Armenia. Una terra a noi nota solo perché possiamo aver sentito parlare del genocidio armeno ad opera dell’Impero Ottomano. Un genocidio di cui ci importa il giusto, magari una menzione del Papa durante l’Angelus, una tantum, e un accenno sui libri di storia. La Turchia lo contesta, nella quantità e nella qualità, ascrivendolo al conflitto bellico dell’epoca e non ad un’operazione di pulizia etnica.
L’Armenia lo rivendica con dolore, anche nella produzione metal, trasversalmente agli stili, in un ribollire di fantasie di vendetta e afflati di rivendicazione nazionale.
L’Armenia è una terra con alcune peculiarità metallicamente rilevanti. Sono di sangue armeno i System of a Down, che tuttavia operano dagli USA. L’Armenia è poi anche la prima nazione del mondo ad adottare il cristianesimo come religione di Stato, per trovarsi poi tagliata fuori dal mondo cristiano e circondata dall’islam, e dopo ancora inglobata nell’ateismo di stato dell’URSS.
Una tensione mistica che quindi giustifica la presenza di ispirate realtà black metal. Si parte dal black semplice e diretto, direi “bellico”, degli Ancient Fear: i nostri avanzano marziali e felpati allo stesso tempo, con l’aria di chi ha sempre respirato aria nera. I testi nichilistici ricordano la naturale tendenza dell’uomo alla bugia (in particolare religiosa) e alla distruzione, utilizzando l’una per imporre l’altra e viceversa. Non propriamente black, quanto piuttosto death, come anche una certa ambivalenza stilistica a cavallo di questi due generi. In "Scream from the desert" si rievoca il genocidio armeno.
Ancora più intriganti sono gli Arbor Mortis, nome ossimorico che nasconde un black più secco e tagliente con componenti atmosferiche, che gioca sui capovolgimenti metaforici, come nel titolo “The black light of the sun”. "Ov Forgotten times" ricorda la fuga di “Transilvanian Hunger” dei Darkthrone, ma si tratta di un black polimorfo, con ampie parti rarefatte, che tuttavia a noi piacciono di meno.
Il death è abbastanza gettonato, soprattutto corretto alla tastiera: citiamo Bokrag, Ghoulchapel, Demigod, Sworn, la all-female band Divahar.
Ogni tanto, in mezzo a tanti gruppi che imboccano una strada subito identificabile, ma con un approccio “di genere”, è invece bello imbattersi in uno di quei gruppi che definirei “d’autore”: sono quelli che all’inizio non si capisce dove vadano a parare, ma hanno invece un’idea precisa, solo che non è così immediatamente inquadrata in due canoni di genere. Tra questi il gruppo brutal metal Begonders Lauten, che riescono a coniugare una voce (…) brutal slam con iniziative del tipo fare cover di musica classica in cui si sono cimentati anche i Mekong Delta ("Sabre Dance"), e comunque mantenendosi in generale su mid-tempo.
Altro animale relativamente bizzarro sono gli Ayas, che propongono in definitiva un epic metal vecchia scuola, sfoggiando un look da bande dei Guerrieri della Notte (i Saracens per essere precisi, magliette nere con bordi bianchi). Un insieme di vezzi progressive, isteria tipica di quella lettura dell’epic metal, e inquietudine di fondo rendono i loro brani un viaggio non prevedibile dall’inizio, talora con l’impressione di essere dentro una jam session per l’intera durata del disco.
Il folk è declinato con sonorità diverse, come ad esempio quelle epic-metal più arioso degli Ambehr, di cui vi resterà in mente l’inno “Reason to Fight” (mi saprete dire se vi siete svegliati di notte canticchiando Dighidon Dighidighidighidon). Gli Ildaruni propongono un folk black col demo “verso regni sotterranei”, e i Vahagn fanno altrettanto. I Rahvira completano la scena mettendo in copertina quello che sembra un plotone spontaneistico di soldati armeni, e in un’altra una divinità pagana che dardeggia un nemico fuori campo, probabilmente a suggerire come la rivalsa contro l’Islam non debba far capo alla radice cristiana, ma a quella pre-cristiana. Col loro black-epic folk sembrano un po’ gli Absurd dell’Armenia, almeno a giudicare dall’Aquila e dalla ruota solare che campeggiano nel logo. Ruote solari come se piovesse anche per gli Avarayr, che incoronano di spighe il loro nome per la loro “sinfonia scolpita nella pietra”.
A far da contrappeso ideologico a tali spinte anti-teistiche una corrente white metal (Blood Covenant e Segor), che tuttavia sposta poco l’ago della bilancia.
In una visione d’insieme, è come se l’Armenia vivesse in una serie di luoghi nascosti rispetto alla sua esistenza concreta. Ciò del resto è coerente con la sua storia, che ha visto il mondo tradizionale armeno distrutto e occupato da invasori culturalmente incompatibili. Lo spirito armeno si trova quindi in regni sotterranei, grida dal nulla del deserto, dà linfa alle radici nascoste dell’Albero della Morte. Come se gli armeni veri fossero sopravvissuti in guisa di lupi mannari, rintanati per prudenza in gusci, tane e corazze, ma pronti a saltar fuori per (ri)vendicare un’antica grandezza. Per citare il titolo di un brano degli Sworn, “Monumenti carnali”.
La summa di questa dirompente forza nascosta è la rappresentazione del panorama del monastero di Khor Virap, ad opera dei Vanatur, black metal crudo che ricorda la il romanticismo furioso degli Ulver di "Nattens Madrigal". Un flusso sonoro magmatico che insieme fuoriesce dalla bocca del vulcano e si fa cenere, cercando di mangiarsi colla forza del calore più materia possibile, prima di morire.
Lasciamo la chiusura di questa rassegna al brano "Armenian Genocide / Heavy Metal Requiem”, un inno non buonista a ricordare le “lacrime di sangue che non si asciugheranno mai sulla terra”. Nel video si vede un’illustrazione in cui una donna armena “non-morta” strappa dalla terra un tubero grondante sangue, sullo sfondo una distesa di teschi e una croce trapassata da una scimitarra turca. E ricordiamo che, mentre l’Occidente pare ossessionato dall’evitamento di qualsiasi attrito, mentre nel contempo scatena guerre per procura, da altre parti si inneggia, forse più dignitosamente, a ripartire da “una ragione per combattere” (come dicono gli Ambehr).
A cura del Dottore