Entro in Azerbaigian e sento una strana atmosfera. Quasi tutta concentrata a Baku, la capitale. In lontananza si sente un fruscio che, passo dopo passo, prende la forma di un fondale sonoro. Black-folk probabilmente, si cominciano a sentire colpi sordi di batteria. Mi ricorda quando, nei mesi estivi, dal mio terrazzo cercavo di seguire i concerti, a volte metal, del centro sociale Macchia Nera, a distanza di un chilometro di case, giardini e viali alberati. Avrei potuto mettere un registratore, e sarebbe venuto fuori qualcosa che somiglia a questi azeri, gli Yahendar. Musica lontana, affidata alla fantasia e alla suggestione, ma anche vagamente minacciosa e carnivora.
Quando il black si fa più vicino infatti la minaccia si concretizza, sia nella sua forma più cruda e rumoristica (Uor), sia in quella più epica (Vozmezdie). I toni si fanno poi depressive con i Violet Cold, ovvero Emil Guliyev, che dal 2013 sforna idee geniali, come quella di intitolare un album “Neuronaut” e dividerlo in brani tutti di 5 minuti esatti, ciascuno intitolato come un sottotipo di recettore per la serotonina (5HT1,2,3 etc). Il nostro ama gli spunti psichedelici, anche sotto metafora di viaggi spaziali, o concettualmente tradotti in titoli come Tutto quello che puoi immaginare è realtà, ma poi realizza anche brani depressivi dal significato sospeso, come “Violet girl”. In breve: in principio sono lui e lei, e poi entra la droga. Lei rischia le penne, e lui se ne accorge tirandola fuori dalla vasca da bagno in cui si stava annegando dopo la dose, e le pratica un'iniezione di antidoto (presumiamo sia un'overdose di eroina, e l'antidoto sia il naloxone). Una specie di video “pubblicità progresso”, con un finale alternativo però: i due continuano a drogarsi felicemente dopo quella esperienza, a meno che il montaggio sia in ordine non cronologico. Insomma, alla fine dei conti, per un motivo non chiaro, nell'ultima scena lei lo lascia al tavolino di una trattoria deserta, nella tristezza più cupa, mentre fuori prosegue un normale giorno d'estate. Ma tu guarda, vai a far del bene alla gente, ecco come ti ritrovi...!
I Violet Cold, pur apparentemente dispersivi per la varietà e la molteplicità delle produzioni, possono essere esplorati con disinvoltura in quando progetto di un'unica mente. Sostanzialmente post-black metal, i Nostri paiono descrivere in fondo un viaggio intorno all'amore, all'abbandono, alla delusione e all'illusione che comunque ancora sopravvive. Il senso allegorico del viaggio spaziale è a mio avviso questo, così come le sonorità “spaziali” che poi coincidono con le sonorità atte a descrivere viaggi interiori o l'attività cieca e automatica dei neuroni.
E' efficace ad esempio la sovrapposizione di un registro nichilistico e disperato ad uno arioso e speranzoso, come in “Lovegaze”. Sono efficaci i ritorni di fiamma black ciclici, che si dipanano poi in melodie elegiache senza per questo placarsi. Il doppio registro è proprio un “post-black”, che non rinnega il black, anzi lo lascia come dubbio, e pare dire: forse c'è una luce, e se invece fosse tutta un'illusione? Per ora andiamo avanti...Perché alla fine non possiamo fuggire dalla terra dei sogni, e questa sembra la morale definitiva ("No escape from dreamland").
Su ragazzi! Animo! Risolleviamoci il morale con del buon corposo death metal tecnico. I Silence Lies Fear ci convincono con uno stile chitarristico “picchiettante” e tastiere. La copertina con figure umane e animali quasi slanciate e appuntite verso il cielo, ma costituite di roccia e ferro, suggerisce un'aspirazione frustrata di una dimensione più grande, astrale, alla fine impossibile. Dei mutanti composti di carne e di deformità astrali partorite dall'immaginazione, sviluppi immaginari di organi e apparati verso una fantasia ultraterrena, o extraterrena, che mai sarà visibile e vivibile. Queste sono le creature tristi e vere dei Silence Lies Fear.
L'Azerbaigian si rivela una terra piena di sorprese, metallicamente versatile. Ad esempio, ci si imbatte in un bel video dei Sirr, "Yoruldum", un brano di metal melodico che ben si fonde con l'illustrazione grafica. E' una specie di “The Wall” azero. Non facciamo in tempo a riprenderci da questa anomalia che approdiamo ad un disco di stoner-doom dei Pyraweed, "Green Jinn", che ci catapulta su altri lidi eppure ci tiene dentro al metal senza dubbio alcuno. Un disco verde nella copertina e nelle suggestioni cannabinoidi, omogeneo e deciso nello stile e nell'approccio.
Colpisce una cosa. Nello spulciare altri gruppi, guardo i titoli di tali Zommm, post-black/shoegaze: Siamo fatti di stelle, Perso in un deserto verde, La realtà è un'illusione. A parte il capovolgimento dell'idea dei Violet Cold, secondo cui è l'illusione ad essere anch'essa realtà, realtà biologica impressa nel cervello di chi l'ha concepita; a parte questo, ritroviamo gli stessi elementi: il verde dei Pyraweed, il deserto sterminato e le stelle, e la voglia di essere in un luogo diverso.
Eravamo approdati qui convinti di trovare una scena spoglia, anche se dignitosa, e invece troviamo produzioni che spaziano tra vari generi, con consapevolezza ed iniziativa, senza lo scrupolo di sviluppare un genere in particolare né l'imbarazzo di non sapere più dove sta di casa il metal generico.
C'è un'unità spirituale in questo metal, come quella della bocca di un vulcano, che poi si sbizzarrisce in colate di lava, lapilli, fumo...
A cura del Dottore