Non è semplice costruire una carriera solista quando il proprio nome è associato a quello di una band leggendaria, forse la più leggendaria di tutte nel metal. Nel caso di Bruce Dickinson possiamo dire che l’impresa è riuscita, complice la fase di fiacca vissuta dagli Iron Maiden durante la sua assenza. Ma non è stato un cammino facile per il buon Bruce, comprensibilmente impegnato a combattere gli ostacoli che un tale processo di emancipazione può porre lungo il tragitto. Andiamo a ripercorrere insieme questa strenue battaglia interiore, fra lotta ai pregiudizi, fantasmi interiori e urgenza di espressione…
“Tatooed Millionaire” (1990)
Nel maggio del 1990 usciva il primo album vergato Bruce Dickinson, ancora saldamente nell’organico degli Iron Maiden. Proprio perché non vi erano avvisaglie di separazione, l’album appariva come un semplice sfogo in direzione hard-rock che il cantante desiderava concedersi al di fuori del regime autoritario di Steve Harris. Tale era la sudditanza verso i doveri della Vergine, che “Bring your Daughter... to the Slaughter”, che originariamente doveva presenziare nell'esordio solista, finì nella scaletta di “No Prayer for the Dying” per volere di Sua Maestà Steve Harris. Ma quello che poi sarebbe divenuto uno dei singoli portanti dell’ultimo (deludente) album dei Maiden, non avrebbe in ogni caso rialzato più di tanto le quotazioni di una raccolta di canzonette dall’urticante attitudine stradaiola che, fra AC/DC ed Aerosmith, non cercavano altro che il ritornello ruffiano e il riff facile facile (da menzionare il fatto che alle sei corde operava Jenick Gers, il quale sarebbe presto entrato nella squadra degli Iron per sostituire il dimissionario Adrian Smith). Si apprezza la volontà di discostarsi in qualche modo dalla band madre, ma alla fine della fiera l’episodio che più convince è proprio il brano più maideniano di tutti: l’opener “Son of a Gun”.
Voto: 6
“Balls to Picasso” (1994)
“Balls to Picasso” è da considerare il vero primo album solista di Bruce Dickinson, in quanto concepito con la consapevolezza di non far più parte degli Iron Maiden. Una condizione che crea incertezze da un lato e voglia di osare dall’altro: il risultato è un lavoro eterogeneo, coraggioso a tratti, ma che il più delle volte non va a segno, perseverando in sonorità morbide e spesso orecchiabili. Fra spunti funky e persino qualche guizzo latino, il canovaccio rimane quello dell’hard-rock, benedetto di tanto in tanto da rigurgiti sabbathiani. Alle sei corde troneggia il chitarrista/produttore Roy Z, che in futuro si confermerà un valido compagno di viaggio, ma a questo giro non sembra essere in grado di catalizzare le migliori energie del cantante. E’ brutto dirlo, ma più Dickinson si allontana dalle sonorità maideniane, e meno convince. E guarda caso, a brillare è “Tears of the Dragon”, vero capolavoro dell’album e forse della sua intera produzione solista: un brano epico che mette in primo piano le straordinarie capacità interpretative del vocalist, anticipando di fatto il suo talento straordinario nel comporre ballad (talento stranamente sfruttato di rado dagli Iron): un colpo di reni che fa fruttare qualche punticino in più ad un’operazione nel complesso deludente.
Voto: 6,5
“Skunkworks” (1996)
Non pago del mancato successo di “Balls to Picasso”, Bruce Dickison mette in fila un paio di scelte decisamente poco azzeccate. La prima fu di reclutare una nuova formazione e di ri-registrare i brani dei due primi lavori (usciva così nel 1995 l’inutile “Alive in Studio A”), insistendo su un canzoniere per niente brillante. La seconda fu di confermare quella stessa formazione (che avrebbe dovuto costituire una band vera e propria, gli Skunkworks appunto) per cimentarsi con l’universo dell’alternative rock. C’è da precisare che la scelta non fu dettata da motivi commerciali, ma dall’ostinazione, quasi patologica, del cantante nel volersi allontanare il più possibile dalle sonorità della ex band. E non a caso furono perduti tutti i fan della prima ora. Ma al di là dei pregiudizi (certo che fa specie sentire Dickinson che canta su pezzi simil-grunge), è l’insensatezza dell’operazione a non essere comprensibile, con brani assai brevi, appena abbozzati nei loro “sperimentalismi”, che sacrificano inevitabilmente la drammaticità, l’estro teatrale e il carattere epico del cantante: insomma, i suoi reali punti di forza. La domanda rimane pertanto unica e senza risposta: perché Bruce?
Voto: 5
“Accident of Birth” (1997)
La copertina con un pupazzo simil-Eddie farebbe a questo punto presagire il peggio, ossia che il Nostro si sia messo a raschiare il fondo cercando di recuperare in qualche modo la vecchia fan-base. Questa era la considerazione di cui Bruce godeva all’epoca, dopo le molte malefatte, ma anche il fan più deluso si sarebbe dovuto ricredere innanzi ad un’opera che riportava il Nostro ai fasti dei migliori album degli Iron Maiden. Il reclutamento dell’ex ascia degli Iron, nonché amico di vecchia data, Adrian Smith ha di certo inciso, ma in verità tutto funziona in questo album piacevolmente sospeso fra heavy metal maideniano, spunti prog ed immancabili influssi sabbathiani, baciato dalla produzione granitica di Roy Z, anch’esso alla chitarra. Ma è la sostanza a convincere, ossia dodici brani tutti decisamente riusciti, che si tratti di fucilate heavy metal (la title-track, “The Magician”), di brani più complessi e dall'andamento imprevedibile (“Taking the Queen”, “Darkside of Aquarius”, “Omega”) o di bellissime ballad (“Man of Sorrows”, “Arc of Space”). Bentornato Bruce!
