Una ventina d’anni fa, su una
bancarella di libri usati, acquistai l’opera omnia di H.P. Lovecraft, dal
titolo “Opere complete” (ed. SugarCo, 1983). Già da anni mi ero artisticamente
invaghito del grande scrittore di Providence, ma in quell’enorme
tomo ebbi la possibilità di leggere vari scritti che ancora non conoscevo tra cui “La
musica di Erich Zann”, racconto del 1922, brevissimo ma come sempre molto
intenso e inquietante.
Memore di questa lettura, molti
anni dopo, fui molto sorpreso dal ritrovare lo stesso titolo in calce ad
un’altra tipologia di espressione artistica, questa volta musicale: il
secondo full lenght dei Mekong Delta.
Il preambolo per dire che no, il
titolo di questo post non si riferisce a una storpiatura della celeberrima
canzone dei Metallica contenuta in “Master of Puppets”, bensì fa riferimento solo ed unicamente al
mitico Howard Phillips, e precisamente al suo meraviglioso racconto "La maschera di Innsmouth", cui è ispirata la song dei Four Horsemen.
Ricostruendo: trent’anni fa in Germania
c’era un ingegnere del suono, tal Ralph Hubert, proprietario di un’etichetta
discografica indipendente dal bislacco nome di Aaarrg (!). In quel
periodo l’accostamento dei termini “Metal” e “Germania” andava a coincidere con
la mitica “triade del thrash” Kreator-Destruction-Sodom che tra l’85 e l’86
debuttavano sul mercato con i loro rispettivi dischi d’esordio.
Se questi gruppi basavano la loro
proposta su un approccio particolarmente grezzo e alquanto minimale, incentrato
com’era su una scrittura piuttosto essenziale, giocata tutta su velocità e
immediatezza, in Nord America il Thrash, che quell'aspetto l’aveva già felicemente praticato negli anni precedenti, si stava evolvendo nella sua componente più
tecnica.
Dagli Annihilator ai Watchtower, dai Forbidden ai Death Angel per
arrivare alle grandi opere dei Mostri Sacri Megadeth e Metallica, la seconda
metà degli anni ottanta definiva, per il thrash mondiale, un nuovo standard con
cui confrontarsi: appunto quello technical/progr.
Alla triade germanica tutto questo
evidentemente poco importava. Del resto l’Europa sul tema partiva più indietro.
Ma…ma il buon Hubert dimostrò di non apprezzare questa “arretratezza” della
scena thrash teutonica. Motivo? Bah…forse perché i musicisti tedeschi, in larga
parte, hanno una formazione di studio classica, dove si punta molto sulla tecnica individuale, mentre i gruppi succitati non
risaltavano certo per tecnica strumentale…o forse perché ancora il Metal era
dominato dalle band anglosassoni (gli Helloween dovevano ancora salire alla
ribalta), o magari per il timore di essere invischiati nel calderone del suddetto thrash in formato bacino-della-Ruhr.
Insomma,
non si sa come non si sa perché, Ralph decise che la sua creatura dovesse
essere avvolta nel più totale mistero: i musicisti erano accreditati sotto
falso nome e di show live neanche a parlarne.
Sarà stata anche questa precarietà
e la mancanza di auto-promozione che farà si che la “casa Mekong Delta” avrà al
suo ingresso continue porte girevoli, che porteranno nel corso degli anni a
continui e destabilizzanti cambi di line-up (passeranno da lì grandissimi
musicisti della scena teutonica, tra cui “Peavy” Wagner dei futuri Rage e i
fenomenali drummers Uli Kusch e Jorg
Michael, allora ancora giovanissimi). Ma il nostro Ralph era sempre presente,
anche se si faceva chiamare “scandinaviamente” Bjorn Eklund! Ed è anche per
questo motivo che, più che una band vera e propria, forse faremmo meglio a
definire i M.D. come un ensemble, una
sorta di pazza orchestra guidata da un ancor più folle Direttore, formata sì sempre dagli stessi strumenti ma con
interpreti che si avvicendavano di "spettacolo in spettacolo" (nel nostro caso di
album in album…).
E una delle tante stranezze
collegate a questo unicum della
storia metallara, è proprio quella collegata alla qualità di codesti "spettacoli": infatti i
dischi migliori Hubert e soci li pubblicarono proprio nel periodo di “anonimato”
della loro esistenza, quando ancora il progetto M.D. era avvolto da una fitta
nebbia, e cioè nella seconda metà degli anni ottanta.
Dal 1991 in poi infatti Hubert riuscì a portare
la sua strana creatura anche in concerto (sempre in Germania e dintorni, non
sia mai che il resto del mondo potesse sconvolgersi dal fatto di vedere suonare
musicisti tedeschi coi controcoglioni), ma i suoi successivi parti discografici
subirono un certo ridimensionamento qualitativo (seppur comunque mantenendo
standard elevati).
