Ancora Neurosis, ma questa volta mi sento sereno, sgravato dal fardello di tensioni che mi ero portato dietro la volta precedente. Era il novembre del 2016 e per il sottoscritto fu la prima volta con la tribù di Oakland, dopo anni di ascolti ed un’occasione mancata di vedere i Nostri dal vivo, vent'anni prima, per il tour di “Through Silver in Blood”. Una ferita che bruciava ancora dentro...
Questa volta è diverso: il Rito di Iniziazione è stato consumato, non ci sono pretese nei confronti della band, non permangono sensi di rivalsa o di rivincita esistenziale. Oggi sono qui semplicemente per godermela, tanto più che come compagni di palco troveremo gente del calibro di YOB e Godflesh.
Ridendo e scherzando gli YOB hanno una storia quasi ventennale da raccontare (il loro esordio risale al 2002). Se gli stessi Neurosis sono stati un riferimento fondamentale per le definizione del loro suono, gli YOB possono oggi vantare uno status di tutto rispetto nel popolato sottobosco post-sabbathiano. Il loro essere Black Sabbath al cubo li ha aiutati ad imporsi nel panorama estremo degli ultimi anni per mezzo di una proposta perfettamente calibrata fra umori old school ed irruenza/divagazioni post-metal, con la pesantezza posta all’orizzonte come imperativo categorico.
Con solo tre brani-monstre (per quaranta minuti di esibizione) il trio mette a ferro e fuoco l’O2 Kentish Town Forum, incontrando alla perfezione le esigenze di coloro che con magliette di Sleep e Sunn O))) esprimevano la loro predilezione per suoni lenti e pesanti. Come su disco, anche sulle assi del palcoscenico i brani degli YOB colpiscono nel segno con efficacia e semplicità a suon di riff granitici, ritmi pachidermici e coinvolgenti galoppate chiamate a ridestarci dal torpore di certi passaggi più vischiosi. A coronamento di tutto ciò, un canto elegiaco che sa sporcarsi talvolta di screaming e di growl, gettando così un ponte verso sonorità più recenti.
A giudicare dai capelli, Mike Scheidt sembra uno che non sa cosa sia il balsamo, ma è anche grazie alla sua figura iconica, alle sue epiche movenze, a quell’attitudine apocalittica “da vento sparato in faccia, ma m’importa una sega, tanto canto uguale” che gli YOB incantano e conquistano. L’assolo-fiume al termine della title-track di “Our Raw Heart” (ultimo acclamato album rilasciato l’anno scorso) strega, sfiora l'estasi e ci lascia con un ottimo sapore in bocca. Applausi meritatissimi.
Anche Justin Broadrick, in linea con gli umori della serata, si dimostrerà un maestro di pesantezza. Forse è ingiusta la collocazione nella scaletta della serata per i suoi Godflesh e soprattutto per lui stesso che è da considerare, non solo un pioniere dell'industrial metal, ma, per intuizioni e lungimiranza artistica, uno dei padri del post metal.
Ecco che a rompere gli indugi spunta sul palco G. C. Green, che con la sua curata barbetta bianca sembra essere stato appena strappato con la forza dalla cattedra di una scuola media. Broadrick, che mi aspettavo pelato e che invece si presenta con lunghi capelli a coprirgli il volto, conferma il carisma dimesso che ci aspettavamo. Solo cinquanta minuti è il tempo che gli è stato concesso per raccontare la storia dei Godflesh, con un occhio di riguardo per quel “Post Self” che nel 2017 rilanciò il nome della band dopo una pausa di quasi dieci anni. Non verranno eseguiti estratti dal mitico “Streetcleaner”; di contro troveremo “Predominance”, "Anything is Mine” e “Sterile Prophet” a fare le veci di opere seminali come “Pure”, “Selfless” e “Songs of Love and Hate”. Quello che conta stasera, tuttavia, non è tanto la presenza di questo o quel brano, bensì poter assistere alla manifestazione del genio chitarristico di Broadrick, che dispenserà la classe e l'inventiva che appartengono solo ai Grandi. Fra riff pastosi, fughe psichedeliche e struggenti arpeggi elettrificati affiora a tratti la poesia dei Jesu, altro fondamentale progetto del Nostro.
