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18 ott 2015

RUNNING WILD: "TREASURE ISLAND"





I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL CLASSICO

9° CLASSIFICATO: “TREASURE ISLAND” (RUNNING WILD)

Rimaniamo nel 1992. Quando nel corso di quell'anno i Manowar editavano il controverso “Triumph of Steel” (che abbiamo avuto modo di sfiorare parlando della suiteAchilles, Agony and Ecstasy in Eight Parts”), i Running Wild davano alle stampe uno dei loro album più belli: “Pile of Skulls”, loro nono full-lenght.

Non ad inizio scaletta (come era successo nel caso dei ben più coraggiosi Manowar), ma alla fine della stessa, ci imbattiamo nel brano più lungo dell'album: “Treasure Island”. In questo caso il “contatore” si ferma a “soli” 11 minuti e 14 secondi, meno della metà dello “sproposito” messo in musica dai Kings of Metal, ma una lunghezza concettualmente eccezionale per le visioni limitate del leader Rolf Kasparek.

Rolf Kasparek, in arte Rock'n'Rolf, non è persona che ama stravolgere consuetudini consolidate. E’ quello che, quando va dal barbiere (lo stesso barbiere di una vita), si accomoda sul sedile ed enuncia solennemente “il solito!”. E’ quello che in pizzeria ordina sempre la margherita, un po' perché non interessato ad assaggiare altro, un po' perché è veramente convinto che la margherita sia la pizza migliore. Poi ovviamente c'è l'occasione speciale che deve essere festeggiata con una aggiunta di bufala, o, se proprio si vuole fare i pazzi, con una salamino-piccante. Una quattro stagioni, una capricciosa sono semplicemente inconcepibili.

Ci tengo a chiarire che non sono mai stato in pizzeria con Rock’n’Rolf, ma deduco questo tratto della sua personalità dalla musica proposta dalla sua band: album tutti uguali, canzoni tutte uguali, poche/pochissime variazioni sul tema. L'heavy-power piratesco dei Running Wild si è negli anni replicato implacabilmente, con risultati buoni e a volte meno buoni, dagli esordi fino ai giorni nostri con le medesime caratteristiche: il loro brano-tipico si muove fra quattro e cinque minuti, ha un ritmo martellante, riff baldanzosi eseguiti avendo ben in mente Judas Priest ed Iron Maiden e ritornelli anthemici per quanto lo potesse consentire la voce roca e piatta di Rock’n’Rolf. Poi, certo, c’era stato il pezzo cadenzato dai rimandi sabbathiani, l’introduzione atmosferica, l’episodio strumentale, il brano leggermente più lungo, tutte piccole deviazioni dal tracciato (del resto si parla di heavy metal e non di grind), come ci può stare, ogni dieci margherite, una marinara semplice o un antipasto di salumi. Dati questi presupposti, com’è possibile immaginarsi una traccia di oltre dieci minuti?

Anzitutto il concetto del brano di estesa durata non è estraneo al mondo del metal classico, basti vedere l’uso copioso che di questo format hanno fatto gli Iron Maiden, di cui Kasparek è senz’altro ammiratore: logico dunque che, almeno secondo l’ortodossia del genere, una “sperimentazione” in questa direzione è teoricamente concessa. Fa tenerezza però come, timido tentativo dopo timido tentativo, il Nostro si sia approcciato alla questione. Il primo brano un po’ più lungo fu sperimentato in “Port Royal” (1988): parlo di “Calico Jack” (8:14), posto vigliaccamente in chiusura. Esso, in verità, procedeva come qualsiasi altro brano, solo con qualche porzione strumentale in più a farcire il classico formato canzone. Un qualcosa del genere verrà tentato successivamente in “Death or Glory” (1989) con “Battle of Waterloo” (7:48), che ricalca lo schema maideniano del brano epico ispirato ad un evento storico (preferibilmente a sfondo bellico).

Eccoci dunque nel 1992 con “Pile of Skulls”, in cui Kasparek rompe ogni indugio e concepisce/realizza il brano (fino ad allora) più lungo della sua carriera: “Treasure Island”. Per cotanta impresa il Nostro dovette ricorrere al top delle sue energie intellettuali, alla Bibbia della sua biblioteca, l’unico libro forse da lui mai posseduto e letto (oltre ovviamente al romanzo di formazione “Le avventure di Peter Pan”), quello che tiene religiosamente sul comodino (anche perché probabilmente la libreria in casa Rock’n’Rolf non ce l’ha) pronto per essere consultato in ogni evenienza della vita: “L’isola del tesoro” di Robert L. Stevenson, che certo non necessita di presentazioni.

