I Totalselfhatred vengono dalla Finlandia e solo adesso, dopo quasi quaranta puntate, realizziamo che con la nostra rassegna sul depressive black metal non avevamo ancora messo piede sulla terra di Babbo Natale. La nostra sorpresa viene dal fatto che la Finlandia era stata la culla del cugino del DBM, ossia il funeral doom, senza contare che essa costituisce da sempre un territorio favorevole al proliferare del metal estremo nelle sue forme più oscure e disperate.
Come è stato dunque possibile che il luogo che aveva dato i natali ai vari Unholy, Thergothon, Skepticism e Shape of Despair non si fosse ancora distinto nel campo del DBM? Rimediamo dunque con i Totalselfhatred, subito precisando che essi hanno ben poco in comune con le band appena menzionate. Non c’è infatti da aspettarsi un DBM in salsa funeral essendo i Nostri fautori di una proposta assolutamente fresca, facilmente fruibile e per certi aspetti assimilabile al filone del post-depressive black metal.
Agli sgoccioli del 2008 i Totalselfhatred entravano a gamba tesa nel mercato discografico con un bell'esordio auto-intitolato che scalerà presto gli indici di gradimento degli appassionati di settore. Ed infatti quel torbido facciozzo dagli occhi blu (che non è un ritratto di Paul Newman!) che campeggia in copertina lo ritroverete spesso nelle classifiche dei migliori dischi di DBM: con i suoi sette brani per tre quarti d’ora del tutto godibili, “Totalselfhatred” rappresenta indubbiamente uno dei debutti più interessanti che il genere abbia saputo offrire nell’ultimo ventennio.
Quello del quintetto è infatti un black metal denso, stratificato, orientato alla melodia e favorito da suoni tanto corposi quanto puliti che valorizzano ogni singolo dettaglio. Le due chitarre e le tastiere concorrono ad ergere un muro di suono imponente, dove una chitarra solista o arpeggiata è quasi sempre presente e tappeti di tastiere rinforzano il lavoro delle sei (e delle quattro) corde, con esiti che coniugano alla perfezione la potenza del post-metal alle trame decadenti del gothic metal (non si esclude che la band si sia fatta ispirare anche da certo gothic-rock di ottantiana memoria – vedi Sisters of Mercy e Fields of the Nephilim).
La solida sezione ritmica assicura il giusto dinamismo a composizioni che, senza mai trascinare le cose veramente per le lunghe, passano con disinvoltura da tempi lenti a parti veloci, se non addirittura velocissime: up-tempo e persino furiosissimi blast-beat non mancano, come del resto non mancheranno all'appello una impeccabile doppia-cassa e repentini cambi di tempo.
La voce è sofferente come il genere richiede, uno screaming però solido e ben impostato che non si spertica in tonalità particolarmente esasperate e che mantiene sempre una dignitosa compostezza. Curioso notare che se le parti vocali sono principalmente assegnate al cantante/chitarrista C. (alias Corvus, all’anagrafe Tapsa Kuusela), anche gli altri membri della band sono chiamati a dare il loro utile contributo dietro al microfono, chi in un modo chi in un altro, facendo sì che il campionario vocale si arricchisca di ulteriori sfumature, fra strilli più acuti o un tormentato canto pulito. Aspetto, questo, che conferisce un’ulteriore connotazione “depressive” ad una musica che insiste in modo deciso su umori fra il malinconico, il disperato e il furioso, rasentando il metalcore (ahia).
A questo punto mi sento di precisare che non ci troviamo a banchettare alla Sagra della Varietà e del Colpo di Scena: i singoli episodi non tendono infatti a differenziarsi più di tanto fra di loro, concorrendo ad edificare un unico flusso sonoro che aumenta o cala di intensità, di potenza, di velocità, ma sempre conservando lo stesso registro.
Le modalità espressive, infatti, sono sempre le stesse, ben miscelate in ogni brano e spartite in tre distinte dimensioni fluidamente connesse: quella del passaggio lento e sofferente, quella della sparata black metal e quella dell’interludio atmosferico, per lo più di pianoforte o chitarra arpeggiata - davvero molto presente e che lascia spesso in bocca un sapore di post-rock. Ma anche sul fronte delle sonorità cosiddette “post” non si hanno grandi concessioni: i brani non sono lunghissimi (vanno al massimo sui sette minuti), le parti strumentali non guadagnano spazi, le chitarre non si gettano in crescendo né coltivano ambizioni “descrittive”: il suono dei Totalselfhatred, in altre parole, non si fa mai particolarmente “paesaggistico”, ma vuole focalizzarsi su una cruenta rappresentazione dell’interiorità, fatta di momenti di rabbia e altri maggiormente dimessi.
A prevalere, semmai, è una certa epica/maestosità black metal dove al posto dell’ossessività esasperata e delle trame scarne troviamo l’insistenza su determinate frasi melodiche alternate a massicci assalti sonori. Del resto, se “Totalselfhatred” fosse stato un album progressivo o post-metal, non staremmo a parlarne in una rassegna di DBM, genere a cui i Nostri appartengono in modo deciso ed inequivocabile (cosa aspettarsi dopotutto da una band che ha deciso di chiamarsi “totale odio per se stessi”?).
Forse al primo ascolto il tutto risulterà molto auto-indulgente, anche troppo ampolloso, ma quelli successivi sapranno dischiudere l’innegabile potenza melodica di certi passaggi, fra cui ci sembra doveroso citare almeno la magistrale chiusura. Gli ultimi minuti dell’album sono infatti da manuale, prima affidandosi a chitarre impetuose, velocità sostenute e screaming straziante per poi spegnersi in poderosi rallentamenti, arpeggi lasciati da soli ed infine incalzati nuovamente dalla batteria: la classica conclusione che ti mette voglia di riascoltare l’album e riviverlo con maggiore partecipazione.
Anche troppo scontato consigliar questo album a chi nel genere deve muovere i primi passi e non vuole farsi troppo male...