In qualsivoglia struttura
societaria, per la classe dominante che la guida difendere la propria posizione
di potere contro un “nemico” (sia esso una controcultura diffusa sul territorio
oppure un gruppo di pressione ben definito territorialmente) è molto più semplice
quando esso è facilmente individuabile, chiaramente opposto ad essa e portatore
di istanze e atteggiamenti totalmente differenti da quelli di riferimento, codificati e accettati dai più.
E’ molto più complesso per il
gruppo socio-politico che detiene le leve di potere combattere ed espellere
l’avversario quando esso prende posizione mischiandosi ad esso e, in apparenza,
parlando il suo stesso linguaggio, veicolando gli stessi valori e/o stili di
vita.
A cura di Morningrise
Con un azzardata, ma neanche
tanto, similitudine potremmo dire che in relazione alla società Usa degli anni
’80, il Thrash rappresentava un avversario palese nettamente contrapposto
mentre il Glam metal era quel subdolo avversario, di fatto l’immagina riflessa
in uno specchio deformante della “società bene” di quel periodo.
Infatti mentre il primo, come
detto nella prima parte dell’Anteprima di questa Retrospettiva, combatteva
frontalmente la cultura yuppie, parlando, con un sound ultra-violento e
ultra-veloce, di tutto ciò che c’è di marcio, di orribile e di collegato alla
morte dietro la facciata di benessere, il Glam ne faceva propri gli stili di
vita, ne enucleava gli eccessi e li elevava all’ennesima potenza.
E vedremo come paradossalmente il
mostruoso ibrido musicale del Thrash fece meno paura del semplice, ma non
banale, recupero del rock e dell’hard-rock anni 70 operato dai gruppi Glam.
E vorrei partire da quello che mi
appare un incredibile, e geniale, paradosso: glam, sta per “glamour”, vale a dire “fascino”. Un fascino
collegato a una certa eleganza, ad una seducente sensualità. Ora, se prendiamo
il look col quale si presentavano al
pubblico la stragrande maggioranza dei componenti dei gruppi glam, possiamo
dire tutto fuorchè che siano eleganti! Paillettes,
lustrini, abiti dai colori sgargianti, trucco accentuato (con rossetto e
eyeliner di ordinanza!), pettinature cotonatissime, scarpe con tacco 12 o giù
di lì… un cattivo gusto al limite del kitsch
piuttosto che dell’eleganza! Ma ovviamente il tutto era studiato, era calcolato
ed era incredibilmente irriverente. Questi vestiti sgargianti e vistosi, le
acconciature curate all’inverosimile facevano parte di un armamentario
finalizzato a stupire, a shockare e
scuotere l’ascoltatore.
Se alla forma, all’estetica,
abbiniamo poi la sostanza, la way-of-life
di questi musicisti, capiremo come il cocktail
glamour fosse davvero esplosivo: edonismo, sesso sfrenato, eccessi di ogni
tipo, parties (più vicini ad orge per la verità) che duravano giorni e giorni,
sfrenato consumo di droga e alcool…insomma, quello che sotto sotto erano anche
le abitudini dei giovani business man
di Wall Street (della serie si fa ma non
si dice) veniva ripreso e portato all’inverosimile e sbattuto davanti a
tutti (della serie si fa, si dice e ce ne
facciamo un vanto!) da questi ragazzi che, così come i loro coetanei che si
erano dati al Thrash, potevano tranquillamente corrispondere all’ideal-tipo di
emarginato sociale: dei paria, degli
outcast, come vengono definiti nel mondo anglosassone.
Tutto questo, evidentemente, non
poteva essere ben accolto e/o sopportato dalla classe dominante di cui sopra,
dalle upper classes delle grandi città, dell’East Coast in particolare. E la
reazione fu spontanea. Ma tardiva. E come si espresse?
La vita delle first ladies, o in generale delle mogli
di uomini ricchi e politicamente potenti, non deve essere facile. La noia,
l’insoddisfazione, il rispetto dell’etichetta e dell’apparenza, forse un senso
di inutilità …immagino che un insieme di tutte queste cose probabilmente avrà
spinto, agli inizi del 1985, Mary Elizabeth Gore, conosciuta col soprannome di
“Tipper” e moglie del futuro vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore, a creare
assieme a un manipolo di sue pari il Parents Music Resource Center che aveva lo
scopo, sotto questo nome altisonante e tutto sommato “neutro”, di censurare
quei dischi nei quali vi fossero canzoni dal testo ritenuto immorale od
offensivo verso il “buon costume” (in particolare con riferimento ai messaggi
sessuali da esse veicolati).
Il Centro, forte di appoggi
politici nelle alte sfere (Al Gore all’epoca era già membro del Senato) ottenne
subito la firma da parte della Associazione Americana dell'Industria Discografica (la RIIA) per stilare un
protocollo di collaborazione volto a individuare quali fossero quei dischi che
avessero un contenuto visivo e/o lirico ritenuto sconveniente per i minori e
apporvi un’etichetta di avvertimento per i genitori: praticamente la richiesta
di un’auto-censura. Che portò a delle conseguenze comunque rilevanti, posto che
molti esercizi commerciali si rifiutarono di vendere i dischi che apportavano
questa label.
