Ci ha lasciato Bernardo Bertolucci, che in molti hanno salutato con il poco fantasioso epitaffio de “L’ultimo imperatore del cinema”, in riferimento ad una delle sue opere più note, che gli è valsa l’oscar alla regia.
Quale fu il suo limite? Direi che, sostanzialmente, quello degli imperatori, un limite per cui spesso danno l’oscar, che è lo stesso limite dei Virgin Steele nel metal. Si diventa personaggi di cui non si può più parlar male, deificati, come gli “Imperatori”. E’ triste, perché mentre il re è issato sul trono in ragione di meriti concreti e chiari, l’imperatore è sempre uno scollamento dalla concretezza, come nel film di Bertolucci: lo può fare anche un bambino di tre anni, che in realtà si limita a fare il feticcio. I Virgin Steele sono ormai intoccabili perché autori di opere ambiziose, colte, che ne hanno determinato non l’investitura quali Cavalieri del Metal, ma la consacrazione imperiale, quasi al riparo preventivo da ogni critica. Il pubblico rinuncia a criticarli perché ha bisogno di un feticcio inattaccabile: si arriva al punto che perfino le recensioni arrivino tardi, in sordina e ci manca poco che saltino totalmente.
Tanto che vuoi dirgli? Come si fa a eccepire su un concept album di tema mitologico in due parti, “The House of Atreus” (1999-00)? E magari ci hanno anche messo anni per realizzarlo. Però tutti si scordano che le vere prodezze da re i Virgin le hanno fatte quando risalirono con fatica la china in un’epoca ostile, con “Life among the ruins” (1993), e con gli album del rilancio dell’epic-power vecchia maniera con i due “The Marriage of Heaven and Hell” (1994-95). Il merito di quegli album sta nell’aver saputo ricreare un metal muscoloso, drammatico e anche sufficientemente sporco a livello sonoro, con brani cazzuti quali "Blood and Gasoline", "I will come for you", ecc. Ma i Virgin ormai, storicamente, stazionano in un olimpo privo di mordente, intoccabili in quanto sommi autori di opere magniloquenti e raffinate. Quello stesso olimpo in cui galleggiano sbatacchiando tra di loro come yacht alla deriva altri grossi nomi divenuti inconcludenti, tipo i Blind Guardian.
Sono i Bertolucci del metal, gli ultimi imperatori etc, quelli che – vorrei ricordare questo dettaglio storico-giornalistico – ad un certo punto prendevano voti “fuori concorso” nelle recensioni sulle riviste, tipo 140 su 100. Spiccarono il volo e non tornarono più giù, così che potessimo continuare ad amarli o strapazzarli. Presero l’Oscar.
Sono i Bertolucci del metal, gli ultimi imperatori etc, quelli che – vorrei ricordare questo dettaglio storico-giornalistico – ad un certo punto prendevano voti “fuori concorso” nelle recensioni sulle riviste, tipo 140 su 100. Spiccarono il volo e non tornarono più giù, così che potessimo continuare ad amarli o strapazzarli. Presero l’Oscar.
Così come per Bertolucci, il loro inizio è decisamente diverso, e l’autorevolezza è fondata su ben altro che su astrazioni esistenziali o affreschi panoramici. Ad esempio Bertolucci, nella mia immaginazione, arriverà nel paradiso degli artisti, dove all’ingresso gli angeli addetti controlleranno le sue credenziali:
“Lei sarebbe Bertolucci? Per capirsi sarebbe l’autore di che cosa?”
“Beh, affreschi storico-esistenziali tipo L’ultimo Imperatore, Novecento, Piccolo Buddha…";
"Mmh, ho capito….”;
“Dai, per intenderci, è quello della scena dell’inchiappettamento col burro”
“Nooo, grande Bernardone...! Entra pure e goditi il paradiso!”.
Perché poi, a dire il vero, è quella componente sporca che “tira” interi kolossal. Come magistralmente ricordato da Tornatore nella scena dell’antologia di baci “tagliati” dalle pellicole in "Nuovo Cinema Paradiso": la gente andava al cinema sulla fiducia, e così il regista almeno “due puppe e tre culi” li faceva vedere giusto per scusarsi se il film non fosse stato di gradimento del pubblico.
E anche gli imperatori fanno così: ricordo ad esempio “Il the nel deserto”, il cui trailer, per invogliare masse ancora stordite dalla mattonata de “L’ultimo imperatore”, faceva intravedere un seno nudo. E comunque l’argomento finale per convincere i più recalcitranti era “L’Ultimo Tango l’hai visto ?”…
Poi la situazione degenera: “Io ballo da sola”, un film indisponente per i suoi richiami all’attualità politica, con una celebrazione di una ricca e annoiata schiera di personaggi intellettuali appena abbozzati, si salva solo perché fino alla fine tutti si chiedono chi si farà la protagonista. E sì, va bene, dopo quasi due ore tocca a qualcuno, ma a questo punto ci avremmo anche rinunciato. Peggio mi sento con "The Dreamers", in cui addirittura l’uomo della situazione si inserisce in un rapporto a tre con una lei e il suo gemello maschio, capovolgimento del rapporto di virilità-femminilità dell’Ultimo Tango.
Alla fine, il destino del rapporto erotico è sempre tragico (amore-morte): in Ultimo Tango, lei ammazza lui per liberarsene, perché l’amore che cresce diviene incompatibile con l’amore stesso; in Dreamers lei sfancula lui per andare avanti con le proprie priorità, perché lui è stato solo un passaggio. Nel secondo caso, la consumazione svanisce, è fittizia, scoppia come un palloncino vuoto. In Ultimo Tango invece è un paradosso carnale, una roba brutal death insomma, la carne che si ritorce contro se stessa, il cannibalismo delle emozioni. Disse il regista che a lui non interessava tanto raccontare lo sfacelo dell’uomo, ma il processo di disfacimento, che è il vero momento rivelatore: cos’è questo se non autentica poetica death, con il centro dell’interesse posto sulla decomposizione e sul seme malato che ne è alla base, più che su un’astratta e convenzionale “morte” finale?
