Trentottesima puntata: I'm in a Coffin - "One Last Action" (2008)
Chi ha detto che il depressive black metal deve essere necessariamente un molesto pugno nello stomaco? Avevamo utilizzato questa domanda per introdurre un approccio soft al depressive black metal qual è quello professato da Georg Börner alias ColdWorld, una delle entità più note del depressive di seconda generazione. Oggi invece potremmo utilizzare la stessa identica domanda per iniziare a parlare di una band che, di contro, appartiene proprio al filone “tosto” del DMB, quello più atroce e privo di compromessi: gli I’m in a Coffin.
Il loro debutto targato 2008 “One Final Action” rappresenta senz’altro pane per i denti per i più duri di stomaco, lo si capisce fin dalla cruda copertina: un impietoso scatto notturno e forestale che ritrae un poveraccio bendato, legato ed inginocchiato, probabilmente rapito e portato ad insaputa in un luogo isolato, che attende il suo tragico destino. Che si voglia rappresentare metaforicamente l’ascoltatore?
Gli I’m in a Coffin nascono nel 2008 e dopo due demo raggiungono il traguardo del full-lenght nel medesimo anno. Si tratta di un duo americano, originario del Texas e poi spostatosi nel Massachussets. I due si nascondono dietro due originali soprannomi da cui trapela un certo grado di macabra ironia, Sad-ist ed Adorable, con il primo a occuparsi di basso e tastiere, e il secondo di chitarre e batteria. Entrambi si alternano dietro al microfono e il risultato è quanto mai molesto.
Nella nostra rassegna si è cercato, ogni volta, di far emergere le peculiarità specifiche di una band con il fine di individuare e delineare il tratto distintivo che la separi dal resto della congrega. Quanto agli I’m in a Coffin direi che l’elemento caratterizzante è un pronunciato ed insolito utilizzo del basso, strumento che spesso sparisce nelle produzioni confuse e zanzarose del DBM, ma che qui invece guadagna uno posizione di centralità. Anche “One Last Action” è sufficientemente confuso e zanzaroso, stiate pure tranquilli, ma si differenza per l’onnipresenza delle quattro corde che rombano tutto il tempo, ora sotto forma di mesti arpeggi, ora di note profonde che, lentamente, disegnano geometrie in modo asincrono rispetto ai riff sferraglianti di chitarra e le ritmiche instabili della batteria. Comprendo che potrebbe essere un paragone fuori luogo, ma queste malate ed ubriache marce funebri potrebbero evocare nel cuore degli ascoltatori più colti ed attempati il post-black sbilenco e dissonante dei Ved Buens Ends......
Il tutto inoltre incarna uno squisito spirito punk, restituendoci autentici miasmi underground: luoghi, questi, in cui il suicidal raggiunge la sua forma più perfetta. Il bello di certo DSBM, infatti, è che sa scrollarsi di dosso certe rigidità del metal, certe ingessature, certi meccanismi compositivi per farsi espressione scriteriata di quello che passa per la testa a chi realizza musica, con risultati talvolta esaltanti.
Con gli I’m in a Coffin non ci troveremo innanzi ai massimi poeti del depressive, intendiamoci, ma il loro black metal fracassone, ora funereo, ora veloce, ora spruzzato da aromi darkwave, è decisamente efficace e, devo dire, sa intrattenere. Esseddiovuole, almeno per una volta possiamo anche non tirare in ballo Burzum!
Rimarchevole la prova vocale dei due componenti della band che si alternano al microfono, un brano per uno, tranne che nella opener “I’m a Weapon Against Myself” (bellissimo titolo!) dove si affrontano a viso aperto: il lamento sofferente, gli ululati fuori di testa di Sad-ist da un lato e il digrignare acido e maligno, altrettanto folle e malato, di Adorable dall'altro si completano a vicenda con esiti nel complesso non distanti da certe cose di Bethlehem e Silencer.
I primi minuti del disco sono emblematici e rappresentano secondo me la quintessenza del suicidal: un basso arpeggiato quasi à la The Cure che viene accompagnato da una “voce fuori campo” (l'estratto di un film?) e poi l'esplosione di chitarra e batteria. Il resto è un agonizzante dialogo dove due voci si fronteggiano e accavallano senza esclusione di singulto: che lo strazio abbia inizio! Il secondo brano “Wirst Deep in Depression” preme sull’acceleratore lanciandosi in un up-tempo sgangherato con lo screaming bavoso di Adorable tracimante follia da ogni poro. Stessa solfa con la terza “A Taste of the Abyss”, aperta da cupe tastiere e poi chitarra e batteria lanciate a rotta di collo con il solito basso a coprire tutto con pesanti pennellate. Questa volta è Sad-ist a ricoprire il ruolo dietro al microfono, stessa dose di malattia, in più una chitarra arpeggiata ad aggiungere inquietudine al marasma elettrico.
I brani si susseguono con l’irruenza di una jam improvvisata, sembrano registrati in presa diretta su un quattro piste nella classica scalcinata cantina, con assoli deliranti e brani che terminano all’improvviso, probabilmente tagliati nel lavoro di post-produzione. Quanto ai testi, basta dare una scorsa a quello di “Finally Happy” per avere una idea:
“Life is too much…
On occasion
I take
I take the razorblade
To my wrists…
To my throat…
Blood shows me I’m alive…
Alive too long
I must die…
I must die today
Tonight I will be gone…
Alone and dead
In my pain…
Suffering…
Suffering as a soul in hell
Torment shoots through my soul
My dead soul…
I will never find peace
And in my eternal suffering
I am finally happy…
Finally happy
For I am dead now”
I Nostri coprono la distanza dei 51 minuti dell’album in modo brillante gettando nel mucchio intuizioni geniali con la disinvoltura e la strafottenza di chi non ha tempo da perdere e poco si cura del risultato finale. Le nove tracce sono di variabile lunghezza (da un minimo di tre ad un massimo di dieci) e si muovono a diverse velocità (farfugliati passaggi in blast-beat si alternano a momenti più lenti), ma la sostanza alla fine non cambia: sembra di essere dentro ad una bara, tanto questo album è asfissiante, claustrofobico, appiccicoso. Ma attenzione, cosa sia esattamente questa bara ce lo chiarisce il titolo della traccia conclusiva (una devastante ballata di dieci minuti) “Life is my Coffin (One Final Action)”, in perfetta coerenza con il messaggio lirico sopra riportato.
Ai Nostri non manca il gusto per l'eccesso, questo è chiaro. Eccesso, tuttavia, che viene mitigato da una certa vena di macabra ironia (basti vedere la copertina del secondo full-lenght - edito sulla lunga distanza nel 2020 - “Waste of Skin”, dove il titolo è letteralmente inciso sulla pelle di un malcapitato). E tanto son connesse l'ironia all'agonia che a tratti non si capisce se, ascoltando gli I'm in a Coffin, dovremmo ridere o piangere. Indubbiamente è una dimensione da incubo quella in cui si muove la visione artistica di questi due artigiani delle sonorità depressive, efficaci trasmettitori di quella sensazione - tutta ferrettiana - del ridere nel pianto, ma al cubo: un concentrato di follia che è tipico delle frange più estreme ed autolesioniste del suicidal.
Ma sapete cosa vi dico? E’ questo il DSBM che più ci piace...