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11 ott 2018

I MIGLIORI DIECI BRANI DEGLI IRON MAIDEN DAL 1990 AD OGGI - PARTE SECONDA: DA "BRAVE NEW WORLD" A "THE BOOK OF SOULS"


Anno 2000: esce “Brave New World”. L’album, spasmodicamente atteso dall’intero mondo metallico, vedeva nuovamente Bruce Dickinson dietro il microfono, dopo l’esperienza non esaltante dei due lavori con Blaze Bayley, che in realtà non avevano altro che confermato una fase discendente già avviata da “No Prayer for the Dying” e poi proseguita con “Fear of the Dark”. 

Dickinson rientrava in organico forte del successo delle sue prove soliste. Nel "pacchetto" inoltre c’era pure il mai dimenticato Adrian Smith, che avrebbe affiancato le altre due asce, Dave Murray e Janick Gers, in un inedito quanto insolito assetto a tre chitarre: insomma, gli ingredienti per un ritorno in grande stile c’erano tutti, ma purtroppo, per quanto riguarda qualità ed ispirazione, il prodotto in questione non fu all’altezza delle aspettative, come del resto i lavori successivi. Andiamo dunque a capire cosa è accaduto in questi ultimi (quasi) venti anni, svelando i titoli degli altri sei brani che abbiamo selezionato per descrivere le gesta della Vergine nel nuovo millennio! 

“Ghost of the Navigator” (da “Brave New World", 2000) 
Il sospirato album della reunion si apriva con “The Wicker Man”, un singolo un po’ scialbetto che tuttavia non raffreddò l’entusiasmo della maggior parte dei fan, ancora disposti a sperare nel miracolo. Ma ad ascolto ultimato "Brave New World” si rivelò un album appena più che sufficiente, sicuramente il migliore da molto tempo, ma nel complesso, ahimè, niente di straordinario. Fra i pochi episodi sopra la media c’era “Ghost of the Navigator” che, fin dal titolo, richiamava gli Iron Maiden nelle vesti fantasy-marinaresche che tutti noi avevamo amato nella mitica (ed insuperabile) ”Rime of the Ancient Mariner”. Arpeggio iniziale (classico quanto vuoi, ma che bellezza!), incedere roccioso fra continui cambi di strofe, bridge ad effetto e finalmente uno di quei ritornelli che solo Bruce Dickinson può regalare: il brano ovviamente non offriva niente di nuovo, ma il ritorno a quanto di più idealtipico gli Iron potessero incarnare era già motivo di gioia per il fan che non desideravano altro che lasciarsi alle spalle le delusioni degli album precedenti. 

“Blood Brothers” (da “Brave New World”, 2000) 
Abbiamo scelto un secondo brano da “Brave New World”, non perché lo riteniamo il migliore del nuovo corso della band, ma solo per il fatto che, dovendo pescare dieci brani su nove full-lenght, il “doppione” doveva per forza scapparci. D'altra parte non potevamo fare a meno della amatissima (sia dal pubblico che dalla band) “Blood Brothers”, divenuta nel tempo un appuntamento fisso dal vivo. Questa vivace ballata dai gradevoli umori folkish, infatti, sembra essere concepita appositamente per essere riproposta sul palco, forte di un ritornello anthemico che ispira comunione e fratellanza, ideale dunque per essere cantato in coro dal pubblico. Forse, dopo un po’, ci si rende conto che sette minuti sono troppi per le idee effettivamente espresse nel corso del brano, ma questo sarà il problema principale degli Iron post-reunion… Armatevi di pazienza, amici miei... 

"Paschendale” (da “Dance of Death”, 2003) 
Passata la bufera, ”Dance of Death” mette sul piatto, in modo schietto, quello che sono e che possono essere oramai gli Iron Maiden nel nuovo millennio: una band dal passato illustre che cerca di compensare la perdita di ispirazione con classe, mestiere ed una spiccata predilezione per i brani lunghi: prendere o lasciare. Noi decidiamo di prendere perché, messo in conto qualche filler ed una prolissità di fondo riscontrabile in tutte le tracce, la zampata vincente viene qua e là assestata. In questo caso due o tre pezzi buoni li troviamo, come la title-track, “The Paschendale” e “Sand in the Face”. Optiamo per la seconda, perché ci piace il tapping iniziale, e ci piacciono l’epico incedere delle strofe, l’enfatico ritornello (con un Dickinson come sempre sugli scudi) e gli sviluppi che permettono al brano di viaggiare senza mai inciampare per nove lunghi minuti. Ma è l’atmosfera a convincerci più di ogni altra cosa, iscrivendo “The Paschendale” nella gloriosa serie di brani degli Iron calati in scenari bellici. 

