Meno nove: Winter - "Into Darkness" (1990)
Si diceva che i Paradise Lost, con il loro debutto targato febbraio 1990, si inserirono nel panorama del metal estremo del periodo come l’anello mancante fra doom e death metal. Ma ovviamente non erano gli unici che si proponevano come collante dei due universi sonori: il metal estremo a cavallo fra anni ottanta e novanta è stato un cantiere in grande fermento in cui generi e sotto-generi non erano ancora definiti al millimetro e le sperimentazioni andavano in molte direzioni. A volte queste sperimentazioni abortivano subito e la band sparivano dopo un paio di demo, altre volte i semi riuscivano ad attecchire e prendevano vita interi movimenti. La maggior parte degli sforzi andava verso la velocità di esecuzione, essendo ancora il thrash un punto di partenza importante, ma c’era anche chi privilegiava la lentezza. E i Paradise Lost, grazie ad uscite come “Gothic” (1991) e “Shades of God” (1992), avrebbero dato una grande visibilità alla corrente del doom-death, attirando (giustamente) su di loro tutte le attenzioni insieme ad altri protagonisti della fiorente scena albionica (i primissimi Cathedral, i soliti My Dying Bride ed Anathema).
Ma dall’altra parte dell’oceano, più esattamente sul cielo di New York, una meteora solcò la volta celeste, sempre nell’anno di grazia 1990, smollando a terra un monolito di enorme pesantezza. Nonostante il tonfo, lì per lì l’asse terrestre non avrebbe cambiato inclinazione, solo successivamente quell’opera, così mostruosa ed estrema, sarebbe stata rivalutata dai morbosi cultori del doom più ferale. Parliamo dei Winter e della loro opera magna “Into Darkness”.
Li abbiamo definiti una meteora perché effettivamente i Nostri hanno avuto vita breve: attivi dal 1988 al 1992 (per poi riformarsi in anni recenti ma senza rilasciare alcunché) i Winter hanno marchiato a fuoco l’universo del doom estremo con un omonimo demo, un full-lengh (“Into Darkness”, appunto) ed un EP (“Eternal Frost”, uscito postumo nel 1994).
Come tutte le realtà anticipatrici di sonorità inedite, anche i Winter ci stanno enormemente simpatici, tanto più che hanno pagato le loro scelte coraggiose con la propria pelle andando incontro ad uno scioglimento precoce nonostante la bontà del loro operato. Bisogna tuttavia essere onesti intellettualmente: nel post precedente abbiamo detto che i Paradise Lost non sono stati degli “eroi per caso”, in quanto si sono preoccupati di condurre una ricerca stilistica che effettivamente li avrebbe portati a coniare un nuovo linguaggio nel metal estremo (si pensi all’uso della chitarra solista nel definire gli sviluppi dei brani o il growl usato con maggiore espressività - tutti aspetti che sarebbero stati imitati da chiunque si fosse voluto cimentare in quelle sonorità). I Winter, invece, più che creare nuovi stilemi, hanno riadattato stilemi esistenti e li hanno semplicemente amplificati, innalzando inevitabilmente l’asticella del consentito.
Mi spiego meglio: il banchetto offerto dal trio newyorkese presenta una estremizzazione della potenza sonora già espressa anni prima da Hellhammer e Celtic Frost, cosa che – beninteso – non è proprio un giochetto da ragazzi. Rispetto ad altri (mi vengono in mente gli Obituary) che irrobustirono le “storie morbose” di Tom G. Warrior & soci calandole nel modus operandi pragmatico del death metal americano (riff quadrati, cambi di tempo, doppia-cassa trita-ossa, assoli di un certo pregio), i Winter preferirono esondare sul fronte della lentezza, rimanendo entro il recinto del doom e puntando tutto su un suono tanto minimale, per quanto riguarda il ventaglio di soluzioni offerte, quanto massimale nella resa sonora complessiva.
