Un artista che basa la propria visione artistica sull’evoluzione, e non semplicemente sul perfezionamento di un sound collaudato, deve fare necessariamente i conti con quel particolare momento della propria vita artistica in cui la sua spinta creativa inizierà fisiologicamente a declinare. Probabilmente la cosa più saggia da fare in questi momenti sarebbe fermarsi ed ascoltare se stessi, capire quello che si può e si vuole fare. Ma comprendiamo anche che non è facile ascoltarsi quando si ha il proprio ego da sfamare e il fiato del pubblico sul collo: piuttosto che ripetere se stessi e deludere, accade così che l’evoluzione venga portata avanti forzatamente, in modo artificiale. In ogni parabola artistica di questo tipo esiste dunque una “zona un po’ fumosa” in cui non si capisce bene se ci si trovi al top dell’ispirazione o all’inizio delle seghe mentali.
Nel caso dei Meshuggah in questa zona potremmo collocare l’EP “I” (2004): esso potrebbe infatti rappresentare, creativamente parlando, il momento più audace nella storia della formazione di Umea, ma anche l’inizio di un cammino dettato principalmente dalla necessità di proseguire una sperimentazione che forse, per dove essa era arrivata, aveva già dato i frutti migliori.
I Meshuggah per un certo periodo sono stati i migliori esponenti del “metal pe(n)sante” grazie a capolavori che si rivelarono fondamentali sia per lo sviluppo del post-thrash metal che per la susseguente genesi del djent: mi riferisco ad album come “Destroy Erase Improve” (1995) e “Chaosphere” (1998), seguiti da un più lineare “Nothing” (2002), comunque in grado di non disattendere le alte aspettative nei confronti della band, che all'epoca godeva di un ferreo status di infallibilità.
Evitare il déjà vu, il già sentito, è difficile quando si ha che fare con un suono così cerebrale e spigoloso, e che per giunta, all’indomani di “Nothing”, era stato esplorato in gran parte delle sue angolazioni. A quel punto delicato della carriera era lecito aspettarsi un ennesimo salto in avanti come una cauta retromarcia, per questo motivo probabilmente la band decise di non compromettersi e rilasciare un lavoro breve quale necessario banco di prova per capire in quale direzione poter proseguire.
Difficile affermare se la mossa dell’unica traccia di ventun minuti sia stata l’ultima cartuccia per una band al proprio capolinea evolutivo, oppure l’accettazione di una sfida di livello superiore. Di certo “I” costituiva quanto di più complesso fosse stato concepito e realizzato dalla band fino a quel momento: il picco sperimentale di un percorso che certo non aveva lesinato in coraggio ed originalità.
Da un punto di vista operativo si trattava di far funzionare in uno spazio molto più ampio quelle medesime idee che una volta saturavano brani-canzone dalla durata sicuramente più contenuta. Il processo creativo si spostava comprensibilmente sul piano della destrutturazione, un laboratorio dove il sound tipico della band viene scomposto e ri-assemblato in nuove combinazioni.
Una fase terminale, questa che valeva la pena comunque tentare e che oramai rappresentava l’unica scelta coerente da effettuare. L’idea di una progressiva frammentazione dell’Io (un Io pronto in ogni istante a deragliare verso l’istinto) conferiva unità e coerenza concettuale ad un flusso sonoro che intendeva rifuggire ogni caduta nella prevedibilità. Una immagine eloquente per descrivere questi suoni potrebbe essere quella della corsa di una vecchia locomotiva che, sfrecciando a velocità folli, sbuffando e fischiando finisce per uscire dai binari; percorrendo terreni accidentati, essa inizierà a rallentare per poi infine cedere al definitivo collasso.
