Ventiseiesima puntata – Remembrance: “Fall, Obsidian Night” (2010)
Abbiamo parlato in modo sistematico di più di una ventina di album di funeral doom, e non penso che questo sia mai stato fatto prima nella storia del metal, almeno in lingua italiana. In fondo descrivere i primi dieci è stato semplice, perché erano quelli che abbiamo considerato gli “essenziali”, quindi con caratteristiche ben precise che andavano a descrivere o la genesi di un certo sound o le diverse sfaccettature di quello stesso sound offerte da quella specifica band. Tutto sommato il gioco è stato semplice anche con i secondi dieci, che abbiamo selezionato proprio perché offrivano ulteriori versioni o peculiarità di quello stesso suono. Con questa terza decina, invece, iniziamo a faticare a mettere le parole in fila, perché il rischio di ripetere cose già dette si fa sempre più pressante. Se parliamo di questi album, significa che li riteniamo valevoli di essere considerati, ma in certi frangenti francamente diventa difficile costruire una specifica narrazione che possa calzare a pennello al singolo album.
Prendiamo i francesi Remembrance: eleganti, spudoratamente gotici, sulla scia degli Shape of Despair e dei Colosseum. Bravissimi, fantasiosi, intensi, tutto quello che volete, ma irrimediabilmente funeral doom. Cosa dire su di loro che non sia già stato detto sul conto di altri? Perdonatemi pertanto se una volta tanto sarò sintetico.
Partiamo da capo. I Remembrance vengono da Lille, Francia, sono operativi dal 2004 e con all’attivo tre album. Per voi, e solo per voi, ci siamo andati ad ascoltare il terzo, “Fall, Obsidian Night”, anno di grazia 2010. La band non sembra essersi ufficialmente sciolta, ma questo rimane ad oggi il loro ultimo lascito discografico.
Già dal monicker della band, dalla bellezza del titolo dell’album e dal carattere evocativo della copertina, si può intuire che abbiamo a che fare con gente di classe, che ci troveremo al cospetto di un lirismo che non intende sprofondare negli abissi più degradanti a cui il genere ci ha abituati, ma rispolverare i fasti del doom/death gotico degli anni novanta. Aspetto che non si ripercuote solo nei testi, ma anche nelle sonorità esplorate. Le lezioni di Paradise Lost e My Dying Bride sono la base su cui i Nostri vanno a innestare maestosi passaggi sinfonici in stile Tiamat e incursioni vocali femminili che evocano lo spettro di act quali primi Gathering e Lacuna Coil.
Un funeral doom, quello dei Remembrance, che dunque si offre ammaliante per orecchie raffinate che dal funeral non richiedano solamente devastazione emotiva ed atmosfere asfissianti. Anche la durata dei pezzi è clemente, sette tracce per 51 minuti, dove il limite dei 10 minuti non viene mai superato. Ma per una volta tanto sarebbero potuti durare anche di più questi brani, visto che la band ha grande padronanza dei propri mezzi e dispone di un songwriting brillante, che permette ai Nostri di comporre brani complessi che non stancano facilmente.
Considerata la maestosità e la compostezza del suono, ti aspetteresti un ensamble di almeno sei elementi, ecco che invece te ne trovi solo tre, con il terzo (il batterista Norman Muller) che è entrato in formazione solo con l’ultimo album. In precedenza, infatti, i Remembrance sono stati un duo, composto da Matthieu Sachs (voce e chitarra) e da Carline Van Roos (voce, tastiere, chitarra solista, basso e in passato anche batteria). Una sinergia, quella fra i due, che viene calcificata dalla loro militanza anche in un’altra band, i Lethian Dreams (atmospheric doom, tanto per variare!), i cui tre album ed un EP pubblicati negli ultimi dieci anni farebbero pensare che siano essi divenuti l'occupazione principale per i due musicisti. La Van Roos, inoltre, con smalto da polistrumentista, si muove in solitaria in un altro paio di progetti minori (Aythis ed Electra Lore). Sachs e Van Roos son dunque due che valgono per sei, rivelandosi in grado di allestire un sound ricco, stratificato e denso di sfumature.
Se l’ossatura viene data da Sachs, con un growl profondo e sofferto e una chitarra ritmica tanto incisiva quanto fantasiosa, le rifiniture spettano alla Van Roos, e proprio in queste rifiniture troviamo la vera marcia in più della band: possenti orchestrazioni, avvolgenti ricami di chitarra solista e poi i significativi interventi vocali, frequenti e soprattutto sensati. Perché non si ha a che fare con il classico lamento di angelo che fa venire il latte alle ginocchia, ma con una voce carismatica che, a seconda della situazione, fa venire in mente blasonate ugole del gothic metal come Anneke Van Giersbergen e Cristina Scabbia (si pensi, per esempio, allo stacco in “Stone Mirrors”, quando il brano sembra concludersi e subito riattacca con le energiche vocalità della Van Roos).
Una menzione d’onore va al drumming preciso di Muller, che si inserisce in questi solchi senza strafare ma con il tocco adatto per ogni circostanza, disseminando qualche preziosismo qua e là a dare ulteriore spessore e dinamismo a brani scorrevoli e coinvolgenti (in qualche momento mi sono venuti in mente anche gli Agalloch più maestosi, un riferimento che probabilmente non fa parte del bagaglio di influenze primarie per la band, ma che può incoraggiare il lettore a dare una chance a questo trio di musicisti ispirati).
I suoni, non c’è bisogno di dirlo, sono perfetti, pieni e levigati, ideali per rendere tutte le sfumature di arrangiamenti di una certa caratura. Fatta eccezione per la semi strumentale “Our Memories are Made of Stones” (un interludio sinfonico di quattro minuti e mezzo a base di tastiere e chitarra acustica, ma che non si fa mancare una strofa cantata in growl – delicatezze del funeral!), che viene posta al centro della scaletta e dunque con la funzione di spezzare il muro di suono allestito dalla band, i sei rimanenti brani si compongono degli stessi ingredienti, offrendo l’alternarsi di momenti pacati ad altri più potenti, ma senza mai assumere un atteggiamento “sopra le righe” né tantomeno premere il piede sull’acceleratore.
L’abbraccio di questa musica è fatale e sarà essa in grado di stregare ad ogni suo passaggio, vuoi che si tratti di un ammaliante giro di pianoforte o di una desolante chitarra arpeggiata, vuoi che ci si imbatta in un bellissimo riff o in una intensa linea melodica della voce. Di momenti memorabili, credetemi, ve ne sono diversi in ogni brano, cosa che rende questo gioiello di gothic metal “spinto” un porto ideale per tutti coloro che amano circumnavigare l’isola del funeral doom senza osare addentrarsi nelle sua selva più oscura.
Si era detto all’inizio che saremmo stati brevi, ma in questo caso non è per la carenza di contenuti (nell’album ve ne sono a iosa) né per mancanza di meriti della band: semplicemente, in casi come questi, si fa prima ad andare ad ascoltare la musica che perdersi in vocaboli idonei a descriverne la bellezza...