Eterno rispetto per i Voivod: una band così originale da divenire inimitabile; una formazione che ha dato sempre il massimo senza mai raccogliere, in termini di vendite, quanto propriamente meritato; una squadra che ha sempre saputo superare le mille peripezie e le perdite più pesanti (l’ultima, la più gravosa: la morte di Denis “Piggy” D’Amour) senza mai smarrire l'entusiasmo, la passione e l'integrità artistica.
Rispetto profondamente i Voivod, che ho seguito con passione per molti anni, ma la morte di Denis D'Amour è stato un evento troppo traumatico da sopportare per poterli continuare a supportare attivamente. "Katorz", "Infini", "Target Earth" sono album che non mi hanno mai convinto e che, devo ammettere, non ho approfondito neppure più di tanto, in quanto per me i Voivod erano morti e sepolti con il loro chitarrista storico. Problema mio.
Qualche giorno fa, tuttavia, incuriosito dalle recensioni entusiastiche ricevute dal nuovo "The Wake", mi sono soffermato seriamente sulla figura di Daniel Mongrain, il nuovo chitarrista. Non giovane, occhiali, capelli sfibrati, pappagorgia, aspetto da professore buontempone: insomma, il perfetto sfigato che può presenziare con onore fra le file dei Voivod! Con il nuovo album ho anche avuto modo di apprezzare il suo stile chitarristico: Mongrain non si discosta molto dal suo predecessore, preservando al 100% il Voivod-sound, ma laddove necessario, e nei limiti del consentito, è in grado di apportare un suo tocco personale, che io definirei jazz/fusion. Mi son dunque chiesto: se i Voivod hanno senso anche senza Piggy, perché non andarli a vedere dal vivo?
Qualche giorno fa, tuttavia, incuriosito dalle recensioni entusiastiche ricevute dal nuovo "The Wake", mi sono soffermato seriamente sulla figura di Daniel Mongrain, il nuovo chitarrista. Non giovane, occhiali, capelli sfibrati, pappagorgia, aspetto da professore buontempone: insomma, il perfetto sfigato che può presenziare con onore fra le file dei Voivod! Con il nuovo album ho anche avuto modo di apprezzare il suo stile chitarristico: Mongrain non si discosta molto dal suo predecessore, preservando al 100% il Voivod-sound, ma laddove necessario, e nei limiti del consentito, è in grado di apportare un suo tocco personale, che io definirei jazz/fusion. Mi son dunque chiesto: se i Voivod hanno senso anche senza Piggy, perché non andarli a vedere dal vivo?
Di fatto avrebbero suonato domenica 7 ottobre nella città in cui vivo, prezzo del biglietto e location a portata di mano, ma qualcosa mi zavorrava, mi tratteneva dal recarmi al concerto. Ho provato a farmi coraggio sbirciando la scaletta delle date appena precedenti: una selezione di brani che pescava da tutta la produzione discografica con Denis Bélanger dietro al microfono, compresi episodi che credevo finiti in soffitta come "Angel Rat" e "The Outer Limits", detto per inciso, i miei album preferiti della band. Sofismi, visto che la presenza di un brano piuttosto di un altro, in generale, non è che possa comportare una grande differenza per il sottoscritto: per quanto riguarda i Voivod, infatti, raramente riesco ad associare un titolo ad una canzone specifica, in quanto ascoltando i loro album non mi sono mai preoccupato più di tanto di delimitare i confini dei singoli brani (salvo ovviamente casi eclatanti come “Astronomy Domine” o “Jack Luminous”). Poco male: avrei vissuto il concerto apprezzando i vari passaggi in un continuo e miracoloso risveglio neuronale (ah, questo me lo ricordo! Ah, anche questo me lo ricordo!), per poi sghignazzare dalla soddisfazione scorgendo, di tanto in tanto, il ciuffo bianco di Michel Langevin dietro ai piatti.
Per pura coincidenza, inoltre, nel pomeriggio mi ero ritrovato ad una mostra (“Strange Days”) in cui venivano proiettati video che, in modi diversi, avevano come oggetto la presenza del futuro nel presente, con forti connessioni al tema della tecnologia. Quale migliore antipasto per farsi venire voglia di Voivod?
