Taime Downe è stato un personaggio centrale negli anni 80/90. Frontman di un gruppo di punta del glam-sleaze metal, proprietario del Cathouse Club, locale di punta della Los Angeles edonista dell’epoca...eppure allo stesso tempo anche poeta raffinato dell'anima, amico di intellettuali del calibro di De André, vincitore di prestigiosi premi letterari, noto per i suoi celebri aforismi dissacranti
del tipo “Le mosche non riposano mai perché la merda è davvero tanta“ o “Ho il colon ustionato di versi”.
Frasi che risuonavano sul Sunset Strip da un locale all'altro…. Come dite? Quella è Alda Merini? Boh, sarà, ma scusa parliamo di questa qui? Può essere che mi sia confuso, ma in foto sono praticamente gemelli.
Comunque, Taime portò nel glam metal una ventata...di lezzo, come si dice qua da noi, cioè quell’odore di solito acre e di dubbia provenienza, ma verosimilmente organica, che solitamente ti suscita repulsione e orripilazione. Invece Taime riuscì, come la Merini appunto, a unire lo sporco alla melodia, cosicché dopo aver ascoltato i brani dell’esordio omonimo si ha la stessa impressione di quando passi il dito sui mobili di una casa lasciata chiusa, e ti ritrovi con un cm di polvere. Da bambini capita, anche a me, di mettersi in bocca la polvere, o magari la terra, per quella curiosità orale che a quell’età è alla base dell’esplorazione del mondo. Ecco, il sapore dello sleaze-metal era quello, come una caramella coperta di polvere, che un bambino mette comunque in bocca per golosità. Una perfetta metafora degli anni ’80, ma anche la ricerca di una autenticità maggiore nel glam di quella che invece non proponevano altre band, più leccate, più ruffiane.
Come la Merini, i Nostri non rinunciano all’autenticità, e quindi ci ficcano dentro per forza di cose anche la sua parte sgradevole. Anziché la glassa, il dito di polvere.
Da questa idea nacquero appunto brani “degenerati” come l'epocale "Don’t change that song", in cui la stessa voce di Taime è un marchio emblematico, un’inflessione da tenutaria di bordello che ammicca ai clienti. Una musica che rappresenta il tritacarne sessuale di quell’ambiente, in cui tuttavia c’è anche il ridicolo di un mondo che fa la macchietta di se stesso, come se dovesse rendere speciale l’ordinario, baracconare il banale. E Taime dava quell’impressione, quella dell’imbonitore da luna park e della tenutaria, cioè qualcuno che non capisci se “la sa lunga” e quindi ti servirà bene, oppure ti frega perché non fa altro dalla mattina alla sera.
La poetica dei Faster, ispirata a quella del film omonimo, è che il motore dell’uomo sono sesso e violenza, in una sequenza che identifica il sesso come primo e maggiore movente della violenza stessa. La stessa poetica di Benvenuti nella giungla dei Guns n' Roses, contemporanei che riassumono l’ambiente “noi ti troviamo tutto quello che può piacerti, e quando finisci i soldi, amore, abbiamo pronta la tua rovina”. E’ un minuto da sederti in un privé, a trovarti nel vicolo dove buttano la spazzatura del locale.
Gli stessi gruppi glam hanno spesso seguito questa parabola commerciale e aristica. I Faster, per esempio, dopo un disco “centrato” e alcune altre canzoni memorabili, sono rimasti anni a litigarsi su chi avesse dovuto usare il nome Faster Pussycat. Un fatto di importanza paragonabile a quando te ne vai dall'appartamento in affitto e litighi sul proprietario su chi debba tenersi i due rotoli di carta igienica rimasta. "Me li porto via io, casomai mi servissero..." diceva, per esempio, Brent Muscat, il chitarrista. Ma poi scopriva che mancava uno strappo e quindi evidentemente Taime era passato e ci si era pulito a sua insaputa. E così via per anni e anni. Il rotolo non è ancora finito, incredibile.
Scusate se svilisco così la carriera dei Faster Pussycat, ma la magia del debutto non si è ripetuta, e il potenziale del nome "litigato" non era certo quello nel frattempo assunto da altri nomi del panorama glam. La peculiarità dello sleaze-metal dei FP, sia sul piano sonoro che su quello lirico, era di unire le movenze flessuose del glam a zozzerie di bassa macelleria, sesso basico e popolare vestito a festa. Come un porno anni 80, come Moana Pozzi con in mano una bombola di panna montata spray.
Insomma, come la Merini prima maniera, perché poi anche Alda si perse in questa autocelebrazione sterile del poeta che racconta dell'essere poeta, perde tempo nel cercare di dire cose definitive, e nel frattempo in realtà si spende in composizioni più innocue e prevedibili.
