Introducendo gli Agalloch si diceva che l’atmospheric black metal può essere inteso in una duplice accezione: si può avere di esso una visione più riduttiva intendendolo semplicemente come un sotto-genere del black metal, oppure, in senso più ampio e dal punto di vista della storia del genere, potrebbe essere considerato come un moto di rigenerazione del black metal stesso. Questo perché, da un certo punto in poi, il black metal per sopravvivere non ha potuto fare a meno dell’elemento atmosferico che permettesse a quel linguaggio di evolversi, emanciparsi, articolarsi in brani lunghi, dimensioni avvincenti, esprimersi in diversi umori e calcare differenti scenari.
Se ci sono stati dei musicisti importanti per la rigenerazione del black metal nel terzo millennio, quelli sono stati proprio i fratelli Nathan e Aaron Weaver, operanti sotto la prestigiosa insegna dei Wolves in the Throne Room.
Questa alchimia era già stata sperimentata nell’opera di debutto “Diadem of 12 Stars” che, pur ancora un poco acerba e con aspetti da perfezionare, metteva in campo l’enorme potenziale della band americana, all’epoca un trio composto dai fratelli Weaver (Nathan a voce e chitarra e Aaron alla batteria) e dal chitarrista Rick Dahalin. Il paradosso, appunto, è che tutto suonava classico ed al tempo stesso fresco e contemporaneo (correva l’anno 2006). La forza di questi musicisti è stata quella di proiettarsi al futuro immergendosi completamente nella fonte battesimale, ripartendo dai maestri Burzum, Darkthrone, Emperor, Ulver ed attualizzandone il suono e soprattutto l’immaginario.
Nella musica dei Wolves in the Throne Room veniva effettuata una connessione del black metal scandinavo degli anni novanta alla dimensione paesaggistica, naturalistica del nord degli Stati Uniti d’America in un’ottica non solo anti-modernista ma anche (squisitamente) ecologica. I Wolves in the Throne Room operano infatti da Olympia (stato di Washington), conducono una vita ritirata e a stretto contatto con la natura nella loro fattoria spersa fra le montagne della Cascadia (da qui la felice definizione di Cascadian Black Metal).
E proprio di questo amore/devozione per la Natura si impregna il black metal arcigno dei Lupi d’Olympia, un black metal parimenti ferale e poetico, violento e melodico, istintuale e ricercato, un black metal che sembra scaturire dallo scontro degli elementi: il drumming di Aaron è impetuoso come la pioggia battente, travolgente come una tormenta di vento; il riffing delle chitarre ha l’imponenza delle montagne, la vastità delle foreste; la voce di Nathan brucia come il fuoco.
La formula, di fondo, non si distacca molto dagli stilemi già forgiati più di dieci anni prima dalla compagine scandinava, solo i confini vengono slabbrati, in ogni direzione: siamo, del resto, in una epoca (gli anni zero) in cui le barriere franavano come castelli di carte. Dunque la ruvidità del black metal più istintivo scopriva e riscopriva il legame naturale con le suggestioni proprie di un genere come il doom e di certe evoluzioni che potremmo definire post-metal e sludge. Sono questi ultimi gli elementi di modernità del suono dei Nostri, l’accavallarsi delle voci (lo screaming corrosivo di Nathan, il growl pastoso di Dahalin) che ricorda certe cose dei Neurosis e la potenza descrittiva delle chitarre, fra arpeggi nervosi e accordi possenti ed ariosi memori di certo post-metal à la Isis e Cult of Luna.
Ne è il miglior esempio la portentosa opener “Queen of the Borrowed Light” (destinata a divenire un classico) che dall’alto dei suoi tredici minuti è in grado di mettere in luce la grande ispirazione della band, fra parti tiratissime e maestosi rallentamenti. Nel sound dei Lupi trovano posto con naturalezza anche elementi folk, come chitarre acustiche e voci femminili (bello – ed inaspettato – l’attacco vocale della ospite Jamie Myers all’inizio della seconda traccia “Face in the Night Time Mirror: part 1”). C’è poi ovviamente l’imponente durata dei brani, capaci di raggiungere minutaggi sulla carta importanti, ma che nei fatti non annoiano per un solo istante, filando via con grande fluidità.
L’ora di durata del platter viene così coperta da soli quattro brani (anzi tre, se si vuole considerare come un'unica composizione le due parti della sopra menzionata “Face in the Night Time Mirror”), con solamente l’ultima, la title-track, a superare i venti giri di orologio: durate, queste, una volta possibili solo per i brani ambient di Burzum, e che invece grazie a questo trio di musicisti vengono colmate con dinamismo, idee ed un grande senso dell’equilibrio. Provvidenziale il drumming variegato di Aaron, capace di passare con estrema eleganza da furiosi blast-beat a passaggi di solenne marzialità, granitici mid-tempo e momenti più pacati, ricordando i migliori interpreti della stagione d’oro del black norvegese quali Hellhammer, Faust o Trym. Certo non ci troveremo innanzi ad una miracolosa rigenerazione del black metal se non vi fossero le prodezze alle sei corde delle due asce, e dunque palate di riff commoventi, intrecci che salgono e scendono con intensità wagneriana, solenni pause ed epiche cavalcate.
La componente atmosferica, beninteso, non è affatto secondaria: elevatissimo è il potere evocativo di questi brani, che restituiscono continuamente l’idea e le sensazioni di una natura incontaminata e selvaggia (eloquente a tal riguardo la bellissima copertina), una natura pervasa da divinità ed entità misteriose che aggiungono magia ad una musica già di per sè suggestiva. Ed è interessante notare come i tre siano in grado di “fare atmosfera” senza ricorrere alle tastiere e con un impiego tutto sommato contenuto della chitarra acustica. Il segreto del combo americano stava piuttosto nella profonda ispirazione e nella determinazione con cui hanno saputo dare forma alle proprie visioni artistiche.
Per tutti questi motivi i Wolves in the Throne Room sono stati ricondotti entro il calderone dell’atmospheric black metal, sebbene probabilmente rappresentino qualcosa di più. Li includiamo in questa rassegna come pietra angolare del black metal del terzo millennio: impossibile ignorarli per capire il destino del genere negli anni successivi.