Il 2017 mi ha dato il benvenuto
con un bel febbrone. Bloccato a letto da nausea e brividi ho deciso di approfittare
della situazione negativa per trarvi quantomeno qualcosa di buono: avendo più
tempo a disposizione per me stesso, ho preso per le corna un disco mastodontico
(sia concettualmente che per durata), che in passato avevo ascoltato solo di
sfuggita, non di certo per mancanza di voglia ma perché, già dal primo ascolto,
per le sue caratteristiche intrinseche, avevo capito che fosse un’opera che
richiedeva dedizione totale e mente sgombra. Sto parlando dell’omonimo debut
dei Jesu (2005), opera prima della band nata dalle ceneri dei Godflesh di
Justin Broadrick.
Su questo straordinario
personaggio, e sulla sua incredibile parabola artistica, ha già scritto in modo mirabilmente esaustivo il nostro Mementomori.
Quello che però il collega non ha
scritto è che i Jesu, a differenza dei Godflesh, non possono essere ascoltati se
non in un contesto uguale, o molto simile, a quello in cui li ho ascoltati io. Si, perchè non puoi metterli in un lettore e ascoltarteli mentre vai in giro, magari a
fare la spesa o jogging, oppure mentre ti trovi su un mezzo pubblico accalcato.
No, vanno ascoltati in silenzio, al buio, quando sai di avere davanti a te
un’ora e un quarto di assoluta libertà durante la quale non avrai distrazioni
di sorta. Perché ascoltare i Jesu è un viaggio, emozionante e struggente.
E sicuramente non semplice. E che, come
detto, richiede una grande dedizione. Una dedizione assoluta.
Prendiamo appunto “Jesu” (ma lo
stesso si potrebbe dire per il successivo “Conqueror”). Le otto canzoni che lo
compongono sono molto omogenee, strutturate in modo pressocchè uguale: accordi doomici
pesanti come il piombo, lenti e massicci, distorti ed effettati, fanno da intro
alle song. Su di essi, ripetuti allo sfinimento, si innesteranno le piccole
variazioni strumentali sul tema, mentre ogni tanto la voce di Justin farà
capolino. Una voce timida, leggera, non professionale, sempre in sottofondo. A
ripetere sempre le stesse parole, combinate tra loro in modo leggermente differente, dando vita a versi "mantrici", come detto recitati ad libitum. Del resto voce e testi in “Jesu”
sono un contorno, importante per carità, ma non l’ingrediente
principale.
Sotto le coperte, al buio, ho
potuto come detto gustare appieno tutte le sfumature della musica del Nostro: entrando
nel mondo Jesu si ha la netta sensazione di essere da un lato presi di forza e
spinti in basso dalla pesantezza degli accordi ripetuti per interi minuti che
paiono non finire mai: è come affogare, lentamente ma inesorabilmente sotto il
livello del mare. Ma proprio quando la pressione diventa insopportabile, quando
i drones ti assalgono sfibrandoti, ecco giungere in ogni brano la linea
melodica salvifica, la parte vocale che ti commuove o il suono di tastiere dolci e
cariche di effetti. Questi elementi ti avvolgono, fino a creare un bozzolo fatto di
balsamo leggiadro capace di riportarti a galla. E dando la piacevole sensazione, come
titola un brano del disco, di “Walk on water”, di camminare sulle acque. Pesantezza e leggiadria, quindi: un ossimoro che in questi 75’ trova un’incredibile fisicità.
Potremmo scrivere molto altro
ancora, didascalicamente decantare le lodi di “Jesu”, disco decisivo per
l’intera decade metallica, parlando di un nuovo modo di intendere il post-metal, un
originale connubio di industrial, doom, drone declinato con un approccio
cantautoriale.
Ma non lo faremo. Perché quello
che ci preme sottolineare qui è che la musica dei Jesu è, prima e dopo tutto,
un rifugio per la nostra anima. Se disillusione, tristezza e angoscia vi
assalgono, se il vostro stato d'animo si potrebbe raffigurare come il grigio scorcio post-industriale della copertina di "Jesu", allora potrete ritrovare una catarsi nella musica di Justin, che coi Jesu
si mette a nudo, rivelando una grande personalità, ma soprattutto qualcosa che
negli abrasivi Godflesh non riusciva ad emergere in modo chiaro: un cuore caldo e fragile,
capace di perforare le spesse tenebre del proprio Io con intensi sprazzi di
luce purificatori.
Dalla “bestialità” dei Godflesh
all’umanità dei Jesu, diceva il nostro Mementomori.
Parafrasando: la Carne di Dio si
è fatta Uomo.
Justin l'ha fatto per se stesso. Donandolo a tutti noi.
A cura di Morningrise