Io che, appena cinque anni fa, mi indignavo per l'"Among the Living Tour", io che in anni recenti ho privilegiato concerti di artisti di nicchia, in locali relativamente piccoli, proprio perché in quella dimensione ho ritrovato maggiori benefici, sia per la convinzione e la credibilità dei musicisti mostrate sul palco che per la fruizione dello spettacolo come spettatore. Ma i tempi cambiano, le persone cambiano, soprattutto il mondo cambia e l'atmosfera da guerra fredda che respiriamo in questi giorni - ammettiamolo - un po' ci rimette voglia di trovare conforto nei lati positivi degli anni ottanta, come per esempio l'esplosione del thrash metal: una stagione in cui gli Anthrax furono indubbiamente dei protagonisti...
Sembra di essere nel 1985, non solo per le sonorità che avremo modo di
ascoltare, ma anche per il pubblico prevalentemente maschile e dalle fattezze
old school. Poco rilevante è l'età anagrafica: giovani ventenni e vetusti
cinquantenni tendono ad accomunarsi nell'ideal-tipo del metallaro degli anni
ottanta in un tripudio di giacchetti di jeans, toppe con i loghi dei gruppi, bandane variopinte, capelli sfibrati
e torbide teste rasate per chi non si può più permettere folte criniere. La sensazione è
di essere catapultati in un'era ancestrale in cui le entità femminili (quelle
"strane cose") erano bandite, ma è proprio l'assoluta mancanza di
varietà del pubblico che mette malinconia. Ringraziamo il cielo per la presenza, almeno, del
tizio vestito da indiano, unica nota di colore della serata...
Quanto alla musica, vi voglio annoiare con una dissertazione sul thrash metal, l'occasione del resto mi stimola profonde riflessioni. Punk e hardcore, indubbiamente, sono stati elementi fondamentali nella
genesi e nella definizione stilistica del thrash all'inizio degli anni ottanta. Di quelle componenti, tuttavia, se ne sarebbe presto perse le tracce. Grazie
agli Slayer (ma non erano ovviamente da soli) il thrash dette il la per i
generi estremi (death e black); qualcun altro, invece, avrebbe tentato la carta
della melodia o della tecnica, ma senza grandi esiti evolutivi per il genere. Il thrash, esaurito il suo momento magico, si sarebbe nei novanta convertito agli umori del
groove metal, dal quale sarebbe stato sostanzialmente soppiantato. Lontano dai riflettori, tuttavia, la concezione primordiale del thrash imbastardito con l'hardcore avrebbe continuato ad esistere: a suon di revival, un filone di band più o meno underground ha infatti continuato a masticare quel linguaggio, portando avanti quella attitudine, a testa bassa, senza compromessi. E stasera
con nomi quali Sworn Enemy e Municipal Waste siamo indubbiamente da quella parte della barricata. Giusto per tratteggiare le fragranze della serata.
Quando faccio il mio ingresso in sala gli Sworn Enemy hanno da poco esordito sul palco: sono i soliti suoni impastati dell'O2 Academy Brixton, squarciati dallo screaming che secca la gola di Sal Lococo. Il cantante ha New York scritto in fronte, si presenta in berretto da baseball e pantaloni a mezzo stinco in tipico hardcore style. Balza subito agli occhi un invasato bassista che piroetta senza sosta come un derviscio rotante, bello imbandanato ed indemoniato a richiamare certe movenze dei concittadini Biohazard. L'irruenza e l'approccio sul palco sono indubbiamente hardcore, ma nel complesso il suono dei Nostri rimane thrash, in prevalenza slayeriano. I Nostri sono quadrati e ben rodati (considerata anche la ventina di anni che hanno alle spalle), ma non hanno a mio avviso molto da dire. I brani si assomigliano e presentano le medesime soluzioni: la mia impressione è che ti vogliano rianimare a suon di scosse elettriche come si fa con i corpi esanimi sulla tavola operatoria. Le tentano tutte, invocano un pogo che solo raramente si concretizzerà e non mi stupisco che i momenti più apprezzati del loro set rimarranno le citazioni di Slayer e Pantera (con la riproposizione rispettivamente dei riff di "Raining Blood" e "Domination"). Perlomeno sembravano crederci. 6- per la buona volontà.
