Il 12 dicembre 2019 è stato un giorno particolare per il Regno Unito. In quel giorno il popolo votante è stato chiamato alle urne per scegliere i propri rappresentanti politici, con ovvie ripercussioni sulla gestione della spinosa questione dell’uscita dalla Comunità Europea: un tema cruciale per tutti coloro (me compreso) che da immigrati vivono nella capitale inglese.
Per il sottoscritto, in verità, il 12 dicembre 2019 si proponeva di essere una data cruciale già in tempi non sospetti, ancora prima dell’indizione delle elezioni anticipate, in quanto sarebbe stato il giorno in cui si sarebbe tenuto il concerto londinese di Devin Townsend in occasione del tour promozionale di “Empath”, sua ultima fatica discografica.
Piove a Londra stasera, e si respira la stessa atmosfera tesa di quel fatidico 23 giugno 2016 in cui si tenne il referendum sulla Brexit. Ricordo che vissi quella giornata con grande apprensione, ricordo la pioggia, una dura giornata di lavoro e molto disagio a livello di trasporti pubblici. Oggi, dopo più di tre anni in cui è successo tutto e il contrario di tutto, è decisamente più piacevole trovarsi in fila in compagnia del popolo di Devin Townsend. Popolo assai variegato che non è altro che una moltitudine di piccoli Devin Townsend, ossia folli nerd di ogni età, stazza e problematicità psico-relazionale (ve ne sono in particolare due dietro di me che vorrei ammazzare: il loro argomentare, che certo palesa competenza in fatto di musica, mi diviene presto insopportabile, sia per via del volume molto alto della loro voce che per il piglio enfatico del loro modo di parlare, costellato dalle tipiche espressioni colorite dei nerd). Dopo quasi mezzora di cazzate, riesco finalmente ad introdurmi nella suggestiva cornice del Roundhouse, dove magiche luci viola avvolgono i già tanti presenti.
A rendere ancora più succulenta la serata vi è la presenza di supporter di lusso come gli Haken, altro cavallo di razza della scuderia della Inside Out. Pur non essendo un gran patito del prog-metal, ho apprezzato lavori come “The Mountain” ed in particolare “Affinity”, che del genere restituivano una visione tanto intimista quanto potente, con venature moderniste che andavano da un uso intelligente dell’elettronica allo sconfinamento in territori djent.
A rendere ancora più succulenta la serata vi è la presenza di supporter di lusso come gli Haken, altro cavallo di razza della scuderia della Inside Out. Pur non essendo un gran patito del prog-metal, ho apprezzato lavori come “The Mountain” ed in particolare “Affinity”, che del genere restituivano una visione tanto intimista quanto potente, con venature moderniste che andavano da un uso intelligente dell’elettronica allo sconfinamento in territori djent.
La band che mi si para nei primi tre brani, tuttavia, non mi entusiasma più di tanto, forse anche per colpa di suoni non perfetti che ovviamente penalizzano una proposta di questo tipo. Dispiace più che altro vedere queste band di spessore suonare in condizioni non consone alla loro caratteristiche. Non aiuta la presenza un po’ tamarra di Ross Jennings, che in più di un frangente mi ha ricordato il buon LaBrie. “Puzzle Box”, “A Cell Divides” e “Earthrise” scorrono via senza scossoni, eccetto quando il funambolico Richard Henshall sale in cattedra con la sua bravura: per pura fortuna mi trovo dalla sua parte del palco e non nego che molta della mia attenzione andrà direttamente alle sue prodezze (durante il tapping infinito in “Earthrise” le ganasce letteralmente cadono ai piedi).
Nella seconda metà del set i londinesi sembrano convincere di più, a partire dalla superba strumentale “Nil by Mouth”, percorsa da riff chirurgici e partiture ritmiche ai limiti dell’infarto. Ma è solo il trampolino di lancio per due pezzi da novanta come “Cockroach King” e “1985”, dove l’Haken-sound torna ad esprimersi al massimo delle proprie potenzialità, dopo che i brani dell’ultimo “Vector” avevano dimostrato un po’ di stanchezza compositiva e qualche indulgenza di troppo a melodie radiofoniche. La prima, nella sua impostazione sfarzosa e nei suoi intrecci vocali (fondamentale il contributo al microfono da parte di tutti i componenti della band) recupera in modo convincente certi umori seventies, evocando nomi come Yes e Genesis; la seconda, invece, come suggerito dal titolo, guarda a sonorità più recenti, proponendo una cronometrata alternanza fra pieni e vuoti, dove ogni dettaglio pare stare al proprio posto.
