Questa volta partirei da una domanda semplice semplice: ma che cazzo ci faccio io ad un concerto dei Lamb of God? Cioè, non sono loro fan, li ho sempre snobbati e, a dirla tutta, non ho mai ben digerito quelle loro sonorità che non saprei nemmeno definire con esattezza (deathcore? Thrash metal? Groove metal? New Wave of US Heavy Metal?). Ma di una cosa sono certo, e me ne sono reso conto chiaramente fin dalla prima volta che li ho ascoltati, seppur distrattamente: i Lamb of God spaccano il culo.
Ed allora, ecco il motivo per cui mi trovo ad un concerto dei Lamb of God: essere colpito duramente, con la durezza di chi è esperto e ben equipaggiato, farmi frastornare a dovere in un vortice di metallo fumante da dei veri specialisti del settore. E chiariamo subito una cosa: siamo soliti bearci delle efferate esibizioni di band death e black metal in locali di dimensioni contenute, dove tutto è compresso, confuso ed amplificato, ma è tutt'altra sensazione quella di condividere un evento di metal estremo con una quantità di persone dieci volte più grande.
A questa mia strana decisione hanno poi contribuito diversi fattori, certi di essi fortuiti: la data già da tempo sold-out, originariamente prevista a dicembre dell'anno scorso all'O2 Academy Brixton (temporaneamente chiuso), è stata posticipata più volte, per poi trovare definitiva collocazione presso la ben più capiente Wembley Arena (di recente ribattezzata OVO Arena Wembley): proprio questo spostamento ha fatto provvidenzialmente tornare in circolazione i biglietti all'ultimo minuto. La Wembley Arena, peraltro, offre una migliore acustica, ed anche questo è stato un incentivo (perché se bisogna farsi spaccare il culo allora facciamocelo spaccare per bene!). La presenza come supporter degli amici Kreator, inoltre, ha sicuramente aiutato. L'assidua quanto snervante promozione dell'evento fatta da Matthew Scar, infine, ha fatto vacillare le mie ultime resistenze. Vediamo dunque se ne è valsa la pena.
Partiamo dalla Wembley Arena, a cui non facevo visita dal lontano 2017,in occasione della calata londinese degli Opeth. Per me, in verità, è come se fosse la prima volta, in quanto allora ero seduto in tribuna, e quello era un concerto prog: insomma, una situazione del tutto diversa. Sulle prime 'sta benedetta arena non mi ha fatto una grande impressione: le ingenti dimensioni mi hanno imposto uno studio sommario della planimetria riguardo alle esigenze primarie (bar e cesso, giusto per intenderci), ma le distanze sono notevoli, è facile perdersi fra gli accessi ai vari settori, ma soprattutto la birra al bar nella sala-concerti ha prezzi norvegesi (una pinta di birra 8 sterline e mezzo), no good at all! In compenso non c'è aria di ressa, il luogo è ampio e c'è dello spazio vitale fra gli esseri umani, per lo più di fascia 25-35 anni, con ovvie eccezioni (presente!).
Senza grossi rimorsi mi perdo l'ottima esibizione (così dice chi li ha visti) dei Sylosis, inglesi e dediti ad un mix di metalcore, thrash tecnico e melodic death metal: not my cup of tea, come si usa dire da queste parti.
Passiamo all'amico Mille Petrozza. Non vedevo i Kreator su un palco da una ventina d'anni. Con questa di stasera salgono a quattro le volte che ho visto dal vivo i Nostri, che ho seguito con ardore e devozione fino a "Violent Revolution", ma che poi ho perso di vista negli ultimi due decenni, non essendo molto interessato a quella forma di revival thrash da pre-pensionamento che ci propinano i tedeschi da cinque dischi a questa parte. Ma ecco che si spengono le luci, termina "Run to the Hills", usata in questo tour per riscaldare il pubblico (ma perché poi?), ed attacca l'intro morriconiano dell'ultimo album "Hate uber Alles", cosa che fa molto Metallica e molto poco Kreator (ancora: ma perché?!?).
La band fa il suo ingresso dietro ad un tendone trasparente che poco dopo cade giù svelando musicisti e scenografie, una trovata scenica che sembra andare per la maggiore di questi tempi. Sullo sfondo infernale di demoni scorticati, Mille Petrozza mi sembra alquanto invecchiato (le braccia poi mi sembra che si siano accorciate, tutto il corpo appare rincalcato, eccetto la testa che di contro rimane gigante rispetto al resto). Cosa dire dunque sul loro conto: i Kreator invecchiano male ma anche bene.
