Ed eccoci sulla vetta del mondo, dove il metal ha attecchito. E' nostra fantasia, tanto perché s'ha tempo da perdere, immaginare che proprio qui ci si rechi quando si è smarrita la via maestra del metal, per ricercare le origini in mezzo al Nulla.
In una allegoria geografica del metal, ci sono epoche in cui i sottogeneri si affermano come luoghi in cui andare a nascondersi per incrostarsi sulle poche certezze rimaste, e altri in cui fioriscono come oasi intorno alle quali riorganizzare un'espressione più libera e multiforme. La vetta di un monte, incompatibile con la vita, dovrebbe custodire una sorta di segreto rigenerante del metal, a cui attingere in tempi di incertezza e smarrimento. Il nostro curioso pellegrinaggio ci porta quindi a scoprire intanto che di metal, in Nepal, ce n'è in abbondanza.
Partendo con l'idea di smaltire la roba più preferibile, butto in padella il brutal death metal. Dimenticare la rottura dell'imene è il terreno poetico su cui si muovono i Broken Hymen, con "Dimensions of Obliteration". Essi ci sorprendono però partendo disinvolti con un intro jazzato, per poi alternare sapientemente parti brutal ad altre più riflessive e virtuosistiche.
Rotto (per così dire…) il ghiaccio con il Nepal, ci imbattiamo nei Binaash, dietro al cui microfono milita Paperino, nei Refuse 13, bassa macelleria, e negli Ugra Karma, gente grezza ma precisa. Gli Antim Grahan “sanguinano odio” e farneticano di legioni nere, di maestà infernali e naturalmente si cagano sotto buttando lì nomi come Armageddon, ma poi musicalmente sono per lo più death metal.
Intuiamo che c'è una frangia di death metal estremo che probabilmente sposa anche i temi lirici del black, che peraltro, prima di essere del black, tali temi sono stati appunto del death metal estremo, per cui si tratta solo di tanto rumore per nulla. Musicalmente si può dire che nel complesso questo death metal (i Cruentus ad esempio) le prova un po' tutte: dal death-doom al blackened death, passando per il death melodico con voci pulite ed ariosità tastieristiche, senza però prendere mai una direzione precisa.
Ciò che si avvicina più al black metal in Nepal sono i Kalodin, che cercano di barare con del symphonic black metal. Però diciamocelo: questi nepalesi fondamentalmente non sono cattivi. E questo non è necessariamente un difetto, bensì una caratteristica evidente: gli scappa la melodia, la riflessione, smussano le asperità. E già questo aspetto si poteva intuire se si pensa che un gruppo che si fa chiamare “imene rotto” si diletta in soluzioni jazzate. Il Premio Death va comunque ai Dying Out Flame, che se non altro propongono un death roccioso, deciso ed infarcito di cantilene indo-nepalesi. Niente di trascendentale: non altro che una soluzione d'effetto, ma apprezzabile.
Ora, mano a mano che smaltisco la discografia nepalese, mi rendo conto che questa distinzione per generi non è casuale. In verità ho voluto lasciare in fondo alcuni gruppi che mi parevano, a prima impressione, più interessanti. Essi operano nell'area del metal classico e in effetti la caratura del metal nepalese aumenta mano a mano che si retrocede dalla brutalità estrema alle soluzioni thrash fino a giungere a quelle più classiche.
Il thrash metal sussiste (cosa rara) con i Bidroha, che personalmente mi ricordano i Nuclear Assault e reggono per trenta minuti buoni. Non sono l'unico esempio, ci sono anche i 72 Hours, i Disorder, i Serpent Gaze. C'è perfino chi, come gli Epitaph, riproduce un proto-thrash con ritmi accelerati, a cui però aggiunge una voce growl, in una specie di innesto anacronistico. Se per gli Epitaph, dalle soluzioni più minimali, il growl può calzare, per altri gruppi si sentirebbe il bisogno di un definitivo sganciamento da questo stile vocale, che è spesso un alibi e fa l'effetto della gramigna, ovvero fornisce una scusa, ma anche la necessità di evitare la forma canzone più canonica. Ed è anche questa la ragione per cui tutta una serie di gruppi metal-core, tipo Underside, X Mantra, Divine Influence, appaiono fondamentalmente anonimi, laddove invece dovrebbero proporre canzoni più che brani.
