I
MIGLIORI DIECI ALBUM DEL “NUOVO METAL”
7° CLASSIFICATO: “TWO HUNTERS”
Dall'abisso
catatonico dei Sunn O))) alle incredibili emozioni suscitate dalla musica di
Wolves in the Throne Room. Continua così la nostra classifica sui migliori
album del “Nuovo Metal”.
Il terzo millennio vedrà le
lande americane come un ventre fecondo entro il quale prolifereranno artisti e
band che decideranno di raccogliere l’eredità lasciata dal black metal
scandinavo. Gli iniziatori di quello che in seguito verrà definito U.S.
Black Metal furono indubbiamente gli Weakling di “Dead As Dreams”
(registrato nel 1998 e pubblicato tre anni dopo). Ma prima ancora che l’etichetta
U.S. Black Metal divenisse di uso comune, si parlava del depressive
black metal di one-man band quali Xasthur e Leviathan,
che riprendevano il discorso iniziato da Burzum, Bethlehem, Shining e Silencer
per estremizzarlo ulteriormente: si parla ovviamente di realtà di
ultra-nicchia, appannaggio esclusivo degli ascoltatori più temerari.
Due, invece, furono le band americane
che riportarono in auge il black metal innanzi a platee più ampie e trasversali.
La prima delle due risponde
al nome di Agalloch. Gli Ulver di “Bergtatt” sono sicuramente un
buon punto di partenza per comprendere il sound della band dell’Oregon, sound
che in realtà abbraccia le più disparate influenze: dalle tendenze progressive
degli Opeth, alle atmosfere decadenti dei Katatonia, passando dal
post-metal degli Isis e dal folk apocalittico dei Sol Invictus
(indicati dalla band come un’influenza fondamentale). Album come “Pale Folklore” (1999), “The
Mantle” (2002), “Ashes Against the Grain” (2006) e “Marrow of the
Spirit” (2010) sono capolavori che tutti dovrebbero possedere ed opere che
dicono molto sul presunto “Nuovo Metal” che intendiamo trattare: lunghe porzioni
strumentali, impetuosi crescendo post-rock, l'intimità di un folk
cantautoriale. Ma non è solo per stima che gli dedichiamo questo trafiletto. Essi
ci possono infatti aiutare a far luce su un fitto mistero, ossia: quale diavolo
è l’invisibile anello di congiunzione che unisce Norvegia e Stati Uniti
d’America? La soluzione, se vogliamo, sta già nel monicker della band,
che prende spunto dall’Aquilaria Agallocha, un tipo di legno resinoso.
L’anello di congiunzione è dunque la Natura, o meglio, il richiamo
nostalgico alla Tradizione e ad un’arcadia perduta in cui l’uomo viveva
in assoluta in simbiosi con la Natura stessa.
La seconda band risponde
invece al nome di Wolves in the Throne Room ed è grazie ad essi che si
compie quella rivalutazione dei maestri norvegesi che porterà molte altre band
(americane e non) a cimentarsi in quelle sonorità che parevano oramai
appartenere ad un ciclo vitale esaurito. I fratelli Nathan (voce e
chitarra) e Aaron Weaver (batteria, basso, chitarra e sintetizzatori)
sono la mente e il corpo di questa entità che stilisticamente, rispetto agli
Agalloch, risulta più aderente ai canoni classici del black metal norvegese.
La loro musica porta il carattere impetuoso dei Mayhem e dei Darkthrone, le
loro composizioni hanno il dinamismo e la maestosità degli Emperor, esse
incarnano lo stesso amore per la natura che coltivavano gli In the Woods… e
rilucono della stessa poesia che emanava l’arte elettrica di Varg Vikernes.
Nonostante questo, la loro proposta risulta fresca ed innovativa. E questo
perché sotto la scorza ruvida della loro musica germogliano energie ed idee
assolutamente inedite per l’universo black metal.