Mi spiego meglio: a colpirmi in negativo sono due cose. La prima è che i Kreator oggi mi sembrano a tratti i Running Wild, come se con la vecchiaia i Nostri fossero regrediti ad una forma primordiale di metal teutonico sui generis (o sarà colpa della Nuclear Blast?): i loro brani hanno preso un piglio anthemico che a momenti rasenta il power metal e questo secondo me non è un bene, soprattutto se abbinato ad un modo di fare da intrattenitore circense che il buon Petrozza ha oggi e che non aveva venti anni fa. Urla sprecando inutilmente fiato, incita, incalza, sventola bandiere, si spende in siparietti che mi hanno sempre urtato, tipo quei patetici botta e risposta in cui i diversi settori del pubblico sono chiamati ad esprimere il proprio entusiasmo (si facciano sentire quelli davanti, adesso quelli dietro, ora a sinistra, ora a destra ecc.). La cosa mi puzza come se il Nostro avesse seguito un corso accelerato di carisma tenuto da un motivatore aziendale, e qui ci sento ancora lo zampino della Nuclear Blast che, come al solito, rende tutto piatto, prevedibile ed anche un po' (tanto) kitsch (tipo i manichini infilzati da lance che stanno ai lati del palco e quelli impiccati che pendono dal soffitto: puerili espedienti scenici di cui la musica dei Kreator non ha mai avuto bisogno).
La seconda cosa che ho notato e che non mi è piaciuta affatto è la palese certezza che metà del concerto lo abbiano fatto i fonici dietro al mixer. L'impressione, infatti, è che Petrozza si limiti a borbottare e che i microfoni trasformino quel borbottio in urla vigorose fra echi e riverberi; che il buon Ventor sfiori a malapena la batteria e che dal mixer esca un drumming potente e preciso. Insomma, se è impietoso confrontare esibizioni a distanza di decenni (e sì che una volta i Kreator spaccavano il culo per davvero!), rimane l'amara consapevolezza che i concerti di queste cariatidi del metal siano inevitabilmente artefatti, finti e privi di reale fisicità e coinvolgimento diretto dei musicisti. Varrà ancora la pena assistere a questa tipologia di concerti?
Precisati questi due aspetti, i Kreator sono ancora qua fra di noi a raccontarci una storia lunga quasi quarant'anni e anche solo per questo meritano rispetto. La scaletta è breve ed asciutta ma ben bilanciata fra classici e brani più recenti, quest'ultimi costruiti evidentemente per affrontare la dimensione live nella vecchiaia, con i loro tempi moderati e i ritornelli orecchiabili che sembrano continuamente strizzare l'occhio ad un pubblico da arena. È il caso dell'opener "Hate uber Alles" e di brani come "Hail to the Hordes" e "666 - World Divided". Mille, ti voglio bene e sempre te ne vorrò, ma ad un certo punto ho avuto bisogno di andare al bar a prendermi due birre in una volta sola. Devo ammettere che da quel momento il concerto è decollato.
Per il sottoscritto le prime gioie arrivano con "Phobia", unico retaggio delle sperimentazioni degli anni novanta, ed è bello constatare come il suo procedere baldanzoso para-industrial à la Killing Joke ancora mieta vittime a quasi trent'anni di distanza. Si fanno ovviamente apprezzare le storiche "Flag of Hate" e la conclusiva "Pleasure to Kill": brani tiratissimi che la band ha saputo rendere bene proprio perché le incursioni nel passato remoto sono state ridotte al minimo, cosa che ha permesso di non disperdere le energie e di focalizzarle al meglio. In questa ottica è stato un bene aver sforbiciato un poco la setlist, sfrondandola di titoli come "Betrayer" o "Extreme Aggression" che avrebbero solo mostrato una band affaticata e non più capace di ammaestrare pezzi composti a vent'anni. Peccato solo per l'assenza di "People of the Lie" che dal vivo ha sempre funzionato benissimo.
Ripeto, massimo rispetto per Mille Petrozza e per la storia che rappresenta, ma con i Lamb of God è stata un'altra faccenda. Gli americani sono delle macchine da guerra, la loro musica è predisposta per essere riprodotta su un palco: fate voi i conti. Ancora una piccola digressione sul loro conto. Se "spaccare il culo" è una scienza (e gli Slayer ce lo hanno insegnato), i Lamb of God sono degli studenti preparatissimi. La loro formula è tanto semplice quanto vincente, ma badate, non così facilmente riproducibile: ci vuole determinazione e mestiere, e i Nostri ce li hanno entrambi. La loro discografia non spicca per grande varietà, ma quella commistione di Slayer e Pantera, ossia violenza + groove, funziona sempre come se fosse la prima volta. Oggi come venti anni fa (tanto lunga è la storia della band).
