"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

11 gen 2019

LA NEW YORK CHE NON TI ASPETTI: IMPERIAL TRIUMPHANT, "VILE LUXURY"



New York City. La vigilessa di colore obesa che dirigeva il traffico come una perfetta idiota, fischiando, gesticolando, ballando R’n’B, quasi si trovasse in un video di Janet Jackson, fra gli sguardi indifferenti dei passanti che andavano di fretta (ovviamente). Una scena emblematica per il sottoscritto che, al primo giorno di vacanza nella Grande Mela, si recava a Time Square.

Avrei capito, di lì a poco, che a New York la prerogativa è “fare lo show”. New York, la città che non dorme mai, terra di opportunità per chi ha ambizione. Ma per sopravvivere a New York hai bisogno di energie e convinzione, altrimenti essa ti risucchia l’anima e ti sputa via in quanto entità inutile. 

Di New York ci parlano anche gli Imperial Triumphant, i quali collocano la metropoli americana al centro del concept del loro ultimo amaro album “Vile Luxury”, che per quanto mi riguarda poteva figurare tranquillamente fra le migliori dieci uscite metal del 2018


La nostra città è come il cadavere di un gigante. Ciò che una volta era così brillante, grandioso e spettacolare, oggi è pieno di avidi vermi che si contengono la loro parte di successo”. Questa è la storia che ci raccontano i tre newyorkesi, una storia non così diversa da quella che si narrava ai tempi della Factory di Andy Warhol, non di certo estranea al disagio cantato prima dai Velvet Underground di Lou Reed, poi dalla no-wave di Suicide, Swans e Lydia Lunch: scenari non certo edificanti, dominati da degrado urbano, violenza, prostituzione, droghe pesanti. 

La grandiosità dei grattacieli del più suggestivo skyline del pianeta e la brutale lotta per l'autorealizzazione; la vertigine dei sogni che si realizzano e la rovinosa caduta nell'abisso della sconfitta; le nevrosi, l'avidità, l'ipocrisia, la brama di ricchezza e successo che schizzano da tutte le parti: questo cercano di raccontarci gli Imperial Triumphant, con tocco da macellaio, in “Vile Luxury”, sublime saggio di post-death metal deviato e maniacale.

Nella loro vocazione disarmonica, i tre newyorkesi richiamano act come Ulcerate, Portal, i compagni di etichetta Krallice (Colin Marston, fra l'altro, siede dietro al mixer). Il carattere schizoide della loro musica, invece, porta alla mente il malessere descritto dai Today is the Day. A guardar bene possono essere rinvenuti dei rimandi all’avanguardia di maudlin Of The Well e Kayo Dot, ma in questo caso, data la brutalità della proposta, le analogie si fermano alle sfumature jazz. 

Jazz che emerge chiaramente nei passaggi in cui entra in scena un arrembante set di ottoni, o una tromba à la Miles Davis, o il pianoforte suonato dal bassista Steve Blanco (pure ai sintetizzatori). Completano l'organico le forti braccia di Kenny Grohowski (un turbine di ritmiche impazzite memori del death metal caotico di Morbid Angel e Nile) e i riff sferraglianti di Zachary Ilya Erzin, fautore anche di una prova vocale agghiacciante, fra growl disarticolato ed uno screaming dilaniante di matrice hardcore. Brutal death, dilatazioni/costruzioni post-metal, pause atmosferiche e letali accelerazioni grind si alternano in una apocalisse sonora che i Nostri sanno padroneggiare con gran perizia, assemblando e dosando intelligentemente i diversi elementi, chissà, forse ispirati dalla imponente Cathedral of Saint John the Divine, con bassorilievi da brividi che profetizzavano il crollo delle Twin Towers. 

Da mesti fraseggi blues a claustrofobici maelstrom di furia noise, passando per frasi spezzate, cori d’opera buttati senza ritegno nel marasma e sessioni sparatissime in cui la resistenza dei componenti della band viene messa a dura prova: forse un quadro eccessivo per una città come New York, che tutto sommato, con tutte le sue contraddizioni, mantiene un innegabile magnetismo.

Quel che è certo è che, musicalmente parlando, “Vile Luxury” riluce di un equilibrio intrinseco che può esprimere solo una band ispirata e consapevole dei propri mezzi (del resto, per il trio, siamo alla quarta prova discografica). E se tutto non suona New York al 100% (per esempio, “Chernobyl’s Blues” cantata in russo, che cazzo c’entrava?), pazienza: si deve pur fare i conti con le approssimazioni del death metal, che non sa mai raccontare una storia senza divagare, semplificare o estremizzare.

Do the Show!