Il carrozzone dell'atmospheric black metal approda negli Stati Uniti, che già era stato l'insospettabile teatro per la rinascita del black metal nel terzo millennio. Non parleremo tuttavia dei protagonisti di quello che sarebbe stato battezzato come US Black Metal: lontano da quel fermento di artisti che rifondavano il genere individuando “segrete corrispondenze” tra la loro terra di origine e le lande e il folclore che ispirarono i maestri scandinavi, si schiudeva uno scrigno prezioso, ove rinvenire un piccolo tesoro che non verrà certo dimenticato.
Correva l’anno 2013 e su quello scrigno era impressa l’iscrizione “Echoes of Battle”: il titolo dell'album di debutto dei Caladan Brood, entità avulsa dai circuiti che contano del black metal a stelle e strisce, e sostanzialmente spostata su coordinate stilistiche assai diverse. I Nostri, infatti, piuttosto che ai fasti della Norvegia degli anni novanta, guardavano in direzione di Vienna, dichiaratamente devoti all’arte dei Summoning.
Jake Rogers e Sven Smith (in arte Shield Anvil e Mortal Sword) sono evidentemente interessati a curare altri progetti, considerato che dopo questo unico capolavoro, il monicker Caladan Brood non sarà più associato ad altri titoli, rimanendo silente nonostante il duo sia da considerare ancora attivo. Cosa, questa, che fa accrescere ulteriormente l’alone di leggenda intorno a questo lavoro, evidentemente il frutto estemporaneo di un'ispirazione che non si è potuta più ripetere. Ma con un album così, in quasi tre lustri di esistenza, val bene la pena iscrivere la band negli annali del black metal, almeno per quanto riguarda quello atmosferico.
Come si diceva in apertura, i Summoning sono stati la musa ispiratrice per questa musica, ma ciò non toglie che “Echoes of Battle” possa essere considerato ben più di un'opera derivativa: la personalità riversata nel rimodellare la formula messa a punto, già una quindicina di anni prima, da parte del duo austriaco, è tale da rendere questo lavoro, a mio modesto parere, persino più entusiasmante di ogni altro album rilasciato dagli stessi Summoning. Ma è una opinione personale - non si offendano i fan dei pur grandi Summoning...
Composizioni mediamente lunghe (sei per oltre settanta minuti di durata complessiva), tempi medi condotti da una implacabile drum-machine, tastiere in abbondanza, inserti di folclore medievale e tanta tanta tanta epicità: questi sono gli elementi palesi che vengono mutuati dalla visione artistica dei Summoning. Vi è poi l’aspetto lirico-concettuale: se per gli austriaci, almeno inizialmente, fu di ispirazione la letteratura di J.R.R. Tolkien, i Caladan Brood adottano come proprio mentore Steven Erikson, autore della saga fantasy “Malazan Book of the Fallen”.
Tracciate le analogie fra le due band (incontestabili anche nella scelta di determinati temi melodici), c’è francamente da ammettere che i Caladan Brood risultano deboli proprio quando vanno a scimmiottare in modo spudorato i loro maestri, soprattutto in quei break dove si fanno spazio trombette e flautini che, personalmente parlando, trovo insopportabili. Ma tolta questa macchia (più un pelo nell’uovo che un vero difetto), i due americani si muovono con grande disinvoltura e destrezza, confezionando un prodotto che, da molti punti di vista, risulta davvero notevole e, ripeto, migliorativo rispetto alla formula originale.
Si rinviene, anzitutto, un “cuore pulsante” che anima i brani, che li rende vibranti, vivi, “umani”, laddove la musica dei Summoning appare, a volte, una fredda applicazione ed una altrettanto fredda replica di escamotage stilistici già omologati. Aiuta una produzione grezza, in grado comunque di dare evidenza a tutti gli strumenti: una produzione “de core” che supporta il potenziale emozionale di questa musica.
Vi è poi - aspetto che tendo ad apprezzare in modo particolare - uno sviluppo delle composizioni più imprevedibile di quanto previsto dalla scrittura dei Summoning, che io ho trovato sempre un po’ imbalsamata e a tratti tendente al prolisso. Non dico che si possa parlare di autentico approccio progressivo, ma di sicuro le tracce di “Echoes of Battle” suonano dinamiche, con passaggi melodicamente riusciti, un fluido dialogo fra chitarre e tastiere e condimenti assortiti che gettano pepe sulla pietanza, come il frequente utilizzo di voci pulite e persino un paio di begli assoli di chitarra collocati nei punti giusti.