Perché un conto è la tragicità, la mostruosità, l’incongruenza e il cortocircuito del risultato finale di qualsiasi tentativo umano di comunicazione (e quindi di incomunicabilità, come teorizza Bertolucci). Altro invece è la perplessità, la confusione, il balbettio, la scena muta. In termini musicali, un conto è macinare la materia, chitarre e batteria, creando dei passaggi preziosi come gemme estratte dalla roccia. Altro è spostare lo sguardo in alto, con l’alibi della ricerca di un linguaggio essenziale e universale, ma sostanzialmente non avendo più voglia, coraggio o magari gusto per sporcarsi le mani. E a distanza troppo alta per vedere qualsiasi gemma.
Il bello di Bertolucci era l’interesse per l’uomo come vita lanciata verso l’infinito mentre già è in decomposizione, come aborto che si veste di perfezione.
E anche i Virgin Steele partono con questa carnalità musicale, conservandola col suo sentimento tragico di amore-morte fino al Matrimonio del Paradiso e dell’Inferno. Poi, a un certo punto perdono proprio questa carnalità, e i dischi più ambiziosi si chiudono senza una vera sensazione di consumazione avvenuta. Così, io ricordo di aver ascoltato "The House of Atreus" nell’attesa un po’ frustrata di episodi turgidi, chiassosi, grezzi e maestosi. Insomma, cercavo la sporcizia preziosa dei Virgin Steele così come la gente vedeva ore di film di Bertolucci nell’attesa di una nuova scena del burro, che mai è venuta. Si arriva alla magniloquenza ancora meno sapida di “Visions of Eden”, e qui mi sento in dovere di citare una recensione di Truemetal, che vuole essere alla fine assolutoria, ma così commenta: 11 brani, molti dei quali lunghissimi, corposi, compatti che rendono questo prodotto durissimo da assimilare. Le chitarre non incidono, sono sottotono, quasi assenti. Sono lontani i ricordi delle magiche cromature chitarristiche di Age of Consent, i fraseggi epici di Noble Savage e delle scintillanti progressioni dei due Marriage non c’è traccia.
E sapete che dice DeFeis su “Visions of Eden”? Che è un disco concepito perché l’ascoltatore si immedesimi nelle atmosfere e possa gustarlo così dall’interno, più o meno. Cioè ti devi convincere che ti piace, lo indossi e dopo ti guardi allo specchio ed esprimi il tuo giudizio: un processo di gusto capovolto in maniera aberrante. Ma soprattutto incredibilmente astratto.
In Ultimo Tango bastavano due attori che somigliavano a due persone qualunque e una casa vuota, e partiva uno spunto con “magiche cromature”. Poi si passa all’Imperatore, al Deserto, al Buddha, e lì le cromature ci sono, ma sono esterne, si tratta di exploitation di scene e suggestioni già pronte, esotiche e prevedibilmente d’effetto. E alla fine spariscono proprio le cromature.
All’inizio c’era il fulgore del "Nobile Selvaggio", i grezzi “Guardiani della fiamma”, il “Folle girovago”...zampillavano di colori anche nella relativa povertà di mezzi. E dove siamo finiti? A contemplare le “visioni del paradiso”: vuote, sfumate, eteree. In cui non si tromba neanche per sbaglio, musicalmente parlando.
Come si fa a dire all’Imperatore DeFeis che manca la scena del burro? Lo potresti dire agli AC/DC, ai Motley Crue, perfino ai Manowar, che sono sempre tra noi anche per i loro riconosciuti errori e limiti; ma quando l’artista assurge al livello di qualità superiore, si è complici poi nel rinunciare agli ingredienti che rendevano saporita la minestra. E a questo punto parte il doppio gioco tra artista “laureato” e pubblico, per cui l’artista se la gioca sulla suggestione della proposta, del tipo “faccio un concept sul mito sumero di Lilith”, oppure “l’idea dell’album è che l’ascoltatore si immedesimi completamente nell’atmosfera della musica”.
Che cos’è l’arte? E’ un susseguirsi di scene del burro. Che vivono di se stesse, e poi forse vogliono dire qualcosa, ma forse ce lo inventiamo solo perché ci piacciono. Anche Bertolucci, intervistato ultimamente, dice che in fondo Ultimo Tango era una sua fantasia, una storia d’amore che si consuma da sola senza bisogno d’altro, neanche di sentimenti, e così è più vera. Quando invece l’opera deve raccontare un’idea, diventa come la trama in un film porno. Se sentite il bisogno della trama in un film porno, ascoltatevi "Visions of Eden" dei Virgin Steele. Se invece no, siete fortunati perché i Virgin Steele hanno fatto ben altro.
Ciò che mi conforta è che le persone, davanti alla perdita di un loro beniamino, alla fine vuotano il sacco e non sanno trattenere le vere emozioni. Dopo circa 24 ore di epitaffi a suon di “L’imperatore del cinema italiano”, “L’unico regista Italiano veramente internazionale”, etc… cominciano a comparire selvaggiamente, ora dopo ora, testata dopo testata, i titoli che rievocano la scena del burro, chi con goliardia, chi con sincera commozione. La carne che piange un pezzo di sé, e più ci insiste sopra, più si incupisce: Marlon Brando in Ultimo Tango.
Noi di quella carne piangiamo l’assenza, mentre scorrono le note eteree degli intoccabili del metal.
A cura del Dottore