I fratelli Weaver, tanto per
iniziare, vivono in totale simbiosi con la natura (fra coltivazioni biologiche
e programmatico rifiuto della tecnologia, salvo la strumentazione minima e quel
poco di elettricità che serve loro per suonare), gestendo una fattoria in mezzo
alle montagne della Cascadia, o anche detta Repubblica del Pacifico
(regione geografica situata nel Nord degli Stati Uniti e che vanta un movimento
politico indipendentista). Da qui il cosiddetto Cascadian Black Metal,
che sembrerebbe proprio la risposta yankee al Norwegian Black Metal. Il
primo costituisce infatti la rifondazione del secondo partendo da nuovi, ma
analoghi, presupposti: paesaggi mozzafiato, natura incontaminata, legame
profondo fra l’uomo e natura. Una dimensione spirituale che si lega, a doppia
mandata, a tematiche ambientaliste: l’atto artistico dei Lupi di Olympia
non è solo (come dagli autori stessi enunciato) “incanalare le energie del
paesaggio della Cascadia in una forma musicale”, ma è anche denuncia e dura
critica ad un sistema economico e culturale (quello occidentale) che minaccia
l’esistenza del pianeta e quindi dell’uomo.
Tale è la centralità di questo tema nella musica dei Nostri, che quest’ultima
verrà ribattezzata eco-metal.
Se la proposta dei WITTR suona
così eccezionale, è perché in essa vi è molto altro rispetto alla mera
riproposizione degli stilemi già esistenti del black metal (scelto comunque come medium privilegiato per la capacità descrittiva e per il forte potere evocativo). Il post-hardcore
dei Neurosis, per esempio, viene fortemente apprezzato dai fratelli
Weaver, che ne colgono il forte valore ancestrale: un potere che agisce ad un
livello più profondo della psiche. E quindi molte sono le caratteristiche della
proposta della “tribù” di Oakland che vengono traghettate nella visione
artistica dei due fratelli. Fra tutte indichiamo la tendenza a scrivere
composizioni lunghe, dal procedere torrenziale e condite da batoste elettriche
di una potenza che non sempre il black metal, con la sua deformazione lo-fi,
ha saputo sfoggiare.
Ci imbatteremo inoltre nella
proto-new age dei Popol Vuh, indicati dai due musicisti fra le proprie
fonti di ispirazione. Non solo nelle pause ambient che la loro musica sa ritagliarsi
(frequente il ricorso della tecnica del field-recording), ma soprattutto
nella fusione panica dei suoni che avviene in certi passaggi, in cui riff
in tremolo e bordate di sintetizzatori analogici si impastano in una inedita
forma di Kosmische Musik che ama correre a velocità proibitive.
La band esordiva discograficamente
nel 2006 con il già buono “Diadem of 12 Stars”, ma fu con il secondo
album “Two Hunters” (del 2007) che fu compiuto il vero salto di
qualità. Quattro pezzi per quasi cinquanta minuti di musica.
“Dea Artio” (5:58): fermentano le
chitarre riverberate in una lunga introduzione che ci presenta una band che non
ha fretta di procedere. La rarefazione sonora è quella del Conte, ma le
immagini non sono quelle di un Inferno interiore, bensì quelle di una natura incontaminata,
mitica, che esiste, cieca ed indomita, ignorando l’esistenza dell’uomo. E’ il
suono dei ghiacci che si sciolgono, della neve che diviene rivoli d’acqua che scendono
giù dai valichi scoscesi. A venire in mente è la forza cinematica del dream-pop
dei Sigur Ros piuttosto che le arcigne evoluzioni di una black metal
band, sebbene il linguaggio adottato sia indubbiamente quello del black metal.
“Vastness and Sorrow” (12:12): la seconda traccia
dell’album mostra l’altro volto dei Lupi di Olympia, quello feroce ed annichilente.
Una furia che è percorsa perennemente da una vena melodica che era prerogativa
dei maestri Emperor, i quali sapevano essere dinamici e vari nei
contenuti, pur correndo alla velocità della luce. L’altra faccia della medaglia
è l’ossessività nella ripetizione dei riff (tutti tremendamente
ispirati!) che è tipica della imprescindibile lezione burzumiana.
I suoni sono potenti, l’armamentario ritmico impeccabile ed animato da un
incredibile dinamismo (Aaron si muove dietro alle pelli con la potenza di Faust
degli Emperor e con l’eleganza jazzata di Robert Wyatt dei Soft Machine),
lo screaming di Nathan è uno squarcio straziante che ci fa da guida per dodici
intensi minuti. Il brano, nonostante la lunghezza, non annoia, presentando una
struttura imprevedibile, ma non dispersiva: i WITTR assorbono il minimalismo
delle band norvegesi rileggendolo nell’ottica del pragmatismo made in U.S.A.