Il secondo disco dei Faster si intitolava Svegliami quando è finita...e al secondo pezzo appunto verrebbe voglia di dire "Taime...sveglia! Sveglia Taime...". Il disco contiene volgarità, ma non le valorizza musicalmente. Perle di poesia da osteria sprecate: il fiume del tuo amore dai tacchi alti ti cola giù lungo le cosce; o ancora metafore ardite come "soffia il mio fischietto" o "accendi il mio razzo" senza quel tappeto sonoro vibrante e sfrigolante che avrebbero richiesto. Perché suonano stonate frasi come la mia ragazza sussulta come un cavallo al trotto quando comincio a spingere, e perché il Taime che si racconta dominatore sadomaso ci imbarazza più che attizzarci? La cosa si spiega da sé, quando irrompe "House of pain", bellissima ballata sulla propria storia familiare: si sente allora tutto il silenzio lasciato da un'epoca rutilante e festosa che si è innalzata come un carro di carnevale sul dolore del passato, finché è durata. Brani come questo sono congedi veri, raggelanti, dalla tracotanza sleaze-metal.
Se fosse un bordello, un Cathouse, farebbe subito fallimento. Il bordello al piano terra di Taime infatti chiuse e si trasformò in un cocktail-bar all'ultimo piano, dove nessuno lo vedeva più. Non più in una casa di piacere, ma in una house of pain.
I FP erano la "Via del Campo" di Los Angeles, dove "c'è una puttana, occhi grandi, color di foglia, se di amarla di vien la voglia, basta prenderla per la mano / e ti sembra di andar lontano, lei ti guarda con un sorriso, non credevi che il paradiso, fosse solo lì al primo piano". Il paradiso era al primo piano, era basso, a livello di vicoli e retrobottega. Tra i miasmi, tra le ombre proprie e proiettate. Non ai piani superiori: Quelli sono i piani dei poeti che riflettono su se stessi, dello spompamento artistico, e -ultima moda- dei sopravvissuti che te la menano su quanto hanno rischiato negli anni d'oro del successo improvviso, o quanto sono stati male per uscire dalla depressione.
Taime ci ha lasciato fuori dalla porta della house of pain, come ad ammonirci: cari fans, non entrate - le nostre strade da qui in poi si dividono. Buona fortuna.
Anche se uno volesse trasmettere un messaggio alle nuove generazioni, che volete che ne traggano se in quei periodi "maledetti" eravate maledettamente più belli, più pungenti, più penetranti? Se mai il messaggio vero di Downe era che o si danza sulle macerie umane dell'edonismo, come nella bellissima "Smash Alley", oppure si piange per le proprie macerie interiori, ancora più antiche (come in "House of Pain"), ma allora si rovina la festa, ed è come dire "Slower, pussycat"; è come dire “Sarà meglio cambiare canzone?”.
Ed ecco che niente sarà più come prima.
A cura del dottore
del tipo “Le mosche non riposano mai perché la merda è davvero tanta“ o “Ho il colon ustionato di versi”.
Frasi che risuonavano sul Sunset Strip da un locale all'altro…. Come dite? Quella è Alda Merini? Boh, sarà, ma scusa parliamo di questa qui? Può essere che mi sia confuso, ma in foto sono praticamente gemelli.
Comunque, Taime portò nel glam metal una ventata...di lezzo, come si dice qua da noi, cioè quell’odore di solito acre e di dubbia provenienza, ma verosimilmente organica, che solitamente ti suscita repulsione e orripilazione. Invece Taime riuscì, come la Merini appunto, a unire lo sporco alla melodia, cosicché dopo aver ascoltato i brani dell’esordio omonimo si ha la stessa impressione di quando passi il dito sui mobili di una casa lasciata chiusa, e ti ritrovi con un cm di polvere. Da bambini capita, anche a me, di mettersi in bocca la polvere, o magari la terra, per quella curiosità orale che a quell’età è alla base dell’esplorazione del mondo. Ecco, il sapore dello sleaze-metal era quello, come una caramella coperta di polvere, che un bambino mette comunque in bocca per golosità. Una perfetta metafora degli anni ’80, ma anche la ricerca di una autenticità maggiore nel glam di quella che invece non proponevano altre band, più leccate, più ruffiane.
Come la Merini, i Nostri non rinunciano all’autenticità, e quindi ci ficcano dentro per forza di cose anche la sua parte sgradevole. Anziché la glassa, il dito di polvere.
Da questa idea nacquero appunto brani “degenerati” come l'epocale "Don’t change that song", in cui la stessa voce di Taime è un marchio emblematico, un’inflessione da tenutaria di bordello che ammicca ai clienti. Una musica che rappresenta il tritacarne sessuale di quell’ambiente, in cui tuttavia c’è anche il ridicolo di un mondo che fa la macchietta di se stesso, come se dovesse rendere speciale l’ordinario, baracconare il banale. E Taime dava quell’impressione, quella dell’imbonitore da luna park e della tenutaria, cioè qualcuno che non capisci se “la sa lunga” e quindi ti servirà bene, oppure ti frega perché non fa altro dalla mattina alla sera.