“For the Greater Good of God” (da “A Matter of Life and Death”, 2006) 
A Matter of Life and Death” consolida, e forse perfeziona, il trend avviato con i lavori appena precedenti. C’è più che altro da riconoscere ai Nostri una solidissima convinzione nel portare avanti una formula che attira critiche e non sembra andare a genio proprio a tutti: ossia brani lunghi che ripetono poche idee e piglio progressivo a rafforzare le classiche sonorità made in Maiden. Prendere o lasciare. E noi prendiamo anche questa volta, sebbene la stanchezza compositiva e il ricorso/abuso al mestiere siano una piaga che continua ad ammorbare il nuovo corso della band. Ma gli ultimi Iron, nella loro vecchiaia, sanno essere a tratti commoventi. E non è una questione di sola nostalgia, in quanto i sei vecchietti continuano a sferrare colpi di classe non indifferenti. A questo giro vince a mani basse la magnifica “For the Greater Good of God”, forse il momento migliore della produzione maideniana del nuovo millennio. Altri dieci minuti di epicità al cubo, arpeggi che più classici non si può, tastiere avvolgenti, ritmiche incalzanti, questa volta però con un pre-chorus ed un chorus che non hanno niente da invidiare al glorioso passato. Ovviamente questo non è l’unico episodio di pregio, in quanto si contano svariati altri momenti degni di essere ricordati, fra cui il singolo “The Reincarnation of Benjamin Breeg”, bel mid-tempo dal ritornello tanto prevedibile quanto efficace: del resto gli Iron sono gli Iron e dopo così tanti anni è comunque apprezzabile la professionalità con cui riescono a cucire brani articolati e finemente arrangiati. 

“When the Wild Wind Blows” (da “The Final Frontier, 2010) 
Quanto detto per l’album precedente vale ovviamente anche per questo “The Final Frontier”, animato da un concept fantascientifico, ma dalle sonorità ben poco futuriste. Il livello di song-writing rimane altalenante, con i soliti alti e bassi che caratterizzano la produzione recente della band. Qui, però, la scelta della top-song si è fatta per noi più difficile perché, se è vero che i brani meritevoli sono diversi, non ve ne è uno in particolare che spicca prepotentemente sugli altri. Ci sono molto piaciute, per esempio, “Coming Home” (ballata dalle splendide melodie che ci hanno da subito rapito il cuore) e “Starblind” (più articolata e con momenti di grande ispirazione al suo interno). Ma è un po’ tutta la seconda metà dell’opera a brillare, forte di tracce di notevole durata che ci mostrano una band compatta e focalizzata su una ricerca melodica degna della fama che la band stessa si porta dietro (“Isle of Avalon”, “The Talisman” e “The Man Who Would the King”, tanto per fare nomi). Alla fine a spuntarla è la conclusiva “When the Wild Wind Blow”, l’episodio più lungo del lotto (quasi undici minuti) che funge da perfetto compendio di quello che la band sa ancora oggi offrire: apertura e chiusura dimesse con i proverbiali arpeggi intrecciati a giri di basso, incedere heavy-rock con influenze mutuate dagli anni settanta ed una lunghissima porzione strumentale pregna di mirabolanti evoluzioni che sanno mischiare talento melodico e le sempre gradite citazioni al proprio passato. Prendere o lasciare

“Empire of the Clouds” (da "The Book of Souls", 2015) 
Eccoci dunque al monumento dell’arroganza degli Iron Maiden: criticati sistematicamente per la prolissità delle loro composizioni, Steve Harris e soci se ne escono con un doppio-album dove il minutaggio medio dei brani supera ogni ragionevole timore, con in testa i tredici minuti di “The Red and the Black” (emozionante nelle sue evoluzioni centrali, ma rovinata da un ritornello da stadio che più banale non si può) e i diciotto di “Empire of the Clouds”: una suite che ci regala momenti memorabili come non se ne sentiva da tempo. Il bello è che, a questo giro, non si percepisce un asfissiante senso di deja-vu: "Empire of the Clouds", infatti, finisce per suonare tanto classica quanto diversa, forse perché Dickinson, autore del brano, vi riversa dentro molto della sua esperienza solista. Ai sette iniziali minuti di voce e pianoforte segue una maratona maideniana che non trova eguali quanto a drammaticità (il testo narra del tragico volo inaugurale del dirigibile britannico R101, che costò la vita a quarantotto passeggeri). Ma a colpire più di ogni altra cosa è la capacità di descrivere emozioni forti e contrastanti: prima la bellezza del volare e poi l’inferno del precipitare, in un tour de force che ha dell'eroico, una decina di minuti in cui accade un po’ di tutto, fra orchestrazioni solenni, battiti marziali, assoli nervosi ed un Bruce da lacrime che torna nel finale. 

Evitando il formato del doppio-album, sicuramente l’operazione ne avrebbe giovato, ma questi sono gli Iron 3.0, che nel “piccolo” non riescono più a colpire nel segno, mentre nell’arco di sette-dieci minuti hanno il tempo per prenderci per mano e stordirci con la zampata vincente. Sono gli Iron cantastorie che riescono nell'intento di emozionarci, non quelli del brano mordi-e-fuggi, per questo ben venga questa rinnovata ricetta prog, con tutti i suoi effetti collaterali. 

Poi dal vivo, rimangono i migliori, per questo alla fine non c’è da augurare loro la pensione, bensì una lunga vita, ovviamente sulle assi di un palcoscenico, ma anche in studio, per quei momenti di pura magia che, seppur sporadicamente, ci sanno ancora regalare…

Prendere o lasciare…