Ecco che a rompere gli indugi spunta sul palco G. C. Green, che con la sua curata barbetta bianca sembra essere stato appena strappato con la forza dalla cattedra di una scuola media. Broadrick, che mi aspettavo pelato e che invece si presenta con lunghi capelli a coprirgli il volto, conferma il carisma dimesso che ci aspettavamo. Solo cinquanta minuti è il tempo che gli è stato concesso per raccontare la storia dei Godflesh, con un occhio di riguardo per quel “Post Self” che nel 2017 rilanciò il nome della band dopo una pausa di quasi dieci anni. Non verranno eseguiti estratti dal mitico “Streetcleaner”; di contro troveremo “Predominance”, "Anything is Mine” e “Sterile Prophet” a fare le veci di opere seminali come “Pure”, “Selfless” e “Songs of Love and Hate”. Quello che conta stasera, tuttavia, non è tanto la presenza di questo o quel brano, bensì poter assistere alla manifestazione del genio chitarristico di Broadrick, che dispenserà la classe e l'inventiva che appartengono solo ai Grandi. Fra riff pastosi, fughe psichedeliche e struggenti arpeggi elettrificati affiora a tratti la poesia dei Jesu, altro fondamentale progetto del Nostro.
Ci si commuove continuamente innanzi a quel flusso sonoro sferragliante ed oppressivo, fedelmente supportato dal basso muscolare del compare G. C. Green e spezzato dalle basi campionate, che a tratti si faranno persino danzerecce. Dietro al microfono Broadrick sfoggerà il suo proverbiale grugnito, che tuttavia fungerà più da fattore di suggestione che da vero e proprio veicolo narrativo. Più che le parole, a farsi notare sono gli sputi che escono dalle fauci del front-man e i suoi capelli che gli ondeggiano bagnati sul viso ad ogni strofa vomitata con feroce rassegnazione.
Si potrebbe anche dire che la proposta dei Godflesh, tanto all'avanguardia agli esordi della band, suona oggi forse un po' obsoleta, ma è pur sempre uno spettacolo poter essere a tu per tu con l'artefice di stilemi musicali che hanno caratterizzato l'antidoto al metal tradizionale negli ultimi trent'anni. Una volta tanto l'impressione è di aver visto e sentito suonare un grande musicista.
Giunge infine il momento tanto atteso dei Neurosis. I malandrini ci ingannano aprendo con il solenne crescendo di “A Sun That Never Sets”, facendo così presagire una scaletta contenente episodi più datati. Anche questa volta, tuttavia, la selezione dei brani (dieci in tutto per un’ora e mezza di durata complessiva) si impernierà attorno agli ultimi tre album, che evidentemente rappresentano meglio di ogni altra cosa quello che i Neurosis sono oggi. E noi rispettiamo la scelta, anche perché oramai titoli come “At the Well”, “Given to the Rising” e “To the Wind” possono a tutti gli effetti essere considerati classici della band.
Se posso azzardare una definizione ardita, mi sentirei di affermare che la musica dei Neurosis è divenuta nel tempo una sorta di blues lacerante, dove i languori di un fosco cantautorato e il dolente riffing sabbathiano sono ingredienti di pari importanza: un magma sonoro che oramai si è scollegato dalle asperità degli esordi, sia sul fronte hardcore che su quello del metal estremo. E questo probabilmente è il motivo per cui i Nostri non amano più scavare nel loro passato remoto, sentendosi piuttosto a proprio agio con la produzione recente.
I brani verranno eseguiti con le consuete energia e passione: per chi avesse dei dubbi, ci tengo a ricordare che i Neurosis sono sempre una garanzia in termini di emozioni. Colpiscono in modo particolare il terremotante finale di “At the Well”, marchiato da quell’“In a Shadow World” urlato con ostinata disperazione da Scott Kelly, e l’incalzare energico di “To The Wind”, che ci porta un pizzico di “rock” in quello che potremmo definire più che altro un viaggio spirituale dalle tinte catastrofiche. Segnaliamo inoltre la “semi-ballad” “Reach”, con il suo incipit da ballata country vergata dalla raucedine di Steve Von Till.
