, ovvero i Sette Nani. Quando Biancaneve muore avvelenata dopo aver morso la mela, i nani le preparano una bara di diamante e la espongono nel bosco. La bara trasparente sarà notata dal principe di passaggio, che quindi potrà innamorarsi della bellezza di Biancaneve. La più coperta, profonda e inaccessibile delle bare, la montagna, può essere anche fonte della materia prima per una bara trasparente.
In altre circostanze infatti la montagna diventa una pietra tombale infinitamente pesante, come negli innumerevoli casi di crolli. Da noi, come detto, fu celebre quello di Marcinelle in Belgio, i Dauþuz ne commemorano altri. I crolli e gli incidenti sul lavoro nelle miniere, oltre alle malattie e morti per le malattie da inalazione di polveri (antracosi, silicosi...), mettono in evidenza anche l'aspetto sociale del lavoro dei minatori. Naturalmente qui non parliamo più del minatore primordiale, mitologico, ma del minatore uomo-massa, il proletario delle miniere. In tempi moderni pagato magari anche bene, ma esposto ad un rischio, sostanzialmente ripagato con una sorta di mini-assicurazione sulla vita da riscuotere come stipendio. In passato le cose erano invece decisamente peggiori, e le condizioni di lavoro prive della benché minima tutela.
I Dauþuz immaginano una fiaba nera in cui un minatore si fa carico del dolore di tutti i suoi compagni, e una sera rapisce la padrona mentre, come di consueto, festeggia e gozzoviglia nel lusso pagato col sangue e il sudore degli operai. Dopo averla stordita la imprigiona nel fondo di una rete di cunicoli, assicurandole però un po' di circolo d'aria con un tubo di rame, e lasciandole del cibo rancido, perché la morte sia lenta e dolorosa.
"Kerker der Ewigkeit" (Il carcere dell’eternità)
Noi sfruttati senza scrupolo e fino alla morte,
lei nata nella ricchezza e negli agi.
Dopo il turno, per sei mesi
realizzai giorno dopo giorno la mia opera, giù nel gallerie dell’Alten Man.
Portai pian piano avanti la costruzione dl carcere, giù nella roccia
alla profondità di 38 braccia: sarà questa la sua punizione eterna.
Per lei scavai questo carcere, il carcere dell’eternità,
lei, la dissipatrice della vita, lei, fin dalla nascita votata all’avidità
La sua ingordigia era senza confini, pagava di rado le nostre prestazioni a cottimo.
Ed è questo il mio compito, sceglierle una morte piena di spasimi.
Era una sera tiepida e rugiadosa, lei festeggiava sfrenatamente,
Ie diedi un colpo e la feci stramazzare a terra, la trascinai fuori dal suo feudo,
e la gettai giù nella galleria più profonda
Giù nell'eternità, giù nel buio carcere.
Nella fossa aggiunsi pietra su pietra:
un capolavoro, si vedeva ormai soltanto grigia roccia.
10 pagnotte rancide le buttai giù:
lentamente dovrà andare in malora fino a che la montagna non se la porti via.
Feci però in modo che arrivasse fino a lei, nel luogo del suo martirio
una tubatura in rame per poterle fare farle visita di tanto in tanto,
e certo lei avrà anche bisogno d’aria, altrimenti finirà per morire troppo presto.
Così le canto fino all’ultimo un canzone di morte e di bieche maledizioni.
Nessuno ode i tuoi lamenti,
la tua anima, qui nel carcere dell’eternità,
appartiene ora interamente alla montagna
nel carcere dell'eternità.
L'atto più drammatico dello scavare è, nell'era della polvere da sparo, l'apertura di varchi con l'esplosivo. Il “fuoco alle polveri!”
Dura è la montagna, più dura del ferro
I picconi sono spuntati, l'elmo sfondato nell’occhio
Davanti a noi l’aia, disseccata e sterile
Arde la barba, la resina comincia a ribollire
Soffocano tutti quelli che, col maltempo, erano rimasti di guardia.
Fuoco!, lo hanno già gridato i vecchi:
crolla montagna in un incendio impetuoso
Col maltempo provocato dal fuoco
risalivano di continuo fumi sotterranei dalle miniere,
segni visibili questi da molto lontano:
Il fuoco è la forza che rende molle la roccia.
Dopo alcuni giorni gli uomini fecero ritorno,
caldo soffocante e fuliggine erano il loro grande tormento.
i minatori conficcano i cunei nelle nere fenditure
attenti sempre, sopra la roccia, che il coperchio della bara non non li schiacci.