Le emozioni, nel complesso, hanno stentato a decollare, un po’ per la freddezza dei musicisti sul palco, un po’ per l’approccio ancora dilettantesco nel gestire il pubblico (sarà per il fatto di aver giocato in casa?). Non so se a questo punto i Nostri potranno migliorare ulteriormente o i limiti sopra evidenziati sono da considerare invalicabili per una band che conta oramai cinque album e quasi quindici anni di attività alle spalle.
Chi invece non sembra conoscere alcun limite è il signor Devin Townsend, indiscusso padrone di casa. Durante l’allestimento del palco già notiamo qualche segno della follia townsediana come i pupazzi di strani animaletti disseminati qua e là fra la strumentazione. Sfondo di grattacieli e atmosfera da rooftop bar, con il tastierista che, come un barista dietro al bancone, prepara cocktail ai colleghi.: questo è il biglietto da visita che il buon Towsend ha congegnato per il suo nuovo show. Mano a mano che i musicisti faranno il loro ingresso sul palco, i loro nomi appariranno sullo schermo, creando il giusto pathos. C’era curiosità di sapere chi fossero coloro che avrebbero accompagnato HevyDevy in questo tour, visto che il Nostro non si sarebbe avvalso della collaborazione della sua band storica. Ebbene, nella notte delle elezioni in UK, in contrasto con la miopia nazionalista che per anni tiene in pugno il paese (e non solo), Devin si presenta con una compagine di musicisti di estrazione geografica, anagrafica, culturale ed artistica che più variegata non si può: una festa in musica che va dal Canada al Messico, dagli Stati Uniti alla Germania e alla Svezia.
Alle tastiere ci imbattiamo nuovamente in Diego Tajeda, direttamente dalle fila degli Haken. Alle chitarre potremo contare sull'estro di Mike Keneally (già collaboratore di Frank Zappa) e di Markus Reuter (Tuner, Stick Men, The Crimson ProjeKct), quest’ultimo alle prese con una pittoresca touch guitar. E mentre Morgen Agren dei progster svedesi Kaipa siede saldamente dietro alle pelli, al basso troviamo Nathan Navarro, presente nella formazione che ha realizzato “Empath”. Dulcis in fundo, la bellissima Che Aimee Dorval (dai Casualties of Cool, progetto country-rock dello stesso Townsend) in veste di vocalist e chitarrista. Insomma, quattro chitarre sul palco (inclusa quella di Devin), tre coriste, dieci musicisti in tutto possono rendere l’idea dell’impatto visivo e sonoro che possiamo aspettarci dalla serata.
Alle tastiere ci imbattiamo nuovamente in Diego Tajeda, direttamente dalle fila degli Haken. Alle chitarre potremo contare sull'estro di Mike Keneally (già collaboratore di Frank Zappa) e di Markus Reuter (Tuner, Stick Men, The Crimson ProjeKct), quest’ultimo alle prese con una pittoresca touch guitar. E mentre Morgen Agren dei progster svedesi Kaipa siede saldamente dietro alle pelli, al basso troviamo Nathan Navarro, presente nella formazione che ha realizzato “Empath”. Dulcis in fundo, la bellissima Che Aimee Dorval (dai Casualties of Cool, progetto country-rock dello stesso Townsend) in veste di vocalist e chitarrista. Insomma, quattro chitarre sul palco (inclusa quella di Devin), tre coriste, dieci musicisti in tutto possono rendere l’idea dell’impatto visivo e sonoro che possiamo aspettarci dalla serata.
Serata che si apre proprio con un discorso politico di Devin, ovviamente critico nei confronti della Brexit: “Amici, non curatevi di tutte queste stronzate e godetevi queste due ore da trascorrere insieme!”. Mai parole potevano essere più calzanti. Gli umori caraibici di “Borderlands”, lo sfondo raffigurante la classica isola deserta, le camice hawaiane indossate dai vari componenti della band sono un vero toccasana per lenire le tensioni di questo specifico momento storico, nonché per farci dimenticare, almeno per un attimo, l'imperante pioggia della capitale inglese.
