La notizia è arrivata a fine agosto: il 29 ottobre uscirà il quinto album in studio dei Be’lakor, titolato "Coherence".
Ci stavamo giusto chiedendo in redazione che fine avessero fatto gli australiani posto che è passato oltre un lustro da quando, era il 24 giugno del 2016, uscì la loro ultima fatica, “Vessels”.
Del resto i 5 ragazzi di Melbourne non sono mai stati dei bulimici compositori: ad oggi, 4 dischi in 17 anni di carriera per una realtà che è riuscita, probabilmente fuori tempo massimo, a rinverdire i fasti del c.d. “Gothenburg sound”, quando quest’ultimo era già da quasi un decennio che pareva aver già detto tutto e stava, perciò, agonizzando.
E invece: mentre gli In Flames si
erano già strasputtanati con il loro noiosissimo metal-core, gli Opeth vagola(va)no nei campi nostalgici dei seventies, e le nuove leve (Soilwork,
Darkane, Gardenian su tutti) provavano, con ottima qualità tecnica ma con
soluzioni non troppo convincenti e un po' stantie, a riscriverne gli stilemi
ammodernandoli ai nuovi canoni di produzione del Terzo Millennio, ecco che la
proposta più convincente arrivava non dalla Svezia, ma dall’altro capo del mondo…
In attesa di valutare il nuovo capitolo della Be’lakor Saga, ecco Metal Mirror che viene incontro ai nostri lettori per una delle sue consuete “Guide rapide per chi va di fretta”.
Senza bisogno del Green Pass,
salite tutti a bordo con destinazione Australia…
“The Frail Tide” (2007)
Dopo 3 anni di gavetta, i Nostri
sfornano, autofinanziandosi, il loro debut: 42’ per appena 6, lunghi, brani. Monicker
evocativo, logo oscuro, copertina meravigliosa, titoli dei brani stupendi…le
premesse ci sono ma, soprattutto, ad esserci, è il sound della band. Derivativo
quanto volete ma, ed è sempre questo che fa la differenza, ispiratissimo. Nei
riff, negli assoli, negli inserti di piano e tastiera, negli arpeggi che
spezzano la tensione (o la aumentano?!?).
Se i primi Opeth e i Dark Tranquillity di “The mind’s I” sono i riferimenti più evidenti, è anche vero che i Be’lakor ci mettono tanto del loro, con strutture dei brani sempre varie ed articolate, sapiente uso dei pieni e dei vuoti e, soprattutto, azzeccando tutte-ma-dico-tutte le linee melodiche portanti (quella di “A natural apostasy”, poi, è da pianti…).
Il primo quarto d’ora del disco, la splendida opener
“Neither shape nor shadow” e la più tirata “The desolation of Ares”, mette le
carte bene in chiaro, riuscendo a estrinsecare a livelli altissimi tutte le
tessere del mosaico sopraesposte.
Per aggiungere gloria alla
gloria, e colori alla tavolozza della proposta, i Be’lakor ci regalano anche
una piano-ballad, “Paths”, 6’ di rilassatezza dopo un’iniziale cavalcata di
mezz’ora da togliere il fiato. E per prepararci ai quasi 9’ conclusivi di
“Sanguinary” che torna a pigiare il piede sull’acceleratore per una buonissima conclusione
di un album da avere nella propria discografia…
Voto: 8
“Stone’s Reach” (2009)
Passano due anni, i Be’lakor si
accasano presso l’italiana Kolony Rec.,
appena nata, e tirano fuori un’ora di musica nuovamente coi controrazzi.
Presentato da un’altra copertina
mozzafiato, “Venator” ci accoglie con un arpeggio opethiano al cubo. Ma la
sensazione di deja-vu viene subito spazzata via dalla qualità della song,
davvero incredibile per ispirazione ed elevato songwriting. Se il buongiorno si
vede dal mattino…
Si, il buongiorno non tradisce: i
7’ di “From scythe to sceptre” (ma è possibile che sti ragazzi australiani non
sbaglino un titolo che sia uno?!) riescono a fare ancora meglio, rimanendo nei
solchi di un melo-death di stampo progressivo vario, articolato e che scivola
via come un bicchier d’acqua. Idem per “Outlive the hand”, (che presenta uno
dei più begli arpeggi mai sentiti dalle orecchie del sottoscritto), e “Sun’s
delusion” (ma che titolone della madonna!!) altro highlight assoluto del disco.
Ascoltate il riffone-bridge a metà canzone + arpeggio strappalacrime + ripartenza a
bombazza...spettacoloooooo!
Se vogliamo essere rompicoglioni,
rimane rivedibile l’elemento vocale a cura di George Kosmas. Tecnicamente
valido, molto “profondo”, rimane, alla lunga, un punto di legnosità che non
giova alla proposta così fluida e ispirata della band.
