La nostra rassegna sul metal pinkfloydiano parte dunque con una band tutto sommato poco pinkfloydiana. Oppure no?
1989: il grande equivoco
A supporto dell’album “Nothingface” fu realizzato il video di “Astronomy Domine”, brano che non portava la firma dei Voivod, bensì quella dei Pink Floyd. Si capisce la ragione della scelta: come singolo di lancio “Astronomy Domine” funzionava alla grande, essendo l’episodio più orecchiabile del lotto. Esso poteva essere l'amo ideale per "agganciare" anche coloro che non fossero fan della band, la quale fino ad allora aveva cibato il pubblico metal con album ostici e non di facile fruizione.
I Nostri, del resto, si erano differenziati all’interno del neonato movimento thrash metal come la sua variante “intelligente”, grazie ad una formula che vedeva camminare a braccetto l’aggressività tipica del genere con brani dalle strutture imprevedibili, suoni futuristici e testi visionari che ben si allineavano alle atmosfere allucinate dei loro album. Nascevano nell’immaginario collettivo i “Pink Floyd del metal”, con la silenziosa complicità della band, che certo gradiva l’accostamento visto che i Nostri non hanno mai nascosto la propria ammirazione per la leggendaria formazione inglese.
A ben guardare, tuttavia, il sound dei Voivod presentava pochi rimandi diretti alla musica dei Pink Floyd e i tratti comuni tra le due band si limitavano alla primissima parte della carriera degli inglesi, dediti in principio ad una psichedelia fracassona illuminata dal genio visionario di Syd Barrett. Tracce di Voivod sono così rinvenibili nei primi lavori dei Pink Floyd ed in particolare nel folgorante debutto “The Piper at the Gates of Dawn”: nel caos e nelle dissonanze di episodi come “Astronomy Domine”, appunto, ed “Interstellar Overdrive”, dove riff imponenti tracciano traiettorie spaziali che i canadesi non avrebbero ignorato. Volendo, anche la voce stranissima di Denis Bélanger, in certe sue inflessioni, poteva ricordare l’estro stralunato di Syd Barrett, ma insomma, non definirei "Nothingface" un album propriamente pinkfloydiano.
Il sound dei Voivod, peraltro estremamente originale ed essenzialmente non riconducibile ad altri, annetteva certamente stilemi pinkfloydiani, ma tale influenza non emergeva più di altre. Ascoltandoli, ci si rende facilmente conto che un nome come quello dei King Crimson, altro amore dichiarato da parte dei Nostri, è già più vicino alle asperità elettriche elargite dai canadesi (che peraltro ci avrebbero successivamente regalato una cover anche del Re Cremisi, la bella “21st Century Schizoid Man”). Ma ci sono tanti altri artisti che possono venire in mente prima dei Pink Floyd, soprattutto sul versante punk e post-punk: ascoltate per esempio “In the Flat Field” dei Bauhaus, dove la somiglianza con i canadesi si fa a tratti davvero palese. Senza dover poi ricordare l'ossessione della band per la tecnologia condivisa con il regista David Cronenberg, anch'esso canadese.
Perché allora non si è mai descritto i Voivod come i “King Crimson del metal”, come i “Bauhaus del metal” o come i "Cronenberg del metal"? Per comprenderlo bisogna calarsi nel contesto dell’epoca: una fase in cui il metal (soprattutto quello estremo) viveva il suo sviluppo in modo autoreferenziale, estraneo a contaminazioni provenienti da ambienti al di fuori del metal stesso. Probabilmente il mondo metal, dall’appassionato fruitore fino alla stampa specializzata, per dato di fatto o per esigenze comunicative, doveva operare semplificazioni mostruose quando si andava a descrivere un’entità assurda come i Voivod, che sapeva pescare dal rock progressivo come dalla psichedelia, dal punk come dal post-punk, appunto. Una cover, un’attitudine sperimentale sui generis e concept spaziali (che poi non erano nemmeno prerogativa della band inglese) valevano bene l'appellativo di "Pink Floyd del metal". Cosa ingiusta da tutti i punti di vista, ma soprattutto per i Voivod stessi, visto che le influenze più disparate venivano centrifugate, riplasmate e rese irriconoscibili attraverso il genio artistico di musicisti che mai si sono limitati a copiare.
1993: “The Outer Limits”
I Voivod nel 1993 suonavano oramai un altro genere: il thrash metal iper-complesso di lavori come "Killing Technology", “Dimension Hatross” e il già citato “Nothingface” aveva ceduto il passo ad un suono più snello, forse meno complicato nella resa sonora, ma non meno ricercato nel suo concepimento. Che si fossero venite a creare le condizioni affinché l'anima pinkfloydiana della band potesse esprimersi, finalmente svincolata dalle fitte trame del metallo?