Armato di buone intenzioni, Rock’n’Rolf si getta nella scrittura di questo strabiliante brano, da inserire sicuramente fra i momenti più alti della sua produzione. Personalmente parlando, dopo averlo riascoltato diverse volte per poterne scrivere con cognizione di causa, vi giuro che non ho ancora capito cosa diavolo succede in questo brano per durare così tanto: il riff portante è tosto, il ritornello ti si ficca in testa fin dal primo ascolto, ma per il resto cosa accade negli undici minuti di “Treasure Island”? Niente, e proprio per questa anomalia abbiamo deciso di analizzarla.

Si parte con il rumore delle onde che si rifrangono contro la costa, mentre una voce narrante introduce l’ascoltatore al mood avventuroso del brano. E così ci giochiamo già un minuto e mezzo, ma non è tempo perso, perché già con il becero grido + risata forzatissima del buon Rolf che squarcia improvvisamente la narrazione è già pelle d’oca mischiata a simpatia: simpatia per un gran cafone del metal che si è talmente calato nella parte del filibustiere da rasentare la crisi d’identità. Fraseggi melodici di chitarra si fanno largo fra le onde ed ecco che parte il riffone portante, tipicissimo dei Running Wild, che poi non è altro che la bastardizzazione del riff tipico dei Maiden (fra l’altro, ad ascoltarlo bene oggi, ricorda da vicino quello di “Fear of the Dark”, che guarda caso aveva visto la luce qualche mese prima del medesimo anno).

Strofa/ritornello, strofa/ritornello, giungiamo al quarto minuto come se fosse un qualsiasi altro pezzo della band.. Avrebbero potuto concedersi una pausa atmosferica, oppure accennare un intermezzo acustico (risate in sottofondo) ed invece i Running Wild premono sull’acceleratore ed optano per l’epic-song senza compromessi. Nei minuti che seguono, le strofe masticate da Kasparek si alternano a pregevoli assolo e fulminee accelerazioni.

Un plauso all’operato del batterista Stefan Schwarzmann, chiamato a sostituire in questa release lo storico AC, e che, già dal successivo “Black Hand Inn”, verrà licenziato per essere sostituito da quella piovra umana che è Jorg Michael (noto anche per aver militato negli Statovarius). Il drumming semplice ma efficace di Schwarzmann (ricordo che successivamente verrà reclutato dagli Helloween e che lui stesso deciderà di tirarsi indietro ammettendo di non essere in grado di riproporre certi passaggi dei brani della band di Weikath) si sposa alla perfezione con i limiti di scrittura di Kasparek, conferendo vigore e potenza al classico riffing al vetriolo. In questo brano, dall’andamento travolgente, l’approccio da schiacciasassi di Schwarzmann è ottimale.

Se del bassista Thomas Smuszynski non c’è molto da dire, qualche parola può essere spesa per l’operato del chitarrista Alex Morgan, che con la sua sei corde decora abilmente questa porzione centrale del brano: assolo graffianti che non indugiano molto sulla melodia, ma che si incastonano alla perfezione con i riff granitici della chitarra ritmica, dando piacevole varietà a questa fase burrascosa della traccia, che ospita anche un rallentamento (riaffiorano i fraseggi iniziali del pezzo) presto spazzato via da una nuova vigorosa ripartenza. Ripartenza che conduce ad altri assolo e la classica chiusura circolare, ossia strofa/ritornello e outro sempre a base di onde.

L’operazione si rivela un successone e questo perché la band dimostra un grande pregio: quello di conoscere i propri limiti, non spingendosi mai al di là della proprie capacità e compattandosi intorno ai propri punti di forza. Tanto che Kasparek ci prende gusto e deciderà di replicare l’esperimento nel successivo “Black Hand Inn” con il brano (sempre posto in chiusura, vuoi mai che qualcuno si sconvolga…) Genesis (The Making and the Fall of Man)”, che supera addirittura i quindici minuti. Il copione però rimane lo stesso: la micidiale doppia-cassa di Jorg Michael ed epici inserti di tastiere gioveranno al brano, ma la brillantezza di un gioiello come “Treasure Island” (archetipo e modello per tutti i brani di estesa durata in cui la band si cimenterà in futuro) rimane ineguagliata.

Un capolavoro di umiltà.