Durante i primi due brani (il secondo è “Evermore”, sempre dall’ultimo album) non posso trattenere le lacrime: non tanto per i brani in sé, quanto per il tocco magico di Devin, superbo musicista, potente cantante, ma soprattutto intrattenitore di prim’ordine. Mille e mille saranno i siparietti che si consumeranno fra il musicista e il pubblico, continuamente corteggiato, tanto che i brani verranno estesi, interrotti, stravolti per permettere al pubblico di partecipare attivamente. Ma a colpire più di ogni altra cosa è quel radioso sorriso che rimarrà stampato sulla faccia del Nostro per tutto il tempo del concerto. Esprime un affetto, un amore per il pubblico che è difficile riscontrare oggigiorno: se è vero che Devin ha sofferto di depressione e di disturbi bipolari, ci fa piacere constatare che egli si trovi in una fase così piena di vitalità ed ottimismo, anche se, a guardar bene, gli occhi rimangono quelli del pazzo: punto fisso, insieme alla bocca perennemente spalancata, di un ampio range di espressioni facciali e smorfie che si riverseranno su di noi senza soluzione di continuità.
Di questa folle positività riluce tutto “Empath”, che ovviamente occuperà spazi importanti nella set-list. La scelta dei brani, in generale, sembra cucirsi intorno a questa rinnovato stato emotivo. Il non-genere suonato da Townsend è un ricettacolo delle influenze più disparate (prog, jazz, avanguardia, metal, anche estremo) che stasera potremmo definire happy metal, o anche Pokemon metal, stando a certi video cartonanimateschi proiettati e ai pupazzi di animali continuamente tirati in ballo. Forse stasera non saremo inondati di classici, ma alla fine neanche ce li aspettiamo: ci affidiamo in toto alle scelte di Townsend, artista umorale che è bene canti e suoni ciò che più si sente. E di certo quello che ne conseguirà sarà uno show coerente, sentito, significativo dal primo all’ultimo minuto.
Si fa un primo salto nel passato con l'immancabile “War”, presenza fissa nei concerti del Nostro, e il suo incedere travolgente scalderà ulteriormente l’ambiente, fra corposi riff di chitarra (finalmente!) e ritmi cavalcanti. Chiude la prima parte del set una perfetta esecuzione di “Sprite”, che invece dà rilievo alla dimensione più intimistica dell'arte di Townsend: per mezzo di raffinate tessiture jazz-fusion e della bella voce della Dorval, ha modo di materializzarsi sul palco uno degli episodi più sperimentali di “Empath”. Applausi.
Si apre la fase dedicata a “Ki”, fase che un po’ temevo in quanto non è esso fra i miei album favoriti di Townsend. Ma mi sbagliavo (mai del resto dubitare di Devin Townsend!): i quattro brani selezionati si riveleranno una parentesi decisamente interessante della serata, dominata prima da umori jazzy e poi da ritmi funk (ovviamente al servizio della allucinata visione artistica del padrone di casa). Da applausi l’introduzione strumentale che ha visto come protagonisti i soli Townsend e Morgen Agren, seduto dietro ad un kit ridotto di batteria. Si respira aria di avanguardia, di quella giocosa e bizzarra del maestro Frank Zappa, il cui spirito aleggerà su di noi per tutta la serata. Esilarante, in particolare, il passaggio in cui Townsend porge gli oggetti più disparati (un ventilatore, una bottiglia, un bollitore ecc.) al prode batterista che sfoggerà un incredibile bagaglio tecnico percuotendo virtuosamente ogni corpo inanimato che si trovi a tiro di bacchette. Se dopo un po’ di tempo inizieremo a percepire un po' di stanchezza legata ad un sound eccessivamente scarno e minimale (da segnalare comunque la solida accoppiata “Gato” / “Heaven Send”), capiremo presto che l'intera sezione è stata funzionale per creare le giuste premesse per quello che si rivelerà la fase più intensa dello show.