Ecco, se la musica dei Caladan Brood ha un pregio, è quello di costituire una sequenza equilibrata di tasselli sonori, sempre i soliti, ma distribuiti con grande intelligenza e gusto compositivo. L’opener “City of Azure Fire” (dieci minuti) chiarisce il concetto e la successiva title-track (nove minuti) lo ribadisce: venti minuti complessivi sempre sulla cresta dell’onda fra riff di chitarra ispirati ed avvolgenti tastiere, ritmiche lineari ma che sanno quando variare, pause e ripartenze a tenere desta l’attenzione, cori epici ad alzare il tasso di fierezza. La musica supporta il concept narrativo e viceversa, in un intreccio fra atmosfera, suggestione e ricerca melodica che è davvero capace di spalancare porte su altri mondi.
Come si diceva sopra, si va oltre la capacità descrittiva dei Summoning. Il cuore e il calore che ha saputo esprimere il black metal americano è un valore aggiunto che rende pulsanti, vitali i brani dei Caladan Brood. Per esempio l’incipit di chitarra di “Wild Autumn Wind” (quasi quattordici minuti) se lo possono solo sognare gli amici Silenius e Protector: un cuore, un calore, un guizzo di vitalità che non troverà mai spazio in un album degli austriaci.
Oppure prendete i tredici minuti di “To Walk the Ashes of Dead Empires”, top-song secondo il parere di chi scrive, e percepite quel coinvolgimento di cui si parlava sopra, quella sensazione di sviluppo imprevedibile che un brano dei Summoning, passati i cinque minuti, non potrà mai avere. Ed in effetti, dall’apertura goticheggiante a base di ariose tastiere, all'inaspettata sparata che francamente non era più lecito aspettarsi, il range espressivo del duo americano spazia alla grande, ma sempre con equilibrio ed eleganza. Se nella forma i nostri guardano indubbiamente ai Summoning, è come se, nella sostanza, avessero assimilato le lezioni degli Opeth di album come "Morningrise" e "My Arms, Your Hearse".
Stessa impressione che si ha nella porzione finale dell’altrettanto bella “A Voice of Stone and Dust” (altri dieci minuti), in cui, ad una accelerazione improvvisa si va ad unire un plateale assolo di chitarra (e si badi che il tasso tecnico a disposizione dei due non è banale) ed uno di pianoforte. Nel quarto d’ora della conclusiva “Book of the Fallen”, la musica non cambia: aperta da tronfi cori di voce pulita a cappella (che verranno poi ripresi più volte), il brano si evolverà all’insegna della ruvidità, con riff più aggressivi e il consueto corredo sinfonico-orchestrale, generando nella mente dell'ascoltatore pittoresche immagini di campi di battaglia cosparsi di sangue rappreso ed armi conficcate nel suolo.
Insomma, si casca sempre bene in “Echoes of Battle”, purché si dia il tempo a questo lavoro di rivelare tutte le sue innumerevoli sfumature. E soprattutto dare il tempo all’orecchio di abituarsi a certe storture che ad un primo ascolto potrebbero rivelarsi fuorvianti nel formulare un giudizio obiettivo sull’opera.
Bisogna abituarsi alla drum-machine, che per quanto sia programmata con intelligenza, costituisce sempre un duro malloppo da ingoiare per il blackster più esigente.
Bisogna saper accettare quelle famose trombette di cui sopra, che faranno struggere in un brodo di farfalle gli estimatori dei Summoning ma anche far venire il latte alle ginocchia a tutti gli altri.
Bisogna infine essere indulgenti nei confronti di qualche pacchianata richiesta dal concept: magari il metallaro in generale è abituato, ma non colui che nel black metal cerca minimalismo e scavo esistenziale (in tal caso si vada direttamente, senza passare dal via, alla puntata su Paysage d’Hiver).
Lasciate alle spalle tutte questi preconcetti: ogni nota dispensata dal duo americano risulterà pregna di significato e valenza emozionale. Niente si spreca in casa Caladan Brood, sfruttiamo dunque al massimo questi settanta minuti rilasciati con parsimonia in ben tredici anni di attività…