L'altro
giorno ho comprato “Ótta” degli islandesi Sólstafir,
che potremmo definire i Sigur Ros del black metal, e
non solo per una questione di mera appartenenza geografica. Dediti
inizialmente ad una sorta di ruvido viking, album dopo album,
i Sólstafir si sono emancipati fino a rendersi interpreti di una
suggestiva forma di post-metal etereo, glaciale, paesaggistico
(innegabili le influenze mutuate della loro terra natia), ma al tempo
stesso dinamico, coinvolgente ed a momenti ancora potente, sebbene
del black metal originario rimanga ben poco.
Se
artisti come i Sólstafir rappresentano oggi il fronte più avanzato
del metal in direzione post-rock (se non addirittura dream-pop), allora c'è da essere orgogliosi
del fatto che i nostrani Novembre queste cose le facessero già
vent'anni fa!
Nati
dalle ceneri dei Catacomb (death-metal band romana attiva agli
inizi degli anni novanta), i Novembre dei fratelli Orlando
(Carmelo alla voce ed alla chitarra, Giuseppe alla
batteria) già al loro esordio sfoggiarono una originalità fuori dal
comune, a partire dalla scelta del monicker in lingua
italiana.
“A’
Carme’, perché ‘un famo qualcosa de meno coatto?”
“Wish
Could Dream It Again” (del 1994) era ancora collocabile
nei ranghi del metal estremo, anche se non era chiaro se si trattasse
di black, death o doom. La maglietta di “Hvis Lyset Tar Oss”
(con camicia a quadrettoni in stile grunge) indossata da Carmelo
nelle foto del booklet interno era comunque un indizio
eloquente sulle intenzioni del combo. Ma soffermiamoci un attimo su
questo dettaglio: sbandierare nel 1994 l’ammirazione per Burzum
era sintomatico di quanto i nostri fossero in anticipo con i tempi.
Ricordiamo infatti che nel 1994 Burzum era ancora un nome di nicchia
di un genere di nicchia, noto più per l'omicidio di Euronymous che
per meriti artistici. Vikernes verrà infatti riabilitato circa un
decennio più tardi dal movimento depressive: nel 1994 gli
italiani si facevano ancora fotografare con magliette di Death e
Morbid Angel.
Carmelo
no, era già proiettato in avanti, sospeso fra i suoi due punti di
riferimento, Burzum, appunto, e Fabrizio De Andrè. Cosa
possono mai avere in comune il blackster norvegese e il
cantautore genovese lo capiamo ascoltando i primi due album dei
Novembre, incrocio fra cruda elettricità ed intima introspezione
cantautoriale.
“Wish
Could I Dream It Again” è una sorta di concept onirico
che procedeva per immagini piuttosto che lungo il filo di una
narrazione vera e propria. Come nello stato di dormiveglia, dove le
sensazioni, le voci, le immagini si confondono, anche il primo
full-lenght dei Novembre vive in una dimensione al di fuori dello
spazio e del tempo: un luogo “altro” in cui solo le emozioni più
sincere prendono il sopravvento. Un impianto suggestivo che richiama
l’immaginario mediterraneo (il flusso placido delle onde,
l’atmosfera da spiagge assolate, “navi morte” incagliate nelle
secche) e che rivendica orgogliosamente la cultura italiana (si veda la riproposizione di "Ed è subito sera" di
Salvatore Quasimodo) e, più in generale, la propria italianità (con l'impiego di frasi in italiano, come il sussurrato “E’ come impazzire…in un mare
dorato”), senza
le ambizioni nazionaliste che spesso caratterizzano il black metal.
Se
all'inizio degni anni novanta il metal ampliava i suoi orizzonti
(erano gli anni del techno-death metal, del gothic-metal, del melodic
death metal), era anche vero che le sperimentazioni più ardite
dovevano comunque poggiare su una minima ortodossia metallica (ossia:
tecnica e struttura). I Novembre, seppur non aderenti agli stilemi
del black metal in senso stretto, lo erano nello spirito: per lo
slancio introspettivo, per la malleabilità del medium stilistico ai
fini dell’espressione di mondi interiori. Le composizioni avevano
sviluppi imprevedibili, animate dal fantasioso e dinamico drumming
di Giuseppe; le tastiere erano centellinate con parsimonia
(eppure in formazione compariva un tastierista, il mitico Thomas
Negrini, che dal look – capello a spazzola e maglione della
nonna – capiamo come forse si trovasse quasi per caso in un gruppo
metal), mentre il corpus sonoro dei brani si componeva di fraseggi elettroacustici da brividi, improvvise sfuriate (cosa
rara in ambito gothic), pause riflessive dal sapore "balnerare" ed arpeggi
elettrificati che tradivano una certa vocazione burzumiana. E
poi il cantato appassionato di Carmelo, diviso fra un growl
straziante e quella voce nasale che, stonata, un po' si perdeva nei passaggi
spesso complessi delle composizioni. Tutto questo poteva all'epoca
esser visto come un qualcosa di acerbo e poco professionale: vai ai
pensare che vent’anni dopo avremmo salutato tutti questi difetti
come un vero toccasana per un metal che rischiava la paralisi
emotiva, incancrenito nei soliti cliché!