Voto: 8
“The Chemical Wedding” (1998)
Squadra che vince non si cambia, ed ecco che la formula inaugurata con l’album precedente viene qui persino migliorata. L’album è una sorta di concept sulle opere, pittoriche e letterarie, del poeta inglese William Blake (da sottolineare la bellissima copertina) e di conseguenza le ambientazioni si fanno ulteriormente più cupe e dure. In certi frangenti si viaggia al limite del thrash, con qualche modernismo gettato qua e là a svecchiare il tutto (da non escludere l’influenza dei Nervermore, che all’epoca vivevano i loro momento migliore). I brani continuano a pescare dal repertorio maideniano (al limite del plagio qualche giro di basso) come da quello di Iommi e soci, ma il sound dickinsonaiano è oramai perfettamente rodato e riconoscibile. C’è chi, a questo punto, preferirà la sua produzione a quella dei coevi Iron, che nello stesso periodo stavano giungendo al capolinea della loro avventura con Blaze Bayley, toccando il fondo della loro parabola discendente con il fallimentare “Virtual XI”. Insomma, dopo tanto affannarsi, la rivincita sarebbe passata non dalla fuga dall’heavy metal, ma dalla consapevolezza di esserne un protagonista. In questo capolavoro dal mood oscuro e fantastico, pervaso da testi bellissimi, tutto è perfettamente al suo posto: dalla terremotante opener “King in Crimson” alle sublimi title-track e "The Tower", dalla lunga ed epica “Book of Thel” all’accoppiata di ballate “Gates of Urizen” e “Jerusalem” (la prima tesa e drammatica, la seconda ravvivata da umori folkish), per finire in bellezza con la conclusiva “The Alchemist” che riprende nel finale il ritornello (da lacrime) della title-track. Standing ovation.
Voto: 8,5
“Tyranny of Souls” (2005)
A celebrare il momento d’oro sarebbe uscito nel 1999 il bel live “Scream for me Brazil” (senza clasici degli Iron) e nel 2001 l’operazione “The Best of Bruce Dickinson”, fra antologia e rarità. Nel frattempo Dickinson era rientrato in pianta stabile negli Iron Maiden e il suo ritorno in studio in veste di solista avviene con rilassatezza e piena fiducia nelle proprie forze. “Tyranny of Souls” riprende quindi lo schema vincente dei due album precedenti, forse peccando, questa volta, di manierismo. Con un pizzico di power metal che porta con sé Roy Z, reduce dalla produzione dell’Halford solista e dei Judas riuniti. Se il sound è decisamente in palla e gli arrangiamenti perfetti, è la scrittura a rivelarsi un po’ indulgente verso sentieri già percorsi, con ritornelli non sempre all’altezza del personaggio in questione. Ad ogni modo rimane un bel sentire, con Roy Z e Adrian Smith che imperversano con riff rocciosi, assoli al cardiopalma e, of course, refrain chitarristici di marca maideniana. Se con brani come “Abduction” e “Soul Intruders” si preme sull’acceleratore (da sottolineare l’uso della doppia cassa sulla seconda), i momenti più entusiasmanti rimangono quelli più riflessivi, come l’epico mid-tempo “Kill Devil Hill” e la power-ballad “River of no Return”. A rimarcare il talento innato del cantante per le ballate, segnaliamo la pinkfloydiana “Eternal”, presente tuttavia nella sola edizione giapponese.
Voto: 7,5
Ad oggi “Tyranny of Soul” rimane l’ultima testimonianza solista di Dickinson, il quale sembra invece più che mai appagato dal suo ruolo negli Iron Maiden. Dal suo rientro nella band (in compagnia del fido Adrian Smith), pare che il Nostro abbia conquistato uno status di maggiore influenza nella direzione artistica della Vergine, grazie ovviamente al successo della sua carriera in solitaria. Egli gode certamente di una maggiore libertà di espressione che in passato, e gli album dei Maiden indubbiamente ne risentono in senso positivo: si pensi alla superba suite di quasi venti minuti “Empire of the Clouds”, fiore all’occhiello di quel “Book of Souls” che ha decisamente rialzato le quotazioni della band, dopo una serie di passi incerti. Se dunque stralci della visione artistica di Dickinson emergono nella produzione discografica dei Maiden, un suo rientro in studio senza Harris e compagni non ci dispiacerebbe affatto: la nostra speranza è che egli possa deliziarci presto con ulteriori opere bellissime quali sono state quelle della seconda parte della sua carriera…
Playlist essenziale:
“Son of a Gun” (“Tatooed Millionarie”, 1990)
“Tears of the Dragon” (“Balls to Picasso”, 1994)
“Back from the Edge” (“Skunkworks”, 1996)
"Dark Side of Aquarius" ("Accident of Birth", 1997)
"Dark Side of Aquarius" ("Accident of Birth", 1997)
“Man of Sorrows” (“Accident of Birth”, 1997)
“The Chemical Wedding” (“Chemical Wedding”, 1998)
"The Tower" (Chemical Wedding", 1998)
"The Tower" (Chemical Wedding", 1998)
“Book of Thel” (“Chemical Wedding”, 1998)
“Kill Devil Hill” (“Tyranny of Souls”, 2005)
“Eternal” (“Tyranny of Souls” - Japanese Edition, 2005)