Le cose andranno decisamente meglio con i Municipal Waste, forti anch'essi di una onorata carriera di due decenni. Tony Foresta entra nel modo meno teatrale possibile, sembra quasi uno della crew che schizza defilato sul palco per gli ultimi ritocchi, e certo non ha una stazza imponente (di bassa statura e con pancetta). Brano dopo brano tuttavia egli saprà guadagnare l'attenzione del pubblico, aizzandolo continuamente, intonando cori anthemici e con un'ugola raschiante quanto basta. Molti sembrano essere lì per loro e il pogo sarà pressoché costante (il nostro inviato ci informa che il pogo è violento ma sconclusionato, caratterizzato dalla inesperienza dei partecipanti, così inetti da non essere nemmeno pericolosi - insomma, era tutto un raccattar persone da terra...). I quindici pezzi proposti scorrono via come un bicchier d'acqua, belli diretti ed efficaci nella loro semplicità. Non siamo grandi conoscitori del repertorio dei Municipal Waste, ma ci sentiamo di dire che il loro brano tipico inizia con un intro à la Metallica (mi è parso di udire più volte "Creeping Death"), spacca il culo per un paio di minuti e poi si conclude senza preavviso, come se la band si fosse stufata tutt'ad un tratto. Del resto i Nostri vanno dritti al sodo e la formula funziona, complice la precisione esecutiva che è un plus importante quando l'acustica del locale non è eccelsa. Foresta annuncia altri sei pezzi, e lì per lì accolgo con preoccupazione la notizia, meno male che - aggiunge - si tratterà di altri quattro minuti, cosa che mi fa tirare un sospiro di sollievo. Scherzi a parte, i Municipal Waste mi sono piaciuti molto, dimostrano estrema convinzione in quello che fanno ed è strano pensare che esistano ancora oggi realtà thrash così fieramente ancorate al passato. Ma passiamo adesso al piatto forte della serata.
Partiamo da una domanda fondamentale: chi sono gli Anthrax nell'anno di grazia 2022? È piacevole constatare che, con il ritorno di Joey Belladonna, quattro quinti della formazione storica è ancora sul palco, con l'imprescindibile Scott Ian alla chitarra, il "massiccissimo" Frank Bello al basso e l'inaffondabile Charlie Benante saldissimo dietro alle pelli. Completa l'organico il nuovo "ingressato" Jon Donais, chitarra solista degli Anthrax a partire dal 2013. Quanto alla loro quarantennale carriera, c’è da notare che dei 15 brani portati sul palco, ben 13 appartengono alla prima fase artistica, ossia quella che va dagli inizi all’abbandono da parte di Belladonna. Dell’era Bush avremo solo una traccia, l’ottima “Only”, ed idem per la nuova fase Belladonna, rappresentata dall’altrettanto valida “In the End” (dall'acclamato "Worship"). In un certo senso è come se si ammettesse che la sostanza di questa quarantennale storia si condensasse nei suoi primi dieci anni (cosa che ovviamente non vale solo per gli Anthrax, ma che deve comunque far riflettere sul reale lascito artistico nel lungo periodo dei mostri sacri del metal).
L’introduzione per questo tour (auto)celebrativo è un filmato in cui una miriade di personaggi noti e meno noti elogiano gli Anthrax, evidenziandone il carattere seminale (da Keanu Reeves a Lady Gaga, passando per John Carpenter ed ovviamente per una lunghissima schiera di volti noti del metal, fra i quali vogliamo almeno citare Gene Simmons, Dave Mustaine, Kerry King, Robert Trujillo, Gary Holt, Tom Morello, Henry Rollins, Brann Dailor, Corey Taylor). Che si tratti di auto-esaltazione o genuina rappresentazione della realtà, c’è da ammettere che l’operazione funziona, caricando di grandi aspettative l’avvento della band sul palco. L'ingresso avviene con un altro colpo di genio visivo, ossia dietro ad un tendone bianco illuminato da un faro che ben evidenzia le silhouette dei musicisti che, uno ad uno, prendono posizione.