In secondo luogo emanò una prima
lista di 15 canzoni ritenute “scabrose”, la famigerata Filthy Fifteen. Sotto la
scure censoria del P.M.R.C. vi finirono indifferentemente gruppi propriamente hard
rock o heavy (Judas Priest, Venom, AC/DC e Black Sabbath) e gli emergenti
gruppi glam, come Motley Crue, Wasp e Twisted Sister (oltre che semplici
artisti rock/pop, come Madonna, Frank Zappa e Prince). Tutti artisti inseriti nella black list, in quella Sporca Quindicina.
Ma questo non bastò: la pressione
esercitata dalle Washington Wives,
come vennero ribattezzate la Gore&Friends, portò incredibilmente ad una
audizione al Senato nel settembre dell’85 durante la quale vennero messi alla
sbarra quei musicisti che rappresentavano quello che da esse veniva definito
come il Porn Rock. Un’audizione
ridicola, soprattutto se pensiamo che venne svolta in un Paese che si è sempre
fieramente considerato come alfiere delle libertà individuali. Ma evidentemente
i rigurgiti bigotti del perbenismo puritano in quel momento trovarono un appoggio all’interno delle istituzioni. Ma non una sponda tra i giovani fruitori
di musica.
Infatti, al di là del
mantenimento della label “Parental
advisory – Explicit content”, l’P.M.R.C. non andò lontano: il fiume in piena
della musica glam si era ormai avviato e non poteva essere fermato. I dischi
vendevano, il prodotto musicale era apprezzato, i live delle band erano seguiti da decine di migliaia di fan e i loro video giravano parecchio su MTV. Impossibile mettere un argine.
E cosa meglio dei video musicali poteva
plasticamente raffigurare la portata della “minaccia” del movimento per la
società bene made in U.S.A.? Si potrebbero citare decine di video in tal senso, con i membri
dei gruppi glam che irrompevano nelle case delle famiglie della middle-upper
class americana, distruggendone le pareti e le suppellettili, scuotendone la
calma e la tranquillità, e “corrompendone” i figli i quali, irresistibilmente, abbandonavano
il loro tran tran quotidiano lasciando la loro angusta cameretta per andare a scatenarsi, oramai "traviati" irrimediabilmente, ai loro concerti sprigionando quell’energia e quella vitalità fino ad allora repressa.
Uno dei video che meglio esprime
questi concetti è sicuramente quello di “Round and round” dei Ratt (tratto
dal loro fortunatissimo “Out of the cellar” del 1984) in cui una serafica cena di una
famiglia nobiliare, con tanto di maggiordomo e capofamiglia in smoking, viene prima
disturbata dai rumori elettrici che provengono dal solaio, dove furtivamente si
erano insediati i Ratt, finchè il soffitto crolla e il chitarrista del gruppo,
Warren DeMartini, cade sopra il tavolo mandando tutto all’aria costringendo i
malcapitati ospiti iperborghesi, quasi minacciandoli con la sua Charvel, a fuggire. E nel contempo il
maggiordomo, anch’egli ormai con il make up sul viso, tolta la livrea per indossare un più pratico giubbotto di pelle col logo Ratt, comincia a saltellare felice sul tavolo mentre la
giovane rampolla di famiglia (ovviamente mozzafiato!), affascinata dal sound
della band, si strappa di dosso i suoi elegantissimi vestiti per rimanere in
sottoveste e, ricoperta dalla polvere e dai calcinacci, si trascina in solaio
per lanciarsi assieme al gruppo in un ballo sfrenato e liberatorio!
Tornando a noi, l’obiettivo
di questa retrospettiva non è quello di fare una classifica (troppo difficile
per il sottoscritto fare una graduatoria con così tanto materiale a
disposizione),
ma di esprimere piuttosto un elenco di quelli che furono a mio modesto avviso i
dieci album che, dal 1983 al 1989 (il periodo appunto delle prosperità
reaganiana che avevamo individuato nel precedente post) maggiormente
rappresentativi della Scena statunitense. Non sarà impresa facile orientarvisi anche perché le
definizioni appioppatele dalla critica sono molte, a volte irrisorie e
poco calzanti; e altre volte sono stati gli stessi membri dei gruppi in
questione a rifiutarle, non riconoscendovisi. Pop metal, Hair metal, Street
metal, Sleaze metal…tutte etichette che sono state coniate in quegli anni e
impropriamente considerate sinonimi.
Volendo trovare un minimo comun
denominatore tra questi artisti potremmo dire che tutte le band di questo enorme calderone
improntarono il loro sound a un recupero marcato delle linee melodiche,
divenendo quindi appetibili commercialmente; utilizzarono ritornelli
orecchiabili e cori trascinanti; inserirono sistematicamente nelle tracklist dei propri dischi le c.d. power ballads, canzoni d’amore
strappalacrime che mandavano in visibilio soprattutto le giovani fans (ma
diciamolo…anche i maschietti non ne erano immuni!) e si avvalsero di una produzione di alta
qualità per gli standard dell’epoca. Questo, inizialmente, può bastare a
individuare il target di dischi cui ci riferiamo.
E allora partiamo! Rivisitiamo
questi dieci album!
Ma prima, ehm…scusate, ancora una
piccola puntualizzazione…questi dieci dischi probabilmente non sarebbero mai
stati concepiti se non ci fosse stato prima di loro un album che
era uscito molto tempo prima, in un periodo musicale molto differente, e sul quale
non possiamo non soffermarci…