Nona puntata: NON
La presente rassegna è nata anche con l’intento di offrire un contributo complementare alla nostra dissertazione sul folk apocalittico, i cui stilemi - abbiamo visto - furono forgiati in compagnia di fervide menti del movimento industriale.
Due, in particolare, furono gli artisti che si rivelarono influenti sul fronte del neo-folk. Uno fu Steven Stapleton, titolare del progetto Nurse with Wound, nonché collaboratore assiduo dei Current 93: il suo operato, in particolare, sarebbe stato determinante nello sviluppo del filone ritual-industrial. L’altro fu Boyd Rice, non a caso già incontrato nella trattazione dell’operazione “Music, Martinis and Misanthropy” (firmata Boyd Rice and Friends) e spesso ritrovato come ospite/collaboratore negli album dei Death in June dell’amico Douglas Pearce: una fruttuosa collaborazione che avrebbe concorso a supportare l’ascesa del martial- industrial.
Due, in particolare, furono gli artisti che si rivelarono influenti sul fronte del neo-folk. Uno fu Steven Stapleton, titolare del progetto Nurse with Wound, nonché collaboratore assiduo dei Current 93: il suo operato, in particolare, sarebbe stato determinante nello sviluppo del filone ritual-industrial. L’altro fu Boyd Rice, non a caso già incontrato nella trattazione dell’operazione “Music, Martinis and Misanthropy” (firmata Boyd Rice and Friends) e spesso ritrovato come ospite/collaboratore negli album dei Death in June dell’amico Douglas Pearce: una fruttuosa collaborazione che avrebbe concorso a supportare l’ascesa del martial- industrial.
Oggi tuttavia tratteremo Rice per il suo progetto principale, quello per cui si è fatto conoscere come pioniere dell’harsh noise più intransigente: i NON.
La sua storia parte da lontano, dalla seconda metà degli anni settanta per l'esattezza, facendosi apprezzare come sperimentatore del rumore radicale, sebbene presto il suo estremismo ideologico lo avrebbe estromesso dai salotti della “musica bene” e ghettizzato definitamente come artista scomodo e persona poco gradita in generale. Fra i capisaldi della sua discografia figurano il famigerato debutto senza titolo del 1976 (poi ribattezzato The Black Album) e “Blood and Flame” del 1985: autentiche sinfonie del rumore al servizio dei dettami filosofici del darwinismo sociale.
Come già visto in precedenza, il darwinismo sociale è l’applicazione della teoria della selezione naturale di Charles Darwin alle dinamiche sociali ad alla Storia, riletta come una sequela impietosa di delitti, guerre, eccidi, genocidi. Secondo questa visione il prevalere del più forte sul più debole diviene una conseguenza inevitabile della natura umana: una dinamica di violenza e morte che si muove al di fuori di ogni considerazione etica o morale. E il terrorismo sonoro di Rice, basato sulla manipolazione/sovra-incisione di nastri e sull’utilizzo di strumentazione rigorosamente vintage (giradischi, apparecchiature analogiche, strumenti veri e propri ecc.), ne è la traduzione in termini “acustici”: una forma di avanguardia oltranzista volta ad esprimere proprio quell’energia primordiale slegata da ogni inibizione quale è quella presente nel nucleo primigenio della natura dell’uomo, dio e bestia insieme. Eccoci dunque giunti a “God & Beast”, anno 1997:
“In un senso prometeico l’uomo può essere considerato un Dio, ma ad un livello più profondo l’uomo è una bestia.”
Questa contraddizione - continua Rice nelle note del booklet interno - ha plasmato la storia dell’uomo e per innumerevoli secoli questi due aspetti hanno combattuto ferocemente.
“Tuttavia esiste un posto dimenticato nell’anima in cui Dio e bestia convivono. Per accedere a questo posto è necessario assistere alla morte di un mondo ed alla nascita di un altro...venite con me.”
Su questi presupposti va a basarsi la perlustrazione, sonica e filosofica, di “God & Beast”, autentico punto di arrivo di un percorso iniziato venti anni prima e da noi scelto come oggetto di dissertazione per le sue implicazioni con l’universo post-industriale, visto che l'opera poggia un piede sulla sponda dell'industrial esoterico e l'altro su quella del martial-industrial.
Inutile ricordare che in ogni suo passaggio il lavoro porterà impresso il marchio inconfondibile dell’artista americano. Del resto il Nostro ha sempre condotto la sua crociata con coerenza (se non con vera e propria ostinazione). Una visione artistica, la sua, fatta di poche idee, ma innegabilmente originali e per questo immediatamente riconoscibili: i suoni processati e ripetuti in loop, i droni vorticosi, il turbinio di molecole sonore che fanno da scenografia ai mantra guerrafondai recitati con ferma convinzione. Tutto questo, ancora una volta, lo troveremo in “God & Beast”.