Fuoco! Lo hanno fatto già i vecchi.
Crolla la montagna in un immane incendio,
dura è la montagna più dura del del ferro.
I picconi sono spuntati, l'elmo fondato nell’occhio
Davanti a noi l'aia, disseccata e sterile
Mucchi su mucchi, ripieni di segatura resinosa.
Questa descrizione naturalistica non avrebbe peso se non fosse così insistita e dettagliata da assumere i connotati vivi del respiro soffocato dei minatori, dell'attesa, della paura ancestrale evocata dall'esplosione. La rigidità inerte del monte è scossa dall'esplosione, che sembra quasi un atto di volontà estrema dell'uomo, liquido e molle, contro la pietra irriducibile.
Segnaliamo inoltre l'uso della miniera come sfondo per una parabola anticristiana, in Drachensee. Il capo missionario cristiano che si copre di nefandezze attraverso l'uso sistematico della menzogna, così nei costumi come nell'essenza della sua dottrina. La natura si ribellerà all'etica immonda della sua Parola ingannevole, e lo annienterà.
"Drachensee" (Il lago del drago)
Nell'anno 429, in alto sulle Alpi,
comparve un missionario, chiamato Magnus.
Convertì lassù tutti i pagani al suo Dio cristiano.
Presto le sue pecorelle gli raccontarono dell'oro sull'alta montagna
Ipocritamente **predicava acqua e beveva del vino migliore,
mandava i suoi seguaci per pane e assoluzione su nei monti.
In alto sopra la miniera, nel borgo pagano, costruì una casa per il Dio cristiano.
Tutto lì era di oro fino, tutto solo per sé e il suo Dio.
Poi prese con sé tutte le donne: nella loro prima notte di matrimonio.
Dovettero faticare per lui vestite di stracci, mentre lui si vestiva con aristocratico sfarzo.
Una volta accade che un povero vecchio dalla disperazione si prese due grammi di quell’oro.
Lui allora lo inchiodò sotto gli occhi di tutti
con chiodi d’oro alla sua santa croce.
Ma ecco che lo spirito della montagna, profondamente incollerito, covò la sua vendetta, la più atroce.
Magnus bevve in quell’ora vino dal suo calice più prezioso,
in quel mentre il monte tremò, dalla bocca della galleria una spuma rabbiosa
ribollì al di fuori, l’acqua bavosa invase la galleria, il borgo e il gregge cristiano.
Dalle fauci incontaminate del freddo lago, azzurro di un azzurro di ghiaccio,
sbucò fuori il drago dalle lingue di fuoco e sbuffando, rovente, irruppe
nella navata della chiesa,
fece a pezzi il corpo di Magnus e distrusse tutto quello che lì si trovava.
Poi sibilando discese nelle profondità con l'anima di Magnus e tutto l’oro.
Nel mistero e nel silenzio si distende il lago del drago sullo sfondo di massi torreggianti,
ma ogni notte si odono risuonare pianti lamenti preghiere.
Eternamente dannato giace ora Magnus nel ventre della terra, solo con il suo oro!
E giorno dopo giorno le fauci del drago si pascolano del corpo del dannato.
Il tipo di storia ricorda "Heathenpride" dei Falckenbach, in cui si narrava lo sbarco di invasori cristiani che portavano violenza in una comunità pagana di vichinghi, e che erano poi respinti in un contrattacco.
Per quanto riguarda la musica, un black marziale ed evocativo, direi canonico e con una vena malinconica. La teutonicità è garantita da un pestare in “mettere” che in quelle terre non si nega a nessuno, qualunque sia il sottogenere. Pause atmosferiche, parti acustiche. Ad un certo punto, benché non si possa gridare al “mai sentito”, si prova una sensazione gradevole. Nonostante l'inevitabile quota di legnosità mittel-europea, nonostante i tempi a volte zoppicanti (non mal suonati: per scelta), nonostante il lento incedere per minuti in alcuni passaggi, si ha l'impressione che vi sia un progetto, che ci stiano raccontando qualcosa e che il racconto prevalga sulla necessità di riempire lo spazio. Sembrano dire, i minatori del black metal, che ci vuole il tempo che ci vuole per raccontarci le loro storie; e infatti le fanno scorrere con una certa naturalezza e un senso di finalizzazione, che le rende più coinvolgenti.
A parte le pose fotografiche con elmetto e strumenti da minatori, acconciati come fantasmi della miniera, non si può ovviamente forzare più di tanto l'idea di un metal “minerario” sul piano sonoro e stilistico. Black metal, tutto qui, sul piano musicale.
A cura del Dottore