Non
scherzo: se andiamo ad ascoltare capolavori come “The Mantle”
ed "Ashes Against the Grain" degli americani Agalloch, per esempio, molte sono le
caratteristiche che ci ricordano l'approccio dei Novembre. Quei
Novembre che nei primi album sputarono sangue per tirare fuori il
proprio estro ed imporsi in un mercato discografico sempre più
competitivo. Per un periodo il miracolo (quello di un successo
internazionale) sembrò a portata di mano, tanto che dal terzo album
in poi sarebbero approdati alla Century Media. Fin dall’inizio
invece (cosa inspiegabile) furono adottati dal leggendario Dan
Swano, leader degli Edge of Sanity nonché
produttore di grido all'epoca. Per intenderci: fra i “protetti”
di Swano c’erano cavalli di razza come Katatonia ed Opeth,
destinati a divenire gli astri più lucenti del metallo a venire.
Sebbene entrambe le formazioni amassero inseguire le proprie
intuizioni con una certa libertà e coraggio (i primi in direzione
dark-gothic, i secondi verso lidi progressivi/settantiani), la loro
musica conservava un rigore che al metallaro piaceva e che gli
permetteva di perdonare molte “licenze poetiche”.
Probabilmente
Swano, come per Katatonia e Opeth, c’aveva visto giusto con i
Novembre, ma non aveva fatto i conti con la tamarraggine
intrinseca dei fratelli Orlando, che, seppur poeti, talentuosi
musicisti e ad un passo dal divenire star internazionali,
conservavano una fiera romanità nel sangue. I Novembre avevano
infatti degli spunti vincenti, ma non apparivano ancora maturi per
fare il grande salto di qualità. Vuoi anche per la sciatteria e
l’approssimazione che caratterizzava il loro approccio un po’
sconclusionato, il fatto è che i Nostri sapevano scrivere musica,
sapevano suonarla, ma, non curando sufficientemente i dettagli in
sede di arrangiamento o di concepimento dei brani, alla fine, nella
resa finale dei loro album, qualcosa finiva sempre per non tornare: o
una dissonanza, o un stecca di troppo. Carmelo, del resto, poteva
anche farsi un corso di dizione/pronuncia inglese.
“A Beppe, me so rotto li cojoni di sto death, mo’ famo i numeri
uno”
1996:
“Arte Novecento”. Si cambia musica: via il growl,
via gli ultimi scampoli death per abbandonarsi all’espressione incondizionata
di emozioni intime e personali. L’album perde molti punti di contatto con il metal estremo per dirigersi verso traguardi che
oggi spiegheremmo in termini di post-rock. Carmelo sviluppa ulteriormente il suo stile chitarristico, continuando a rielaborare la materia burzumiana in un'ottica personale ed al tempo stesso strizzando l'occhio sia alla dark-wave che al folk mediterraneo. Lo supporta abilmente il fratello Giuseppe, sempre più intricato e micidiale in quei suoi tipici contro-tempi al cardiopalma che sono da lacrime quando
si innestano sui saliscendi emotivi architettati dal fratello. Ma a
colpire è la sinergia fra i due, autori di una musica fresca,
imprevedibile, ricca di spunti, in certi momenti persino progressiva:
specchio multiforme in cui si riversano le liriche malinconiche di
Carmelo. La sua imperfetta voce pulita, lungi da costituire un
limite, si fa contrappunto ideale per la musica indefinibile dei
Novembre: più variegati dei monolitici Katatonia (era uscito qualche mese prima “Brave Murder Day”, il capolavoro della loro
fase doom-black), meno violenti dei pur progressivi Opeth
(che sempre in quell’anno davano alle stampe l’ottimo “Morningrise”), i romani erano già avanti anni luce, propositori di una
formula che solo molti anni dopo sarebbe stata sviluppata da altri e
compresa dal popolo metallico. Un esempio su tutti, “Will”: ballata acustica di evidente derivazione
deandreiana nella prima metà; feroce assalto black metal (da brividi) nella seconda.
Il
metallaro non era ancora pronto per le stecche di Carmelo, per gli
arrangiamenti pasticciati, per una scrittura dispersiva che faceva a
meno di ritornelli o del canonico formato-canzone, ma che assecondava
solo la libera espressione di emozioni. Ci sarebbe voluto il ciclone
Neurosis per sgrassar via dalla superficie patinata del
metallo quel pragmatismo che ancora lo ingessava e lo
teneva al guinzaglio; ci sarebbero volute tutte le iniezioni di
post-rock, di shoegaze, di folk, di cantautorato, di ambient per far
capire al metallaro che il suo genere preferito poteva avere anche un
altro volto, più disorganico, impreciso, sbavato,
se-mi-passate-il-termine espressionista. Descrizione
incandescente di emozioni. E Carmelo, il giovane Carmelo con addosso
la maglietta di Burzum e De Andrè nel cuore, l’aveva capito prima
di tutti…