Cala di colpo il tendone ed ecco che si palesa un palco a due piani con uno sfondo coloratissimo in cui vediamo riprodotte tutte le copertine degli album (anche di quelli che non verranno rappresentati). E finalmente la musica: si parte con un terzetto micidiale dove si susseguono niente meno che “Among the Living”, “Caught in the Mosh” e “Madhouse”, fra i classici più amati della band. L’impatto è buono, i suoni abbastanza puliti nonostante i volumi alti. La band appare fin da subito dinamica sul palco, con in prima fila un Belladonna longilineo e nero-crinito (che sembra essere stato ibernato per due decadi e scongelato per l’occasione) e un invadente Scott Ian che a più riprese ruberà la scena al cantante con interventi diretti a celebrare la band e a ringraziare i fan.
C’è da dire che gli Anthrax non sono un manipolo di
misantropi, anzi, quasi mettono in soggezione con la loro continua ed ostinata ricerca dell'interazione con il pubblico: di quelle interazioni che richiedono una reazione di assenso, un po' come accade con quelle persone che, detta una cosa, ti fissano negli occhi finché non annuisci per riprendere ad interloquire. Detto questo, mi sarei aspettato più pogo: il pubblico ha preferito cantare e gesticolare piuttosto che gettarsi nella mischia (come a dire che ha prevalso l'aspetto anthemico dei brani e non il loro potenziale distruttivo).
Fioccano i classici uno dopo l’altro, dalla vecchissima “Metal Thrashing Mad” (che secondo me non rende benissimo dal vivo - con Belladonna al microfono sembra quasi un pezzo di heavy metal classico) alla imponente “Keep in the Family”, pesante, lenta, pachidermica come lo era stato “Persistence of Time” (un grandissimo album ma in cui si iniziava a percepire la stanchezza che faceva il thrash metal nell’affacciarsi sulla decade novantiana). Torna a tirare su il morale la punkeggiante “Antisocial” (cover dei Trust ma presente come brano ufficiale in “State of Euphoria” – ma quanto sono bravi gli Anthrax a fare le cover!) con il ritornello irresistibile e il continuo botta e risposta fra Belladonna e il pubblico. Giova in sede live quel carattere che oserei definire “gospeliano” dei brani degli Anthrax, con la voce solista che si contrappone spesso ai cori della band e che dal vivo vengono rinforzati dal pubblico.
Sfrutto “I Am the Law” per andare a pisciare (non so perché ma è un brano che non mi ha mai ispirato) e mentre faccio la fila mi vien da pensare che se andassi nel bagno delle signore probabilmente lo troverei completamente vuoto. Al mio ritorno in platea mi accoglie il rintocco di campane che apre la cupa “In the End”, mid-tempo dal procedere epico e dalle fattezze quasi power metal, con un grande Belladonna che sembra mimare le gesta di Ronnie James Dio, a cui il brano mi pare sia dedicato. A questo punto un altro estratto della prima ora come “Medusa” inizia un po’ a pesare sullo stomaco, anche perché i brani ottantiani della band si muovono più o meno lungo le stesse dinamiche. Meno male che si apre una fase più sperimentale del set.
Incalza la batteria: è la coinvolgente “Only”, suonata con gran convinzione dalla band (a dimostrazione di come la svolta alternativa sia stata in fondo genuina) e cantata con partecipazione dal pubblico. Segue la parentesi “rap” con un medley fra la bombastica “Bring the Noise” (cover dei Public Enemy e riproposta ad inizio anni novanta in tandem con i Public Enemy stessi) ed “I Am the Man” (altro singolone hip-hop), entrambe con Scott Ian dietro al microfono (occasione, questa, per far riposare il buon Belladonna, che a dirla tutta in certe sperimentazioni non si è mai calato fino in fondo). Una boccata di aria fresca, questa, prima del turbinante gran finale con una torrenziale e dilatata versione di “Indians”, un'inaspettata “Got the Time” (non sempre presente in scaletta e mai a questo punto) e l’immancabile “Efilniklufesin (N.F.L)”, hardcoreggiante fino al midollo...Insomma, gli Anthrax quello che dovevano fare l'hanno fatto, non ci possiamo certo lamentare della scaletta che ha letteralmente catturato il meglio della carriera "quarantennale" della band, senza escludere alcun episodio di reale rilievo.