La migliore proposta (nascosta sotto il growl, che cresce come la gramigna ovunque) rimane quella dei Marinai Morti, che anche qui vorrebbero fare i deathster, ma al massimo suonano come Amorphis e Dark Tranquillity: perché allora, a questo punto, non adottare vocalità pulite? Oddio, a pensarci bene il growl è già un passo in avanti rispetto alla Mongolia, dove l'afonia regna sovrana.
Ad ogni modo viene da fare una riflessione: l'accostamento di melodia e voce death da noi arriva come death metal melodico, ossia come ricerca di una modalità espressiva che renda il lirismo del metal attraverso l'estremismo death, dopo che per diversi anni l'area thrash-death era stata classicamente anti-melodica. Una realtà come il Nepal, in cui il metal arriva già in veste melodica, prende il modulo già fatto così com'è, ma senza aver vissuto questa necessità. Forse il percorso che qui stanno compiendo, inconsapevolmente, è quello di tornare alle origini del metal “pulito”, come l'animale che torna fuori dalla tana dopo l'inverno.
I Vhumi, per esempio, hanno già messo il pelo nuovo, assumendo una forma chiaramente classic metal, eppure stanno ancora attaccati al growling come a un ciucciotto. Finché si resta dentro il guscio del brutal, dell'inumanità o della sovrumanità dei generi estremi, si può giocare a credere alla leggenda dello Yeti delle Nevi. Ma se poi ritorna la voglia di comunicare facendosi capire, beh allora il gioco si fa più difficile.
In cima all'Everest non c'è nessun mostro, quelli stanno nelle foreste. C'è la nudità dell'emozione: massima, limpida, scottante e gelida. Quella che vuole prima di tutto essere vista, riconosciuta. E poi magari si andrà a nascondere nella prima foresta, nei cespugli spinosi del growling o nel vortice ventoso di un blast-beat. L'Occidente si è spinto in ogni dove per rimanere impigliato comunque in una difficoltà espressiva. E' per questo che in cima alle vette si va in cerca di una nuova distillazione.
Il percorso nepalese in fin dei conti descrive quello che è ben indicato dai Novembre in “Sirens in Filth” dove dicono: “E quando la nuova stella brillerà del suo nero proprio, e non ci sarà dove ripararsi, forse capiranno chi siamo e la ragione per cui, da sempre, gridiamo”.
A cura del Dottore
(Vedi le puntate precedenti)
Partendo con l'idea di smaltire la roba più preferibile, butto in padella il brutal death metal. Dimenticare la rottura dell'imene è il terreno poetico su cui si muovono i Broken Hymen, con "Dimensions of Obliteration". Essi ci sorprendono però partendo disinvolti con un intro jazzato, per poi alternare sapientemente parti brutal ad altre più riflessive e virtuosistiche.
Rotto (per così dire…) il ghiaccio con il Nepal, ci imbattiamo nei Binaash, dietro al cui microfono milita Paperino, nei Refuse 13, bassa macelleria, e negli Ugra Karma, gente grezza ma precisa. Gli Antim Grahan “sanguinano odio” e farneticano di legioni nere, di maestà infernali e naturalmente si cagano sotto buttando lì nomi come Armageddon, ma poi musicalmente sono per lo più death metal.
Intuiamo che c'è una frangia di death metal estremo che probabilmente sposa anche i temi lirici del black, che peraltro, prima di essere del black, tali temi sono stati appunto del death metal estremo, per cui si tratta solo di tanto rumore per nulla. Musicalmente si può dire che nel complesso questo death metal (i Cruentus ad esempio) le prova un po' tutte: dal death-doom al blackened death, passando per il death melodico con voci pulite ed ariosità tastieristiche, senza però prendere mai una direzione precisa.