Alla fine del viaggio, con gli spettacolari 10’ di “Countless skies”, un must dal vivo, si rimane completamente soddisfatti e appagati anche da questo secondo platter.
Un
platter, sia detto per inciso, che avremmo voluto vedere a firma Opeth, come degno successore di
“Watershed”. E invece, di lì a breve, ci sarebbe toccato “Heritage”…
Voto: 8
“Of
Breath and Bone” (2012)
Bando ai sentimentalismi e
immergiamoci nella terza opera dei Be’lakor. Personalmente, non mi aspettavo il
consueto salto di qualità/maturità della fatidica terza prova perché
qualità&maturità erano state profuse a piene mani già in “Stone’s reach”.
E non mi sbagliavo: il platter
“gioca” con gli stessi elementi del suo predecessore. Tanto gothenburg-sound,
struttura progressiva dei brani, pausa e ripartenze, accordi melanconici,
mid-tempo alternati a parti più tirate. Tutto confezionato ancora una volta con
professionalità e qualità (questa volta produce la Rockstar Rec, neonata label aussie).
La voce di Kosmas, pur adottando in qualche passaggio un profondo recitato, non muta (e non è una bella notizia) e il mestiere fa capolino più d’una volta. Prendiamo l’opener “Abeyance”, ad esempio. Tutti gli ingredienti della ricetta Be’lakor sono presenti e, per chi già li conosce, ti aspetti un po' tutto quello che poi, effettivamente, accade. Ma, per l’ennesima volta, rimane l’ispirazione delle linee melodiche e l'alta qualità dei riff che, in un genere come il melo-death, rimangono decisivi per la riuscita della proposta. Vedasi la successiva “Remnants” (la top song del disco): nulla di nuovo per i Be’lakor ma quando, al minuto 4’, parte un riff-bridge di struggente malinconia, e struggente bellezza, beh…che cazzo gli vai a dire ai ragazzi?
Anche quando i brani sembrano scorrere via senza
sussulti, messi assieme da un (più che buon) mestiere, ecco che arriva il riff
particolare, l’arpeggio azzeccato, la soluzione spiazzante, che rendono il
tutto frizzante e degno di ascolto.
Parafrasando quella vecchia
pubblicità del panettone, dove una frotta di pubblicitari si scervellava fino a
sera tarda, senza costrutto, per trovare uno slogan, e poi arrivava la ragazza
delle pulizie che, addentandolo, con folgorante semplicità esclamava “E’
buono”, così anch’io non posso che liquidare "Of Breath and Bone" dicendovi semplicemente: “E’
bello!”
Voto: 7+
“Vessels” (2016)
E arriviamo all’ultimo nato in casa Be’lakor. Accasatisi presso la prestigiosa casa austriaca Napalm Rec., i Nostri, forti di un nuovo drummer, spiazzano con una breve song iniziale, “Luma”, che ci immette nell’opera vera e propria. Le coordinate stilistiche non mutano granchè rispetto al passato: le note di “An ember’s arc” ci immettono nel tipico mood be’lakoriano ma quello che si avverte, sarà anche per la produzione, è un maggior senso di oscurità e cupezza rispetto al passato (e la copertina del disco, ancora una volta meravigliosa, ne era di per sé già un monito). “Withering strands”, assolutamente spettacolare, la più lunga composta in carriera dai 5 di Melbourne, mette in risalto il consueto approccio progressivo nella costruzione dei brani ma con una qualità di idee assolutamente invidiabile.
I Be’lakor, pur mantenendo uno stile ben definito e riconoscibile nell’arco
della loro parabola artistica, non sono rimasti fermi al 2007 e hanno provato a spingersi oltre come dimostrano, affianco a sezioni più canoniche, la presenza di altre (vedasi la seconda metà di “Roots to sever” o la strumentale “A thread dissolves”) che miscelano ambient, effettistica e qualche
accenno di umori dronici che ben si amalgamano al corpus melo-death/prog della
proposta.
Una sottolineatura più che
meritata, infine, per la conclusiva “The smoke of many fires” (altro titolo top), 9’ e mezzo che esprimono in modo fluido, naturale e molto “fresco”
quello che hanno (avevano?) da dire i Be’lakor in ambito Metal nel 2016.
Album credibile, efficace,
sincero.
Voto: 7,5
Aspettiamo perciò con fiducia il nuovo "Coherence" da parte di una band che in carriera non ha mai
sbagliato un colpo e che quindi, a buon diritto, può sventolare con fierezza le
sue 4 opere come fossero quattro vessilli…
A cura di Morningrise