Il discorso si evolve per fasi, affrontando momenti più tesi (in principio e in
conclusione) ed altri più meditativi, ma senza mai rinunciare al brivido elettrico:
in particolare l’ottima sezione centrale, con i suoi fraseggi melodici e gli
azzeccati cambi di tempo, ci ricorda come il metal, quando poggia su solide
basi tecniche e può vantare una reale ispirazione (non ancora ingessata dal
manierismo), è un genere in grado di coinvolgere e sorprendere.
“Cleasing” (9:55): di sorprese si parlava
ed in effetti, dopo un tour de force metallico di tale portata, è un
gran piacere ritrovarsi inondati dalla grazia di una voce femminile. Essa volteggia
eterea sulle immancabili chitarre elettriche, qui utilizzate (fra effetti e
riverberi) come suggestivo tappeto drone-ambient. La prima parte del brano
evoca la magia di entità quali Dead Can Dance, esperimento sicuramente non
nuovo in ambito metal, ma qui rispolverato con grande convinzione e coerenza
concettuale. Lo stacco è repentino: nella seconda metà del brano, la band indosserà
ancora una volta la sua maschera più mostruosa ed iconoclasta, abbandonandosi nuovamente
a velocità supersoniche.
“I will Lay Down My Bones
Among the Rocks and Roots”
(18:16): la suite che completa l’album (quasi venti minuti) è un
continuo saliscendi di emozioni e, stilisticamente parlando, ci offre un compendio
di quanto di buono è stato fatto fino a quel momento. Il sound dei
Nostri si viene ad arricchire di nuovi elementi, come gli arpeggi di una
chitarra acustica (che introduce il lato più prettamente folcloristico della
visione artistica della band – e stiamo parlando delle proverbiali atmosfere da
falò notturno consumato nel bel mezzo di una foresta) e crescendo poderosi che
riconducono ad influenze mutuate dall’universo post-hardcore e post-metal (con
tanto di incedere tribale delle percussioni).
In questo “Two Hunters”
(il primo capitolo di una trilogia) individuiamo un’eccellente sintesi di
quello che i WITTR dimostreranno nel corso della loro superba carriera. Con i
suoi suoni arcaici e primitivi (qui non compaiono ancora le tastiere), esso rappresenta
la dimensione del Passato. Il successivo “Black Cascade” (2009) è
invece l’estrinsecazione della solidità del Presente e (in quello che
sembrerebbe un apparente passo indietro) sfoggia un sound ancora più
feroce e black metal-oriented, dove le componenti che hanno reso
peculiari la band non scompaiono, ma vengono fagocitate dalle voraci chitarre e
da una batteria turbinante. Questi i due album più “terreni”. La lenta ascesa
verso il cielo (e dunque verso il Futuro) si completa con l’album più
astrale (un’altra definizione della loro musica è appunto astral black metal):
quel “Celestial Lineage” (2011) che costituirà il gradito ritorno alle
sonorità del primo capitolo. Il corpus sonoro allestito da due fratelli
(oramai i WITTR sono a tutti gli effetti un duo) si riappropria di pause
atmosferiche e passaggi maggiormente cadenzati, con un uso ancora più copioso
di melodia, voci pulite (maschili e femminili), sintetizzatori e field-recording.
La corsa verso il firmamento culminerà nel 2014 con la suggestiva opera di
rilettura, interamente strumentale, compiuta con “Celestite”:
un’appendice all’ultimo full-lenght, rivisitato in chiave drone-ambient
(con risultati ancora una volta egregi).
L’operazione dei talentuosi
fratelli Weaver, in definitiva, costituisce un’ulteriore nobilitazione del
black metal come genere. Una maturazione compiuta principalmente a livello
concettuale: non si parla più di Satana, di Male o di vichinghi e glorioso Nord,
ma vengono intavolate tematiche ambientaliste (rese ovviamente attraverso simboli
e suggestive metafore) dagli immancabili risvolti esistenzialisti. Ma anche a
livello stilistico i Lupi arrecano il loro importante contributo
evolutivo al “Nuovo Metal”, in quanto il linguaggio del black viene rimodellato
e rivolto verso nuovi “scopi musicali”: un black metal tanto malleabile da
saper disegnare suggestivi landscape sonori dal sofisticato sapore
ambient, quanto devastante da edificare impetuosi crescendo emotivi che vengono
mutuati dall’universo post.
Un discreto passo in avanti
rispetto alle band norvegesi degli anni novanta, che non potevano ovviamente conoscere
né i Neurosis, né gli Isis, né i Sunn O)))…