La scaletta non ha falle, presentando una sequela mozzafiato di brani datati e più recenti che si susseguono in un flusso sonoro cinicamente architettato di riff devastanti riprodotti senza pietà fra accelerazioni e possenti rallentamenti fatti appositamente per esplodere in nuove accelerazioni: un modulo che potrebbe alla lunga annoiare, ma che se fatto da maestri del settore come i Lamb of God risulta quanto mai credibile ed annichilente. In più, questo va detto, abbiamo il carisma del titanico Randy Blythe, che dal vivo ha ormai un consolidato "stile di conduzione" fatto di espressioni facciali accigliate, frasi di incitamento rivolte al pubblico fra una strofa e l'altra, salti e vorticosi handbanging con la colossale capigliatura, il tutto - cosa più importante - condito da un growl tagliente e ben scandito con qualche scream ad inasprire una pietanza fatta di rabbia e livore.
Buttiamoci dunque nella mischia e facciamoci travolgere dai watt senza troppi curarci dei dettagli: "Memento Mori" apre il concerto a mo' di tetra ballad per presto cambiare volto, farsi minacciosa e potente ed infine tramortirci in una fase centrale assassina. "Ruin", slayeriana fino al midollo, rincara la dose, confermandosi come uno degli episodi più riusciti della loro carriera. "Walk with Me in Hell" mostra invece il lato più melodico con refrain chitarristici che avvicinano i Nostri alla sponda del metalcore, mentre "The Resurrection Man" (fra le mie preferite) si sposta su tonalità più cupe, ma con al suo interno progressioni da infarto che culminano in una tesissima accelerazione nel finale. Su queste modalità si sviluppa un set di quattordici brani suonati in modo muscolare e con impeccabile precisione da musicisti che calzano a pennello il loro ruolo. Simpatica la contrapposizione visiva delle due asce storiche, con da un lato la barba e i capelli bianchi di Mark Morton e dall'altro il berrettino rosso con visiera e l'aspetto da ragazzino di Willie Adler.
Quasi la metà della scaletta si compone di estratti dai masterpiece "As the Palace Burns" e "Wake of the Ashes", scelta saggia visto che, in un contesto di alta qualità compositiva, i brani più vecchi hanno quel quid in più che esalta il pubblico ed acuisce ulteriormente il pogo pressoché persistente. Non ci stupiamo dunque se i momenti migliori saranno le solite "Now You've got Something to Die for", "Omerta", "11th Hour", con menzione d'onore per un trittico di brani finale letteralmente da urlo: una quasi meditativa "Vigil" (con tanto di intro orrorifico a base di tastiere) sembra infatti messa apposta lì per far tirare il fiato prima dell'ultima pazza corsa con le classicissime "Laid to Rest" (insostenibile l'intensità panteriana della parte finale) e l'irresistibile "Redneck", incalzante più che mai ad innescare il pogo più molesto della serata.
Ci si avvia all'uscita con la consapevolezza che forse il tanto atteso ma anche temuto cambio generazionale sia finalmente avvenuto. E non mi riferisco ai Kreator che, per quanto la Nuclear Blast li voglia pompare, rimangono una (splendida) realtà di nicchia. Mi riferisco al vuoto lasciato dagli Slayer dopo il loro ritiro dalle scene di qualche anno fa. I Lamb of God sono sicuramente da indicare fra coloro che, più di altri, hanno le carte in regola per raccogliere definitamente questa eredità e colmare il vuoto: non da un punto di vista artistico, ovviamente, ma nella capacità di portare ingenti masse di persone ad un concerto di metal estremo (la capienza della Wembley Arena, dove peraltro qualche anno fa i Lamb of God aprirono proprio per gli Slayer, è di 12000 spettatori). Forse in Italia i Lamb of God non sono molto conosciuti (del resto si parla di sonorità che vanno forte più che in altro negli Stati Uniti), ma c'è da ricordare al metallaro italiano che fuori dai confini italici i Nostri sono un fenomeno molto apprezzato, lo dimostra il pienone della data di Londra (città internazionale per eccellenza).
Se il futuro del metal "popolare" passi da qua o no, non saprei dirlo, ma ogni tanto farsi spaccare per bene il culo è una benedizione.
Ora possiamo anche tornare alle nostre bettole...