E invece nulla: sono tornato a casa, ho cenato, ho visto una puntata di una serie TV e sono andato a letto. Colpa probabilmente della domenica sera, che non è mai foriera di grandi energie positive. Il fatto è che i Voivod non sono per tutti i momenti: o ti ci vanno o non ti ci vanno. E non è detto che ti ci vadano proprio la sera in cui si trovano nella tua città per suonare. Proprio in quei momenti di sconforto, in cui non hai il mal di testa ma desideri il silenzio, pensi a quella melassa cacofonica martellante che potrebbero essere i Voivod dal vivo, ed allora abdichi (come biasimarti!). Ma in fondo è stato un peccato rinunciare, perché più ascolto "The Wake" e più mi piace.
Superato il classico primo ascolto in cui non capisci nulla, l'opera cresce, prima trainato dai dettagli più evidenti (inediti inserti sinfonici, guizzi vocali degni di nota), poi portato in trionfo dalle canzoni stesse. Come non citare, per esempio, l'opener "Obsolete Things" ed "Iconspiracy"? La prima è percorsa da sublimi dissonanze ed è illuminata da un assolo che mette in luce tutta la classe e tutto il talento melodico di Mongrain; la seconda, invece, si fregia di una sorprendente incursione di archi calata nel bel mezzo di una di quelle galoppate cosmiche a cui i Nostri ci hanno abituati da tempo immemore. Brani, questi, che possono rivaleggiare serenamente con i classici del passato, a rimarcare la freschezza del song-writing profuso in questa nuova fatica discografica. Ma sono solo due esempi, perché tutte le tracce di questo strabiliante concept (a sfondo ovviamente apocalittico) sono strabilianti scrigni di idee che trovano la piena codificazione da parte dell'ascoltatore solo dopo ripetuti passaggi nello stereo.
Un discorso come quest'ultimo, del resto, si può leggere in tutte le recensioni di tutti gli album dei Voivod, ma questa volta sento che c'è qualcosa di diverso, sento che i canadesi ce l'hanno fatta ancora una volta. E forse per loro questa è stata la sfida più difficile: far capire che possono andare avanti senza Piggy. E per convincerci c'era bisogno di un capolavoro.
Ogni cambiamento, del resto, necessita di tempo per essere adeguatamente metabolizzato, non solo dai fan, ma anche dai musicisti stessi. Se "Phobos", dopo il rodaggio compiuto con "Negatron", fu il capolavoro che spiegò al mondo che la navicella poteva volare anche senza la voce di Snake, la stessa cosa fa oggi "The Wake", dopo "Target Earth" e l'EP "Post Society", per quanto riguarda l'avvicendamento avvenuto dietro alle sei corde. In entrambi i casi è accaduto il miracolo: sostituire l'insostituibile.
Ecco dunque che i Nostri, quando oramai li davi per spacciati, alzano la testa ancora una volta in un risveglio di creatività, ispirazione ed auto-affermazione che non ti aspetti da una band che potrebbe campare di rendita. Il valore aggiunto di questo ultimo album sta nella grandissima coesione dei musicisti, ricostituitosi ancora una volta (l'ennesima) in una squadra vincente. Langevin si lancia nelle trame più complicate senza perdere il gusto per la velocità (anzi, mi pare che vada più veloce del solito); Mongrain, da parte sua, si mostra a suo agio più che mai, elargendo preziosismi come Babbo Natale alla vigilia. Bélanger, infine, non sbaglia praticamente nulla, marchiando ogni singola strofa con il suo atipico canto. Menzione di merito anche per il nuovo ingresso alle quattro corde Dominique Laroque, il cui solido basso si amalgama alla perfezione con il suono stra-collaudato della band: un melting pot in cui ti puoi imbattere, senza rendertene conto, in passaggi à la King Crimson, groove d'assalto in stile Killing Joke, punk, metal classico, sognante psichedelia, invenzioni melodiche di derivazione jazz/fusion e tanto tanto tanto cyber thrash metal voivodiano.
Il risultato, inutile dirlo, è eccellente ed innalza l'astronave Voivod presso le altitudini siderali di capolavori quali "Dimension Hatross" e "Nothingface" (fisiologico, oramai, guardare in quella direzione), senza però disdegnare quelle frivolezze che ci avevano fatto amare lavori vivaci ed "orecchiabili" come "Angel Rat" e "The Outer Limits". Mescolando ancora una volta le carte, con qualche novità non eclatante buttata qua e là, "The Wake" rappresenta il raggiungimento del perfetto equilibrio fra complessità ed immediatezza (ossimoro fra i tanti ossimori che compongono la musica della formazione canadese) e, indubbiamente, il momento più alto degli ultimi cinque lustri di carriera. E non è poco per una band che con questo tour festeggiava i trentacinquesimo compleanno...