Siamo ai titoli di coda, ai ringraziamenti, ai baci, agli abbracci, ai selfie, ma ancora non riesco a dare una giusta interpretazione all’intera faccenda. Mi sono riscoperto a ricordare a memoria quasi tutti i brani proposti, a dimostrazione del fatto che, ascoltati in giovane età, certi passaggi, certe melodie, certi ritornelli, lungi dall’essere stati rimossi, si sono ben calcificati nella corteccia celebrale, intrecciandosi in modo indelebile alle spirali del DNA (sono consapevole che sto scrivendo cazzate a livello sia neurologico che genetico, nda). I momenti topici? Il finale di “Among the Living” (AMONG! AMONG! AMONG!), l’attacco di “Caught in a Mosh” (uno dei primi brani metal che abbia ascoltato in vita mia), il ritornello di “Keep in the Family” (epicità allo stato puro), l’incipit di “Only” (con ritmi tribali e riffing da lacrime), la festosa baraonda di “Bring the Noise” e “I am the Man” (indubbiamente un momento divertente), l’attacco di “Got the Time” (forse il mio brano preferito degli Anthrax – sebbene anch’essa sia una cover – "ma quanto son bravi gli Anthrax a fare le cover", l’ho già detto?).
Nonostante questo, non posso dire che i brani degli Anthrax, anche quelli più leggendari, mi abbiano lasciato quell’impressione monumentale di trovarmi innanzi alla Storia del Metal (una sensazione che, per esempio, l’esecuzione dal vivo di una “Master of Puppets” o di una “Raining Blood” mi ha suscitato in passato). Ma a parte questo giudizio del tutto soggettivo, non si può recriminare nulla alla band: ho percepito grande genuinità in questi signori. Probabilmente hanno anch’essi recitato la loro parte, ma meno che in altre circostanze ho avuto l’impressione che ci fossero persone annoiate e demotivate sul palco. Ironia della sorte: sono andato ad un concerto degli Anthrax con la puzza sotto al naso e mille pregiudizi negativi, pensando “o adesso o mai più", ed invece mi sono dovuto ricredere trovandomi di fronte a gente fresca, energica, fisicamente in forma, attitudinalmente positiva e che ha saputo confezionare uno show di altri tempi incentrato sulla musica e sul sano intrattenimento del pubblico. E che potrebbe andare avanti per molto altro tempo ancora. Un plauso particolare a Charlie Benante che a novembre prossimo compie sessant'anni ed ancora dimostra di saper picchiare come un fabbro.
E' tempo di andare, si è fatto tardi. Vicino a me, leggermente dietro, non posso fare a meno di notare un ragazzo giovanissimo (sedici, diciotto anni? sicuramente non più di venti) che, emozionatissimo, ha cantato e gesticolato tutto il tempo come solo un adolescente in preda ad un orgasmo musicale può fare. Ma non so se invidiarlo, in fondo rischia gravemente di finire come tanti cinquantenni qua intorno che non sono un ritratto edificante di umanità. E' stato un viaggio nel passato, del resto, e son contento che anche le nuove generazioni sappiano apprezzare spettacoli dal sapore inequivocabilmente vintage come quello di stasera.
Il pegno con la storia, in ogni caso, è stato pagato: anche l’ultimo dei Big Four è stato passato al vaglio del sottoscritto e posso dire di aver chiuso i conti in modo positivo con gli Anthrax (ammesso che ve ne fossero in sospeso) e forse con il thrash metal in generale (genere che da tempo non alberga più nel mio cuore). Adesso posso tornarmene serenamente in quei luoghi oscuri e di nicchia che indubbiamente rispecchiano in modo più fedele la mia concezione musicale odierna.