"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

26 giu 2020

THE BEGINNING OF THE END: "SOUND OF WHITE NOISE" (ANTHRAX)


Nel novero delle thrash band storiche, gli Anthrax sono sempre stati un caso a parte. Intanto sono di New York e non della West Coast. Hanno fin dalle origini fatto emergere un lato “fun” insolito per un genere che puntava sulla violenza espressiva e sull’evocazione di immagini catastrofiche. Amavano condire i loro album con delle cover che denotavano gusti al di fuori dell’universo metallico. E in tempi non sospetti (correva l'anno 1991) tentarono arditi incroci fra rap e metal (si ripensi alla collaborazione con i Public Enemy). 

Forse i Nostri stavano intuendo che certe sonorità, tanto in voga negli anni ottanta, erano oramai al tramonto, ancora prima dell’avvento del grunge e dello sdoganamento nel metal delle tentazioni crossoveristiche. Ma quello che gli Anthrax fecero con “Sound of White Noise”, anno 1993, rimane uno dei gesti più spiazzanti che band della Vecchia Scuola del Metallo abbia mai compiuto. 

Partiamo del presupposto che a me gli Anthrax non hanno mai fatto impazzire. Un po’ per quell’attitudine urban-gigiona-newyorchese di cui si diceva sopra, puntualmente corredata da cappellini da baseball, pantaloni corti e scarpe da tennis bianche; un po’ per il canto da sirena di Joey Belladonna, a mio parere non adeguato al contesto. Non fu per me un trauma dunque la dipartita del cantante, sebbene all’epoca io non conoscessi i trascorsi del suo sostituto John Bush (dai, diciamolo con serenità, nel 1993 gli Armored Saint non se li inculava nessuno!). 

Mettiamo anche che a me il grunge piaceva, per questo motivo accolsi con entusiasmo il singolo “Only”, che richiamava direttamente l’heavy-sound degli Alice in Chains (dell’anno precedente era il capolavoro “Dirt”). Senza contare il brivido di piacere nel vedere finalmente in orario diurno il videoclip di una band autenticamente metal (stesso brivido che si aveva avuto due anni prima con i vari singoli del "Black Album" e l'estate precedente con "Symphony of Destruction" dei Megadeth). Ricordo anche che la travolgente quanto orecchiabile "Only" venne apprezzata da diversi miei amici non proprio avvezzi al metal, a conferma della bontà della svola operata, almeno a livello di meanstream.

Non ho quindi nulla da ridire sull'accresciuta visibilità della band, sulla virata stilistica o sull’album di per sé, che peraltro non mi dispiacque affatto (ma che, detto per inciso, nemmeno mi fece gridare al miracolo). Il problema era un altro, era il fatto che quello non era un album degli Anthrax, perlomeno per come la band si era presentata fino a quel momento, con i suoi pregi e con i suoi difetti.

C’era sicuramente la timbrica diversa di Bush, ma c’era anche una produzione che stravolgeva il sound classico della band per consegnarlo alle sonorità del nuovo decennio. Sicuramente ebbe voce in capitolo un produttore come Dave Jerden, guru del rock alternativo che aveva lavorato, fra gli altri, per Red Hot Chili Peppers, Jane’s Addiction e per gli stessi Alice in Chains

Chiariamoci: una svecchiata era necessaria. Erano tempi in cui i Metallica con il Black Album avevano fatto conoscere il “thrash metal” al grande pubblico e i Pantera lo stavano laccando a nuovo, traghettandolo verso il groove metal (sempre del 1992 era stato “Vulgar Display of Power”). Ben vengano quindi brani più catchy e diretti, un modus operandi che tagliava passaggi prolissi e soprattutto si ribellava a certe ingessature del thrash ottantiano. I tempi rallentavano, dunque, per lasciare spazio a riff più cadenzati e quindi più incisivi, con suoni grassi e grondanti vibrazioni più vicine al mondo del rock che al metal. 

Nemmeno per un momento ebbi l’impressione che la band volesse sposare certe sonorità per motivi di mera opportunità commerciale (sospetto che invece covai fin dall’inizio per l’operato dei Four Horsemen), anche perché, ad ascoltar bene, la nuova proposta veniva inspessita dall'elevato tasso tecnico di una band abituata a domare composizioni ben più lunghe e tortuose (pregevoli come sempre gli assoli di Dan Spitz, seppur affogati nell'abuso del wah-wah). La stessa componente thrash non veniva del tutto rinnegata, con qualche episodio più tirato ed un rifferama ancora degno di una band che era stata inclusa, a ragione, fra i Big Four del Thrash Metal

E, attenzione attenzione, ogni tanto, ma assai raramente, venivano in mente persino gli Anthrax! Ed è questo il problema principale di “Sound of White Noise”: il fatto che sia figlio di una svolta dettata più da scelte di produzione che dalla composizione in sé. Aguzzando le orecchie continueremo a sentire il tocco di Scott Ian, le possenti rullate di Charlie Benante, il basso muscolare di Frank Bello; persino lo stesso Bush a volte fa delle uscite che ricorderanno Belladonna, in quanto il suo canto si va ad inserire in tessiture che evidentemente richiedono certi tipi di vocalità, a prescindere dal timbro.

Ma tutto questo non fa di “Sound of White Noise” un album degli Anthrax. In questa opera la personalità della band viene letteralmente schiacciata da una produzione invasiva che non è solo missaggio di suoni, ma anche mano direttrice e stimolatrice di determinate soluzioni, se non di una attitudine vera e propria. E quando durante l'ascolto vengono in mente in modo persistente nomi di altri artisti (Alice in Chains e Jane's Addiction su tutti), non è un bene per una band storica che avrebbe dalla sua un sound personale, definito e collaudato. Di tutti quei tratti identitari che avevano reso gli Anthrax un gruppo fondamentale (le geometrie ritmiche che avevano contribuito a dare i natali al thrash metal, il famigerato "mosh", i ritornelli anthemici e spesso cantanti a gran voce da tutti i componenti) non rimaneva l'ombra.  

L’epilogo è noto: seguiranno altri tre album con Bush, il quale non verrà mai accettato fino in fondo, non per sue colpe, ma per l’associazione del suo nome ad un sound che continuava a non convincere, nonostante la band avesse provato a recuperare terreno nei confronti dei vecchi fan, accelerando nuovamente e imprimendo maggiore attenzione sul fronte dell’impatto sonoro. Tentativi che non sarebbero serviti a scongiurare un esito inevitabile: nel 2011 uscirà “Worship Music” con il redivivo Belladonna dietro al microfono. E sembrerà di essere catapultati di colpo a venti anni prima. 

Tutti felici: critica, pubblico e band, tutti allegramente coinvolti in un processo di rimozione collettiva. Ian e soci, in particolare, si comporteranno come se nel frattempo niente fosse accaduto, portando sul palco i classici del periodo d’oro (si pensi all'"Among the Living Tour"), con una convinzione ed un sorriso sul volto che risultano tanto più urticanti nel momento in cui si comprende che ad essere rinnegato non è tanto un “passo falso” (non giudichiamo come tale il buon “Sound of White Noise”), ma un percorso in cui la band sembrava aver creduto per molti anni. 

E a noi, l'avrete capito, questi cambi di casacca non piacciono.

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