Peccato non aver festeggiato insieme a loro (maledetta domenica!)...
Superato il classico primo ascolto in cui non capisci nulla, l'opera cresce, prima trainato dai dettagli più evidenti (inediti inserti sinfonici, guizzi vocali degni di nota), poi portato in trionfo dalle canzoni stesse. Come non citare, per esempio, l'opener "Obsolete Things" ed "Iconspiracy"? La prima è percorsa da sublimi dissonanze ed è illuminata da un assolo che mette in luce tutta la classe e tutto il talento melodico di Mongrain; la seconda, invece, si fregia di una sorprendente incursione di archi calata nel bel mezzo di una di quelle galoppate cosmiche a cui i Nostri ci hanno abituati da tempo immemore. Brani, questi, che possono rivaleggiare serenamente con i classici del passato, a rimarcare la freschezza del song-writing profuso in questa nuova fatica discografica. Ma sono solo due esempi, perché tutte le tracce di questo strabiliante concept (a sfondo ovviamente apocalittico) sono strabilianti scrigni di idee che trovano la piena codificazione da parte dell'ascoltatore solo dopo ripetuti passaggi nello stereo.
Un discorso come quest'ultimo, del resto, si può leggere in tutte le recensioni di tutti gli album dei Voivod, ma questa volta sento che c'è qualcosa di diverso, sento che i canadesi ce l'hanno fatta ancora una volta. E forse per loro questa è stata la sfida più difficile: far capire che possono andare avanti senza Piggy. E per convincerci c'era bisogno di un capolavoro.
Ogni cambiamento, del resto, necessita di tempo per essere adeguatamente metabolizzato, non solo dai fan, ma anche dai musicisti stessi. Se "Phobos", dopo il rodaggio compiuto con "Negatron", fu il capolavoro che spiegò al mondo che la navicella poteva volare anche senza la voce di Snake, la stessa cosa fa oggi "The Wake", dopo "Target Earth" e l'EP "Post Society", per quanto riguarda l'avvicendamento avvenuto dietro alle sei corde. In entrambi i casi è accaduto il miracolo: sostituire l'insostituibile.
Ecco dunque che i Nostri, quando oramai li davi per spacciati, alzano la testa ancora una volta in un risveglio di creatività, ispirazione ed auto-affermazione che non ti aspetti da una band che potrebbe campare di rendita. Il valore aggiunto di questo ultimo album sta nella grandissima coesione dei musicisti, ricostituitosi ancora una volta (l'ennesima) in una squadra vincente. Langevin si lancia nelle trame più complicate senza perdere il gusto per la velocità (anzi, mi pare che vada più veloce del solito); Mongrain, da parte sua, si mostra a suo agio più che mai, elargendo preziosismi come Babbo Natale alla vigilia. Bélanger, infine, non sbaglia praticamente nulla, marchiando ogni singola strofa con il suo atipico canto. Menzione di merito anche per il nuovo ingresso alle quattro corde Dominique Laroque, il cui solido basso si amalgama alla perfezione con il suono stra-collaudato della band: un melting pot in cui ti puoi imbattere, senza rendertene conto, in passaggi à la King Crimson, groove d'assalto in stile Killing Joke, punk, metal classico, sognante psichedelia, invenzioni melodiche di derivazione jazz/fusion e tanto tanto tanto cyber thrash metal voivodiano.
Il risultato, inutile dirlo, è eccellente ed innalza l'astronave Voivod presso le altitudini siderali di capolavori quali "Dimension Hatross" e "Nothingface" (fisiologico, oramai, guardare in quella direzione), senza però disdegnare quelle frivolezze che ci avevano fatto amare lavori vivaci ed "orecchiabili" come "Angel Rat" e "The Outer Limits". Mescolando ancora una volta le carte, con qualche novità non eclatante buttata qua e là, "The Wake" rappresenta il raggiungimento del perfetto equilibrio fra complessità ed immediatezza (ossimoro fra i tanti ossimori che compongono la musica della formazione canadese) e, indubbiamente, il momento più alto degli ultimi cinque lustri di carriera. E non è poco per una band che con questo tour festeggiava i trentacinquesimo compleanno...
Peccato non aver festeggiato insieme a loro (maledetta domenica!)...