Ma andando al nocciolo della questione: cosa suonavano i M.D.? Ecco,
appunto…adesso arriva il bello (e, per il sottoscritto, il "difficile"). Premetto una cosa: ho scelto di dedicargli un post perché mi sono ritornati
in mente dopo aver scritto sui Voivod la scorsa settimana. Infatti, per il
sottoscritto, i M.D. sono i….”Voivod europei”! Non tanto per le somiglianze
musicali, che comunque esistono, quanto per il fatto che appartengono a quella quarta macro-categoria nel
quale facevo rientrare quelle band che stimo tantissimo, per qualità e ingegno,
ma che non riescono a emozionarmi più di tanto, a farmi vibrare l’anima. Ammetto quindi al contempo che la loro proposta è
unica e geniale: un technical thrash di grande impatto, fortemente progressive,
nel senso più alto del termine, ricco di cambi di tempo e chiaramente ispirato
dalla musica classica, di cui Hubert è un appassionato cultore.
E così torniamo a quel titolo,
“The Music of Erich Zann” (1988). Come un Direttore d’Orchestra posseduto da
demoni indicibili, Hubert guida i suoi musicisti, e in particolare i due
chitarristi R. Kelch e R. Stein, in funambolici intrecci chitarristici in una una ritmica sostenuta e variegata (opera dello stesso Hubert e del
succitato batterista J. Michael). Se vi aggiungiamo le improbabili linee vocali di
Wolfgang Borgmann, pauroso nei suoi stravolgenti acuti isterici, si capirà come
TMOEZ sia un album paurosamente complesso, ma particolarmente affascinante.
Insomma, non esageriamo se definiamo quest’opera come il primo Manifesto
dell’evoluzione del thrash europeo in senso tecnico (i Coroner del resto
dovevano ancora dare alle stampe il capolavoro “No more color”).
Andando avanti: i mirabili funambolismi strumentali sono
ancora al centro del successivo “The
Principle of Doubt” (1989) fino a giungere alla loro sublimazione nel
capolavoro “Dances of Death” (1990).
Quest’ultimo, senza tema di smentite, è un album pazzesco, immane. Lo
considero, come “Nothingface” per gli anni ’80, uno dei dischi maggiormente
rappresentativi dell’intera decade per il Metal tutto. Ed è un platter di
appena 4 pezzi!! La meravigliosa copertina che vedete in cima al post, opera
di J. Luetke (visionario disegnatore, sorta di novello H.R. Giger) è già
programmatica. Il disco ci accoglie “gentilmente” (!) con la title track di quasi 20 minuti durante i
quali il basso pulsante di Hubert guida l’ascia di Uwe Baltrusch in un turbine
di riff e assoli che vanno a costituire una cattedrale di suoni malsani e
conturbanti: è la summa del Mekong Delta
sound, dove tutti gli stilemi dei due dischi precedenti sono mirabilmente riassunti in
una canzone tanto difficile quanto ammaliante. E in cui si rincorrono,
controllati da una tecnica esecutiva mostruosa, riff vorticosi, passaggi
neoclassici ed ogni sorta di sperimentazione possibile.
E se i due pezzi
centrali (i riuscitissimi “Transgressor” e “True Believers”) tornano ad un
abbozzo di forma-canzone, i Nostri per concludere si inventano una
rivisitazione di “Night on a Bare Mountain” (alias “Notte sul Monte Calvo”) del compositore russo dell’800
Modest Mussorgskij. Del resto, come accennato, l’influenza della musica classica è sempre stata primaria per Hubert e in
quest’opera viene profusa a piene mani, portando i limiti del technical thrash
europeo decisamente a livelli d’avanguardia.
L’incauto ascoltatore che
riuscisse a superare l’iniziale osticità (e a tratti, diciamocelo, anche la
noia!) della loro proposta, verrà trasportato dalla pazza orchestra dei Mekong
Delta in mondi paralleli, proprio come accaduto all'Io narrante con l’Erich Zann del racconto lovecraftiano che con la sua viola evocava suoni, ritmi e melodie di un mondo sconosciuto, di una
dimensione “altra”. Una dimensione di un’oscurità abissale. Su cui affacciarsi
rischia di essere molto pericoloso per l’equilibrio mentale (sempre
musicalmente parlando, ovviamente!).
E allora: scolpiti nella pietra
del Thrash Metal Europeo, assieme ai nomi di Mille Petrozza, Thomas “Angelripper”
Such e Marcel “Schmier” Schirmer, va assolutamente affiancato quello, meno
noto ma ugualmente seminale, di Ralph Hubert!