Sullo sfondo appaiono i colori gelidi di un paesaggio innevato, che vorrebbe richiamare gli umori del capolavoro “Accelerated Evolution”: “Deadhead”, violenta quanto malinconica, aperta dal suo bellissimo refrain di chitarra, con il suo incedere fra cantautorato e post-metal, è la perfetta testimonianza di quel wall of sound che ha caratterizzato il passato dell'autore. Si capisce che fu scritta in preda ad uno stato emotivo ben diverso da quello vigente stasera, ma la bellezza del brano è tale che il suo drammatico evolversi non cozzerà affatto con il quadro generale. Suoni limpidi ed annichilenti al tempo stesso fanno da supporto ad una prestazione vocale ineccepibile, con screaming devastante nel finale accompagnato dal divampare delle fiamme degli scenari apocalittici proiettati alle spalle della band.
Giusto qualche istante di pausa per riprendersi dalle emozioni, ed ecco che il nostro eroe torna sul palco in tutù per dispensarne ancora più forti, suggerendoci peraltro che è giunto il tanto atteso momento di “Why?” (a parere di chi scrive fra i migliori brani mai concepiti dal Nostro). E’ possibile mescolare growl e atmosfere disneyane? Per Devin Townsend sì, responsabile non solo di una prova vocale eccelsa, ma anche di un un siparietto irresistibile in cui il Nostro interrompe il brano più volte per insegnare al pubblico a cantare in growl e per poi essere supportato nell’esecuzione del brano stesso, che si concluderà nel modo più epico possibile. Emozioni, lacrime e risate: questa è l’unicità di un artista come Devin Towsend.
Con perfetto tempismo arriva la scanzonata “Lucky Animals”, che riporta nelle nostre orecchie le chitarre elettriche e la forza dell'heavy metal (il brano, peraltro, si rivelerà un altro momento memorabile nel quale il pubblico verrà reclutato per supportare con bislacche coreografie l'esplosivo ritornello). Si torna a far sul serio con la formidabile “Genesis”, la quale ribadisce tutta la genialità dell'autore nel saper creare improbabili commistioni fra i mondi stilistici più distanti (ma si è mai sentita una cosa del genere nel metal?). E’ in questo frangente che emerge più che mai la grande versatilità dei musicisti, che da un lato sfoggiano una sensibilità jazz e progressive, ma dall’altro non si tirano indietro innanzi al death metal, peraltro interpretandolo in modo vincente. Il fatto è che l'estrema naturalezza con cui un genio come Townsend mescola le carte in tavola fa sembrare quasi banali o “normali” cose che nessuno altro può fare, né tanto meno concepire.
Non mi entusiasmano invece la versione acustica di “Spirits will Collide” e la riproposizione di “Disco Inferno”, cover dei Trammps: la prima viene introdotta da un invito a non arrendersi e da una dedica a tutti coloro che hanno perso un caro a causa della depressione (un fantasma ancora presente nella vita rischiarata del Nostro). La seconda non l’ho mai potuta sopportare e questa volta il tocco di HevyDevy non basta per cambiarle i connotati, i quali rimangono tutto sommato gli stessi dell'originale: uno stra-sentito inno da pista da ballo cantato quasi interamente dalla Dorval, che per l’occasione sfoggia una nuovo abito (l’ennesimo).
Arriva infine “Kingdom”, classico dei classici, a chiudere in modo trionfale un’esibizione che, stando alle voci, dovrebbe un domani essere inclusa in un DVD di prossima uscita. Mentre il pubblico entusiasta inonda di applausi i musicisti sul palco, è bello farsi ipnotizzare ancora una volta dal sorriso di Devin, che continuerà ad indossarlo anche una volta sceso dal palco, a dimostrazione che l’uomo, per una volta, coincide con il personaggio.
Post Scriptum. Adesso che scrivo queste mie parole, il verdetto delle elezioni in UK è già stato reso noto: hanno vinto i conservatori di Boris Johnson, ennesima conferma che lo stato deteriorato del capitalismo, l’impoverimento collettivo, l'ignoranza imperante, la minaccia dei flussi migratori, la lontananza nel tempo dai grandi conflitti bellici sta generando nel mondo occidentale quella paura di cui si cibano, ed al tempo stesso alimentano, questi nazionalismi/provincialismi privi di senso e al di fuori di ogni convenienza personale. Per contrastare tutto questo, almeno per una sera, c’è il messaggio confortante di Devin Towsend, c’è l’umanità di Devin Towsend, quell’umanità che è da sempre motore pulsante della sua arte e che sul palco (provare per credere) è capace di manifestarsi ancora in modo più potente.
Grazie Devin
Grazie Devin