E così “Into Darkness” in "soli" quarantacinque minuti di durata si presenta come una colata di catrame pronta a schiacciare e soffocare (o viceversa) l’ascoltatore. I quasi sei minuti strumentali della traccia d’apertura “Oppression Freedom / Oppression (Reprise)” (un titolo un programma!) costituiscono il migliore (o peggiore - questo dipende dai punti di vista) biglietto da visita possibile: tempi ultra-lenti dettati dai colpi secchi di una batteria sconsolata, riff catastrofici dalle accordature ultra-ribassate con effetti allucinogeni a dare un desolante sapore psichedelico a quella che si annunciava essere una autentica marcia funebre. Anche qui possiamo dire (senza troppo sprofondare nel fango dell’underground dell’epoca) che nessuno mai aveva osato tanto. Se funeral doom significa lentezza estrema coniugata ad una estrema pesantezza, qui troviamo senz’altro un’ottima anticipazione di questa pozione malefica.
La successiva “Servants of the Warsmen” introduce il vocione sgraziato del bassista John Alman e rappresenta la materializzazione di un incubo uscito dai sonni di Tom G. Warrior: visioni oscure forgiate nello scontro cruento fra le violentissime zappate di chitarra da parte di Stephen Flam e i mid-tempo spossati di Joe Goncalves. Sulle stesse coordinate si muove “Goden”, confermandoci l’impressione di avere a che fare con dei Celtic Frost al cubo. L’opera si rivelerà ben presto come una valida alternanza fra down-tempo asfissianti e rocciosissimi tempi medi dove la doppia-cassa risulta essere incisiva nel rendere ancora più annichilenti i possenti riff di chitarra.
In tema di lentezze sfinenti la palma di brano simbolo tocca di diritto all’altra strumentale “Power and Might”, mentre si registra una sola accelerazione in tutto il disco: quella proposta all’inizio della lunga “Destiny”, brano che dopo i sussulti iniziali si spegne presto nell’ennesima stagnante deriva ultra-lenta. Le danze vengono concluse con quelli che potremmo definire i migliori episodi del lotto, l’iconica “Eternal Frost”, che diverrà protagonista di un postumo EP, e la title-track, mazzata di quasi dieci minuti che va ad anticipare di qualche anno gli estremismi dei pionieri del funeral doom.
Questo non accadeva attraverso una raffinata ricerca sonora, si diceva, ma tramite una operazione atta ad amplificare le componenti estreme intercettabili fino ad allora in ambito doom e proto-death metal, con esiti non certo meno temibili dei colleghi deathmetallari. Il tutto valorizzato da una produzione sporca e marcia a dovere, ma che permette di distinguere i diversi strumenti (incluse le bordate di un mega-basso distorto che ispessisce in modo fatale il muro di suono). Non guasta un “American touch” in grado di restituire in modo genuino le vibrazioni e le irrequietudini di certo hardcore tinto a stelle e strisce. La provenienza da New York, infine, non può non far venire in mente anche i concittadini Type O Negative che, l’anno successivo, avrebbero debuttato con l’epocale “Slow, Deep and Hard” (e certo non si può negare che, pur in un contesto di maggiore orecchiabilità, anche Peter Steele era uno che di lentezza ne ne intendeva).
“Into Darkness” è dunque un capolavoro di attitudine, frutto di una visione artistica sfrontata e portata avanti con coerenza e disprezzo per le conseguenze. I Nostri gridano laddove sarebbe bastato un sussurro, fanno (poche) cose semplici, ma le fanno bene. Insomma, i Winter sono (stati) un gruppo estremo votato all’Estremo, e come molte realtà analoghe avrebbero avuto scarsa fortuna. La band si sarebbe infatti sciolta di lì a poco e i membri sarebbero stati inghiottiti dall'oblio con la sola eccezione di Stephen Flam che sarebbe riemerso prima sotto l’insegna dei Thorn, poi sotto quella dei Serpetine Path. Quanto al monicker Winter, esso sarebbe stato riesumato nel 2010: un’operazione probabilmente caldeggiata dalla Nuclear Blast che già nel 1999 aveva ristampato la risicata discografia della band, divenuta nel frattempo oggetto di culto.
Per noi cultori del metal più derelitto una riscoperta doverosa...