Li abbiamo celebrati, addirittura
inventandone la "fintografia".
Li siamo andati a vedere in concerto per riferirvene
le sensazioni live.
Li abbiamo inseriti nelle nostre classifiche.
Insomma, ve
ne sarete accorti: tutti in redazione amiamo gli Agalloch. E ora che si sono
sciolti, ne sentiamo fottutamente la mancanza.
E così abbiamo deciso, “tutto
questo, per la precisione” (come diceva Massimo Alfredo Giuseppe Maria Buscemi
a “Quelli che il calcio”), di darvi una rapida retrospettiva analizzando la
discografia meno conosciuta dei Nostri, quella che raccoglie tutti i loro EP
che, numericamente, sono stati tanti quanto gli LP.
La demo del 1997 “From which of this oak”, di ben
35’, aveva fatto da subito ben sperare. I brani che le componevano mettevano in
mostra già le capacità compositive della premiata ditta Haughm&Anderson:
composizioni lunghissime (elemento che ricorrerà in tutta la carriera dei 4 di
Portland), personalità da vendere e idee a profusione. Certo, la maturità
artistica era di là da venire e gli stilemi proposti erano ancora fortemente
debitori del melo-death di stampo svedese, sebbene già declinati secondo il
modus operandi del post-black. Insomma, era palese che la stoffa ci fosse,
eccome…
E quindi eccoli tutti qui gli EP
agallochiani, in rigoroso ordine cronologico:
“Of Stone, Wind and Pillor” (2001)
Il primo EP degli Agalloch è
un’opera di indubbio valore e assoluto gusto. A partire dalla suggestiva copertina,
un particolare di “Il cervo che si specchia nell’acqua” del sommo Gustav Dorè.
I 27’ che compongono l’opera sono
idealmente un ponte tra il debut di due anni prima, “Pale Folklore” (non a caso
le prime tre songs vennero composte già nel 1998), e il successivo “The Mantle”
(2002). Del primo riprende le atmosfere
Novembrine, in particolare nell’opener, la title track: 6’ di equilibratissimo
post-black in cui la vena folk di stampo ulveriano e le progressioni ritmiche mutuate
dai Katatonia, creano una mutevolezza sempre composta e controllata. Le due
strumentali intermedie, “Foliorum viridium” (ambiental-sinfonica) e “Haunting
birds” (più folkeggiante) ci portano alla seconda colonna che sorregge l’EP,
cioè “Kneel to the Cross”, cover dei Sol Invictus (pubblicata nel 1994 in “The
death of the west”), un’intensissima ballata electro-folk che fanno di OSWaP
l’ideale prodromo per il full lenght che sarebbe uscito l’anno successivo in
cui le influenze dei Death In June e compagnia apocalittica verranno espanse
notevolmente. La conclusiva “A Poem by Yeats”, per lo più recitata da un
toccante John Haughm, rimanda a suggestioni ed ambienti a-là Dead Can Dance. Un
coerente sigillo per un EP da avere.
Voto: 7,5
“Tomorrow will never come” (2003) + “Agalloch / Nest” Split (2004)
Dopo “The Mantle”, Haughm e soci
continuano nel loro omaggio ai Mostri Sacri del folk apocalittico con un EP di
puro neo-folk per quanto brevissimo (appena 7’) introdotto da una cover davvero
angosciante (una maschera dall’espressione deformata e sofferente, chiaro
riferimento ai travestimenti pierciani) Se la strumentale “The death of man”
rimanda direttamente, già dal titolo, alle composizioni acustiche di Douglas Pearce,
la title track è un meraviglioso intreccio tra l’accompagnamento di una
chitarra acustica e il canto di una folk, con in sottofondo la riproduzione di
un sample contenente un dialogo tra padre e figlio (il tema è quello della
schizofrenia e della malattia mentale). Piccola perla per i collezionisti.
Così come una piccola perla è “The wolves of Timberline”, un brano
interamente folk strumentale di 4’ e mezzo che gli Agalloch realizzano per lo
split con i finlandesi Nest. La musica rievoca proprio quelle ambientazioni
lacustro-montane tanto care alle band dell’U.S.B.M. (Timberline è uno splendido
lago in Colorado circondato da boschi di conifere).
Voto: s.v.
“The Grey” (2004)
& “The White” (2008)
Trattiamo assieme questi due EP visto
che per gli stessi autori rappresentano due facce della stessa medaglia. Il
primo, la parte grigia, è composta da appena due canzoni, “The Lodge” e “Odal”,
reintrpretazioni dei due brani omonimi già apparsi su “The Mantle” nel 2002. Ma
riveduti e corretti: il primo si configura come una splendida strumentale
post-black con un tipico crescendo post-rock. La seconda è invece una
strumentale dronica, dalle influenze industrial-noise, debitrice dei Sunn O))).
Altro esperimento riuscitissimo.
La parte bianca invece è più di
un EP: 7 brani per 32’ di musica incentrata ancora una volta su un folk dalle
forti venature apocalittiche. I primi 18’ (le prime 4 tracce) sono strumentali
e, tra loro, creano un continuum che abbraccia diversi stilemi: dal folk
malinconico di “The isle of summer” (che getta un ponte tra certi umori
scandinavi ed altri di stampo tipicamente americano), alle distorsioni vergate
da rumorismi di sottofondo di “Birch black”; dal dark ambient di “Hollow stone”
al neo-folk di “Pantheist”. Il tutto fila via che è un clamoroso piacere.
Nella seconda metà del disco si
torna ad omaggiare i Grandi Nomi del neo-folk. Le splendide “Birch white”,
(sostenuta ballata apocalittica per chitarra e fisarmonica), “Sowilo rune” e
“Summerisle reprise” (anch’esse ballate folk ma con pianoforte e tastiere in
forte evidenza) chiudono un EP dove l’omaggio non scade mai in plagio grazie
alla presenza delle tipiche soluzioni melodiche degli Agalloch che rendono il
tutto fortemente personale. E si raggiungono di nuovo vertici parecchio
elevati.
Voto: 7,5
“Faustian echoes” (2012)
“I, Johannes Faust, do call upon thee,
Mephistopheles!”
Il mito di Faust e del suo patto
col Diavolo è al centro di questo EP uscito nel 2012. E’ composto da un unico
brano che dà nome al disco, che è anche la song più lunga mai scritta dai 4
americani. 21’ ininterrotti in cui, come già fatto in “Marrow of the Spirit”, i
Nostri riprendono gli stilemi (post) black e il cantato in screaming offrendoci
un ferale black che non perde mai in emozionalità. I Wolves In The Throne Room e la circolarità burzumiana sono i binari privilegiati scelti per muoversi su
cui si intersecano arpeggiati in clean da brividi e ripartenze in tremolo
secondo la miglior tradizione dell’U.S.B.M., mentre in sottofondo i dialoghi
concitati tra Faust e il Demonio rendono l’atmosfera carica di tensione.
Gli ultimi minuti lasciano spazio
a una cavalcata post-black intensissima, con alternanza di ritmi serrati ad
altri medi. Al minuto 14’ tutto sembra placarsi ma il canovaccio riparte poco
dopo per una coda sinuosa e pregna di umori che ripercorrono l’intera
composizione. Un sigillo perfetto per una composizione sicuramente ardita, ma altrettanto
convincente.
Voto: 7,5
Un unico pensiero mi sovviene
dopo aver scritto questo post…Quanto ci mancano gli Agalloch!
A cura di Morningrise