A mutare, piuttosto, è il fatto che la valenza concettuale dell’operazione si traduce in suoni meno cruenti del solito: "God & Beast" è un album più meditato, più armonico oseremmo dire, dove i brani scivolano l’uno nell’altro disponendosi come immagini sfocate di un viaggio onirico dai contorni misticheggianti. Le tracce, più che intente a creare atmosfera, sono portatrici di una tensione interna che va a generare un insopportabile stato di allerta: come se, da un momento all’altro, dovesse manifestarsi qualcosa di orribile e terribilmente violento. Ma inevitabile, tragicamente necessario.
Lo si capisce subito dall’accoppiata iniziale costituta dalla title-track e da “Between Venus & Mars” (dieci minuti in tutto!) che aprono l’album all’insegna di un’ipnosi catartica che, fra l’eco di urla demoniache e il ribollire sottocutaneo di tamburi di guerra, si svilupperà in un crescendo vertiginoso, ma senza sfociare in quel noise letale per cui progetto ed artista sono conosciuti.
Determinanti nel conferire quest’aura mistica, impalpabile, metafisica all’arte selvaggia di Rice risulteranno i contributi di ospiti eccellenti quali lo stesso Douglas Pearce (il cui crooning autorevole, in “Millstones”, si fa largo fra inquietanti cori gregoriani) e Rose McDowall, collaboratrice a più riprese di Death in June e Current 93 (le sue stralunate nenie infantili faranno da sfondo a “The Law” e “Lucifer, The Morning Star”). Il legame con il folk apocalittico dei Death in June, del resto, diviene esplicito in una foto del libretto dove campeggia, sul muro, un poster del Totenkopf, mascotte della Morte in Giugno.
Ad ascolto ultimato, tuttavia, diverrà lampante come l’intera opera sia stata costruita per trovare sfogo, musicalmente e concettualmente, in “Total War”, anthemica ultima traccia, nonché brano-capolavoro del disco e forse dell’intera carriera del Nostro.
La “rincorsa finale” prende piede dalla anomala “Out Out Out”, sorta di techno demenziale e dall’andamento singhiozzante. Ma ecco l’interludio ambient di “Phoenix” a rimettere le cose a posto, preparandoci allo scontro finale, alla resa dei conti, all'irrompere assordante delle sirene anti-raid e all’esplodere delle percussioni militari di “Total War”, incalzata dalle grida bestiali di Rice che ripete allo sfinimento
“Do you want
total war?
Yes you want
total war!
Total war!”
Semplice quanto efficace, il brano-simbolo del Rice declamatore (il Nostro ci riproverà qualche anno più tardi con la superba “Fire Shall Come” - traccia-bomba di “Wolf Pact", frutto dell’esperienza Boyd Rice and Fiends) è un clamoroso pugno in faccia all’ascoltatore, premio di consolazione dopo una sessione di ascolto non proprio accomodante.
Com’era successo dieci anni prima in “Fire in the Organism” (devastante opener di “Blood and Flame”), dove gli strappi di una elettronica claudicante acceleravano nel finale per poi condurre alla “distensione” del caos di armi da fuoco, mitragliatici, bombe (la guerra vista come orgasmo), anche in “God & Beast”, più omogeneo e concettualmente raffinato, l’idea dell’espressione della forza bruta viene vista come il gesto liberatorio di un’umanità bestiale che si svincola dalle maglie stringenti delle imposizioni della convivenza civile. La guerra come igiene del mondo: corollario inevitabile di una visione del mondo pessimista e ferocemente misantropica.
Boyd Rice non è un artista per tutti i gusti, ma è innegabile che abbia saputo fornire un importante contributo sia alla musica industriale che all’universo del folk apocalittico. Con “God & Beast” è riuscito a raggiungere un equilibrio soddisfacente fra caos e comunicazione, fra l’oltranzismo della sua arte e le esigenze di un percorso concettuale che, come in un transfert, doveva condurre l’ascoltatore in quel luogo dimenticato dell’anima dove la natura divina e quella bestiale dell’uomo coesistono.
Avanti, fatevi sotto!
Discografia essenziale:
The Black Album (1976)
“Blood and Flame” (1985)
"In the Shadow of the Sword" (1992)
“Might!” (1995)
“God & Beast” (1997)
“Children of the Black Sun” (2002)
"Back to Mono" (2012)