Ciò che si avvicina più al black metal in Nepal sono i Kalodin, che cercano di barare con del symphonic black metal. Però diciamocelo: questi nepalesi fondamentalmente non sono cattivi. E questo non è necessariamente un difetto, bensì una caratteristica evidente: gli scappa la melodia, la riflessione, smussano le asperità. E già questo aspetto si poteva intuire se si pensa che un gruppo che si fa chiamare “imene rotto” si diletta in soluzioni jazzate. Il Premio Death va comunque ai Dying Out Flame, che se non altro propongono un death roccioso, deciso ed infarcito di cantilene indo-nepalesi. Niente di trascendentale: non altro che una soluzione d'effetto, ma apprezzabile.
Ora, mano a mano che smaltisco la discografia nepalese, mi rendo conto che questa distinzione per generi non è casuale. In verità ho voluto lasciare in fondo alcuni gruppi che mi parevano, a prima impressione, più interessanti. Essi operano nell'area del metal classico e in effetti la caratura del metal nepalese aumenta mano a mano che si retrocede dalla brutalità estrema alle soluzioni thrash fino a giungere a quelle più classiche.
Il thrash metal sussiste (cosa rara) con i Bidroha, che personalmente mi ricordano i Nuclear Assault e reggono per trenta minuti buoni. Non sono l'unico esempio, ci sono anche i 72 Hours, i Disorder, i Serpent Gaze. C'è perfino chi, come gli Epitaph, riproduce un proto-thrash con ritmi accelerati, a cui però aggiunge una voce growl, in una specie di innesto anacronistico. Se per gli Epitaph, dalle soluzioni più minimali, il growl può calzare, per altri gruppi si sentirebbe il bisogno di un definitivo sganciamento da questo stile vocale, che è spesso un alibi e fa l'effetto della gramigna, ovvero fornisce una scusa, ma anche la necessità di evitare la forma canzone più canonica. Ed è anche questa la ragione per cui tutta una serie di gruppi metal-core, tipo Underside, X Mantra, Divine Influence, appaiono fondamentalmente anonimi, laddove invece dovrebbero proporre canzoni più che brani.
La migliore proposta (nascosta sotto il growl, che cresce come la gramigna ovunque) rimane quella dei Marinai Morti, che anche qui vorrebbero fare i deathster, ma al massimo suonano come Amorphis e Dark Tranquillity: perché allora, a questo punto, non adottare vocalità pulite? Oddio, a pensarci bene il growl è già un passo in avanti rispetto alla Mongolia, dove l'afonia regna sovrana.
Ad ogni modo viene da fare una riflessione: l'accostamento di melodia e voce death da noi arriva come death metal melodico, ossia come ricerca di una modalità espressiva che renda il lirismo del metal attraverso l'estremismo death, dopo che per diversi anni l'area thrash-death era stata classicamente anti-melodica. Una realtà come il Nepal, in cui il metal arriva già in veste melodica, prende il modulo già fatto così com'è, ma senza aver vissuto questa necessità. Forse il percorso che qui stanno compiendo, inconsapevolmente, è quello di tornare alle origini del metal “pulito”, come l'animale che torna fuori dalla tana dopo l'inverno.
I Vhumi, per esempio, hanno già messo il pelo nuovo, assumendo una forma chiaramente classic metal, eppure stanno ancora attaccati al growling come a un ciucciotto. Finché si resta dentro il guscio del brutal, dell'inumanità o della sovrumanità dei generi estremi, si può giocare a credere alla leggenda dello Yeti delle Nevi. Ma se poi ritorna la voglia di comunicare facendosi capire, beh allora il gioco si fa più difficile.
In cima all'Everest non c'è nessun mostro, quelli stanno nelle foreste. C'è la nudità dell'emozione: massima, limpida, scottante e gelida. Quella che vuole prima di tutto essere vista, riconosciuta. E poi magari si andrà a nascondere nella prima foresta, nei cespugli spinosi del growling o nel vortice ventoso di un blast-beat. L'Occidente si è spinto in ogni dove per rimanere impigliato comunque in una difficoltà espressiva. E' per questo che in cima alle vette si va in cerca di una nuova distillazione.
Il percorso nepalese in fin dei conti descrive quello che è ben indicato dai Novembre in “Sirens in Filth” dove dicono: “E quando la nuova stella brillerà del suo nero proprio, e non ci sarà dove ripararsi, forse capiranno chi siamo e la ragione per cui, da sempre, gridiamo”.
A cura del Dottore
(Vedi le puntate precedenti)