Niente affatto! “Angel Rat”, del 1991, era stato l'album della svolta: la band si slegava dalla dimensione del concept (abbandonando, almeno temporaneamente, la saga del personaggio Voivod) e confezionava una semplice raccolta di canzoni. Ma soprattutto abbracciava una visione artistica inedita, ripulendo i suoni, semplificando le strutture, finendo per odorare di punk con brani brevi, scorrevoli, dalle lodevoli intuizioni melodiche. Ancora una volta agli antipodi del paradigma pinkfloydiano.
“The Outer Limits” avrebbe percorso lo stesso canovaccio, pur utilizzando una tavolozza con più colori. Tutt'oggi non saprei sotto quale categoria classificarlo: lo si definiva ancora thrash (per convenzione), poi in seguito prog (per approssimazione). Di materia pinkfloydiana in senso stretto non è che ve ne fosse in abbondanza anche a quel giro, ma un suono più pulito e schemi più lineari permettevano a certi tratti stilistici, debitori della formazione inglese, di emergere con maggiore evidenza, soprattutto per quanto riguarda l'egregio lavoro di Denis D’Amour, mago degli effetti e prodigio delle sei corde. Si pensi agli assoli, dal tocco palesemente gilmouriano, della estrosa “Moonbeam Rider”, della pseudo-ballad “Le Pont Noir” o i fraseggi, i giochi di volume nell’intermezzo di “Time Warp” (che si fregia, volendo, di un chorus che può ricordare certe armonie vocali dei Pink Floyd della seconda metà degli anni settanta). Dettagli che era difficile cogliere nel marasma cacofonico del passato, smarriti nel budello labirintico di composizioni che intendevano far perdere la cognizioni di spazio e di tempo all'ascoltatore.
Ma come in passato i tratti pinkfloydiani convivono con molte altre influenze: "The Outher Limits", sebbene arricchito da mille preziosismi, ha un piglio hard-rock e post-punk, dove il drumming dinamico di Michel Langevin lascia ben poco spazio alla solennità e magniloquenza che in genere caratterizzano la musica dei Pink Floyd. Lo si capisce subito dalla scattante opener “Fix my Heart”, tempi spediti e chitarre incendiarie: concetto ribadito con incisività nelle conclusive “Wrong Way Street” (dal bel groove grazie ad una bella ossatura di basso) e “We are not Alone”, degno finale di un'opera scorrevole quanto complesso, che non ammette segni di cedimento alcuno. “The Lost Machine”, che fa il doppio a livello di complessità strutturale con la sopra citata “Time Warp”, presenta passaggi meno intuitivi, preferendo però rincorrere le lusinghe del progressive, piuttosto che i languori della "magia pinkfloydiana". Ed anche i diciassette minuti della sublime “Jack the Luminous”, da cui, considerata la durata, potremmo aspettarci ben altre fascinazioni, non molla il piede dall'acceleratore, viaggiando in altre galassie rispetto alle celebri suite di Gilmour e colleghi. Come "Angel Rat", anche questo tomo si svincolava da un concept unico che leghi fra di loro i brani.
Perché allora dire che “The Outer Limits” è un album metal pinkfloydiano? Uno, perché, come si diceva all’inizio, erano tempi, quelli, in cui il metal era più refrattario a contaminazioni azzardate (cosa normalissima ed accettatissima, oggi). Da un punto di vista culturale, pertanto, si utilizzavano diverse categorie per definire un determinato sound. E per l’epoca i Voivod davvero potevano essere considerati pinkfloydiani. Due, perché le lezioni di Waters e soci sono in verità ben presenti lungo i solchi di questi nove brani, principalmente sul piano dell' attitudine: nella ricerca dei suoni, nella cura degli aspetti della produzione, nell'analisi sociologica delle liriche (sebbene esse vengano calate in scenari distopici), nella carica visionaria della musica.
Ma se volete la certificazione di album pinkfloydiano, eccola che arriva con un’altra cover dei Pink Floyd: “The Nile Song” (dall’album “More”), episodio piuttosto atipico nel repertorio pinkfloydiano, costituendo esso uno dei rari esempi di rock d'impatto. E c'è da dire che la magia si ripete: come già successo con “Astronomy Domine”, il brano originale e il rifacimento si rivelano essere molti simili, con il paradosso che, pur suonando le due band in modo diversissimo, la versione dei canadesi risulta inaspettatamente 100% Voivod.
A dimostrazione di come i Nostri abbiano introiettato certe nozioni e le abbiano sapute rielaborare con estrema naturalezza. Prerogativa dei grandi.