Una fase terminale, questa che valeva la pena comunque tentare e che oramai rappresentava l’unica scelta coerente da effettuare. L’idea di una progressiva frammentazione dell’Io (un Io pronto in ogni istante a deragliare verso l’istinto) conferiva unità e coerenza concettuale ad un flusso sonoro che intendeva rifuggire ogni caduta nella prevedibilità. Una immagine eloquente per descrivere questi suoni potrebbe essere quella della corsa di una vecchia locomotiva che, sfrecciando a velocità folli, sbuffando e fischiando finisce per uscire dai binari; percorrendo terreni accidentati, essa inizierà a rallentare per poi infine cedere al definitivo collasso.
Soccombere a soluzioni reiterate e passaggi prolissi, oppure perdere la bussola, sarebbe stato il destino di chiunque, ma non per musicisti di caratura superiore come i Meshuggah. Gli svedesi infatti vincono la sfida da veri maestri, spremendosi in un esercizio di rigore che, spontaneo o meno che sia, ci consegna la prosecuzione credibile di una parabola evolutiva che non sembrava offrire ulteriori margini di manovra. Molto del merito dell’impresa va alla perfetta integrazione fra la collaudata coppia di asce Fredrik Thordendal / Marten Hagstrom (anche autore dei testi) e le percussioni di Tomas Haake: il risultato è il consueto delirio di riff chirurgici e melodie deviate, il tutto frustato con violenza da un drumming insano ed incessante che attribuiremmo più facilmente ad una macchina che ad un essere umano. Impressiona di certo la perizia con cui la band cuce ed incolla particelle sonore di svariati dimensioni, ma ancor di più impressiona il fatto che i Nostri lo facciano recuperando quelle velocità che “Nothing” aveva per un momento accantonato.
Haake raramente molla la presa, anzi accelera e varia con robotica disinvoltura, sfoggiando una capacità di coordinamento fra braccia e gambe raramente udita altrove. Lo si capisce bene già dall’incipit dove un riff in stile “Holier Than Thou” (Metallica) viene incalzato da un fremito tribale appena percettibile: dopo un minuto e mezzo circa questo stato di attesa verrà bruscamente interrotto dall’esplosione di un tiratissimo blast-beat. Le urla cavernicole di Jens Kidman, stagliate su ritmi singhiozzanti, segnano l’inizio di un viaggio allucinante dove la tensione non calerà un momento, fatta eccezione per un paio di pause calcolate in cui emergono fraseggi minimali di chitarra o desolanti arpeggi: non altro che espedienti formali atti a spezzare l'assalto sonoro e sottolineare il progressivo involvere del brano, che finisce per invischiarsi in riff sempre più fangosi e assoli spettrali, fino al cedimento neurotico degli ultimi minuti.
Difficile a fine ascolto dire se ci troviamo al top della creatività o innanzi ad un esercizio di egocentrismo fine a se stesso: a confondere ulteriormente le idee vi è il fatto che la band viveva un tale stato di grazia che è impossibile definire esattamente dove finisse l’ispirazione e dove iniziasse il calcolo (o il mestiere che di dir si voglia), considerata anche la natura della proposta, disciplinata al limite del maniacale da un lato e decisamente ostica e sorda alle necessità dell’ascoltatore dall'altro.
L’esperimento, alla fine, parrebbe aver funzionato e ne è la prova che la medesima formula sarebbe stata poi confermata con il successivo “Catch Thirtythree” (2005), un’unica traccia divisa in tredici parti. Ugualmente cervellotico, quell’album avrebbe goduto di un approccio più meditativo: forse gli stessi autori si resero conto che non sarebbe stata una via sostenibile riproporre, per più di cinquanta minuti, il sound dinamitardo di “I”. Ed ancora più comprensibile è la parziale marcia indietro che la band avrebbe fatto con il successivo “obZen” (2008), il quale avrebbe rappresentato l’avvio di un inevitabile percorso di normalizzazione orientato a consolidare e sistematizzare le migliori intuizioni del passato.
Definire “I” l’apice compositivo dei Meshuggah è forse azzardato, ma certo esso rappresenta il momento di massima audacia per i quattro svedesi: la prova più ardua da sostenere tanto per i musicisti quanto per noi ascoltatori.