La poetica dei Faster, ispirata a quella del film omonimo, è che il motore dell’uomo sono sesso e violenza, in una sequenza che identifica il sesso come primo e maggiore movente della violenza stessa. La stessa poetica di Benvenuti nella giungla dei Guns n' Roses, contemporanei che riassumono l’ambiente “noi ti troviamo tutto quello che può piacerti, e quando finisci i soldi, amore, abbiamo pronta la tua rovina”. E’ un minuto da sederti in un privé, a trovarti nel vicolo dove buttano la spazzatura del locale.
Gli stessi gruppi glam hanno spesso seguito questa parabola commerciale e aristica. I Faster, per esempio, dopo un disco “centrato” e alcune altre canzoni memorabili, sono rimasti anni a litigarsi su chi avesse dovuto usare il nome Faster Pussycat. Un fatto di importanza paragonabile a quando te ne vai dall'appartamento in affitto e litighi sul proprietario su chi debba tenersi i due rotoli di carta igienica rimasta. "Me li porto via io, casomai mi servissero..." diceva, per esempio, Brent Muscat, il chitarrista. Ma poi scopriva che mancava uno strappo e quindi evidentemente Taime era passato e ci si era pulito a sua insaputa. E così via per anni e anni. Il rotolo non è ancora finito, incredibile.
Scusate se svilisco così la carriera dei Faster Pussycat, ma la magia del debutto non si è ripetuta, e il potenziale del nome "litigato" non era certo quello nel frattempo assunto da altri nomi del panorama glam. La peculiarità dello sleaze-metal dei FP, sia sul piano sonoro che su quello lirico, era di unire le movenze flessuose del glam a zozzerie di bassa macelleria, sesso basico e popolare vestito a festa. Come un porno anni 80, come Moana Pozzi con in mano una bombola di panna montata spray.
Insomma, come la Merini prima maniera, perché poi anche Alda si perse in questa autocelebrazione sterile del poeta che racconta dell'essere poeta, perde tempo nel cercare di dire cose definitive, e nel frattempo in realtà si spende in composizioni più innocue e prevedibili.
Il secondo disco dei Faster si intitolava Svegliami quando è finita...e al secondo pezzo appunto verrebbe voglia di dire "Taime...sveglia! Sveglia Taime...". Il disco contiene volgarità, ma non le valorizza musicalmente. Perle di poesia da osteria sprecate: il fiume del tuo amore dai tacchi alti ti cola giù lungo le cosce; o ancora metafore ardite come "soffia il mio fischietto" o "accendi il mio razzo" senza quel tappeto sonoro vibrante e sfrigolante che avrebbero richiesto. Perché suonano stonate frasi come la mia ragazza sussulta come un cavallo al trotto quando comincio a spingere, e perché il Taime che si racconta dominatore sadomaso ci imbarazza più che attizzarci? La cosa si spiega da sé, quando irrompe "House of pain", bellissima ballata sulla propria storia familiare: si sente allora tutto il silenzio lasciato da un'epoca rutilante e festosa che si è innalzata come un carro di carnevale sul dolore del passato, finché è durata. Brani come questo sono congedi veri, raggelanti, dalla tracotanza sleaze-metal.
Se fosse un bordello, un Cathouse, farebbe subito fallimento. Il bordello al piano terra di Taime infatti chiuse e si trasformò in un cocktail-bar all'ultimo piano, dove nessuno lo vedeva più. Non più in una casa di piacere, ma in una house of pain.
I FP erano la "Via del Campo" di Los Angeles, dove "c'è una puttana, occhi grandi, color di foglia, se di amarla di vien la voglia, basta prenderla per la mano / e ti sembra di andar lontano, lei ti guarda con un sorriso, non credevi che il paradiso, fosse solo lì al primo piano". Il paradiso era al primo piano, era basso, a livello di vicoli e retrobottega. Tra i miasmi, tra le ombre proprie e proiettate. Non ai piani superiori: Quelli sono i piani dei poeti che riflettono su se stessi, dello spompamento artistico, e -ultima moda- dei sopravvissuti che te la menano su quanto hanno rischiato negli anni d'oro del successo improvviso, o quanto sono stati male per uscire dalla depressione.
Taime ci ha lasciato fuori dalla porta della house of pain, come ad ammonirci: cari fans, non entrate - le nostre strade da qui in poi si dividono. Buona fortuna.
Anche se uno volesse trasmettere un messaggio alle nuove generazioni, che volete che ne traggano se in quei periodi "maledetti" eravate maledettamente più belli, più pungenti, più penetranti? Se mai il messaggio vero di Downe era che o si danza sulle macerie umane dell'edonismo, come nella bellissima "Smash Alley", oppure si piange per le proprie macerie interiori, ancora più antiche (come in "House of Pain"), ma allora si rovina la festa, ed è come dire "Slower, pussycat"; è come dire “Sarà meglio cambiare canzone?”.
Ed ecco che niente sarà più come prima.
A cura del dottore