Osservandoli, ho come l'impressione che la distanza fra i due front-man si faccia più marcata con il trascorrere del tempo. Von Till è tonico e fisicato, maglietta aderente, pelata luccicante e barba apocalittica scolpita come se fosse di legno: ogni sua posa pare studiata, e travolgente è l'energia che emana ogni suo movimento. Kelly, dal canto suo, è diventato la trasandatezza fatta persona: spettinato, barba incolta, buzza a spiovente e con i piedi ben piantati per terra, come se essi fossero murati in un blocco di cemento. Beninteso: la forza d'urto sprigionata dalle due figure è equipollente, nessuno alla fine prevale sull'altro. I nostri due eroi continuano, in definitiva, a dimostrarsi perfettamente complementari, per attitudine ed estetica.
Chiudiamo il quadro celebrando il dinamismo dietro ai suoi marchingegni dell’infaticabile Noah Landis (gradita la maglietta dei Joy Division) e l’efficace drumming di Jason Roeder. Dave Edwarson, infine, si dimena come un ossesso con il suo basso, e va avanti ed indietro per il palco, sbraitando di tanto in tanto come un orco dietro il microfono: atteggiamento che cozza non poco con la sua figura quasi simpatica da candido ragioniere dai capelli verdi.
Osservandoli, ho come l'impressione che la distanza fra i due front-man si faccia più marcata con il trascorrere del tempo. Von Till è tonico e fisicato, maglietta aderente, pelata luccicante e barba apocalittica scolpita come se fosse di legno: ogni sua posa pare studiata, e travolgente è l'energia che emana ogni suo movimento. Kelly, dal canto suo, è diventato la trasandatezza fatta persona: spettinato, barba incolta, buzza a spiovente e con i piedi ben piantati per terra, come se essi fossero murati in un blocco di cemento. Beninteso: la forza d'urto sprigionata dalle due figure è equipollente, nessuno alla fine prevale sull'altro. I nostri due eroi continuano, in definitiva, a dimostrarsi perfettamente complementari, per attitudine ed estetica.
Chiudiamo il quadro celebrando il dinamismo dietro ai suoi marchingegni dell’infaticabile Noah Landis (gradita la maglietta dei Joy Division) e l’efficace drumming di Jason Roeder. Dave Edwarson, infine, si dimena come un ossesso con il suo basso, e va avanti ed indietro per il palco, sbraitando di tanto in tanto come un orco dietro il microfono: atteggiamento che cozza non poco con la sua figura quasi simpatica da candido ragioniere dai capelli verdi.
Ma torniamo alla musica. Se in occasione della data di tre anni fa la parte della leonessa l’aveva fatta “Locust Star” (ho i brividi ancora oggi al pensiero), a riportarci indietro nel tempo questa sera è “End of the Harvest”, dal capolavoro “Times of Grace”, con esplosione finale da infarto. Inutile aggiungere che il brano si rivelerà l’apice emozionale della serata, anche perché, se i nuovi pezzi si fanno apprezzare, è in quelli più datati che si percepisce la genialità creativa dei Neurosis della loro fase creativa più virtuosa. L'impatto visivo dato dai soli membri della band sul palco è notevole, peccato che la componente video/multimediale sia stata oramai del tutto accantonata: anche stasera infatti saranno solamente gli ottimi giochi di luce a supportare le visioni messe in musica da parte dei cinque bardi, mentre continua a lasciarmi perplesso l’abitudine oramai consolidata di abbandonare al buio i musicisti nei brevi intermezzi ambientali fra un brano e l’altro.
Giungono le note iniziali di “Stones from the Sky” a farci capire che siamo alla fine del viaggio. L’esecuzione è a dir poco magistrale, in particolare l'infinita coda strumentale, dove Landis si erge a protagonista assoluto con le sue manipolazioni sonore. Piacevolmente sconquassati dal procedere caotico della band, possiamo sostenere con certezza che il brano rende decisamente meglio al termine dell’esibizione che nel ruolo di opener, come era successo quasi tre anni fa al Koko.
Insomma: come gettare nel cesso gli effetti benefici che, in termini di relax, aveva apportato la vacanza a Creta, da cui ero tornato appena il giorno prima. Ma di fronte a cotanta grazia apocalittica, è pur sempre bello poter naufragare dolcemente nel logorio della vita moderna…